domenica 31 agosto 2014

Robin Williams

Robin Williams è morto. Si è suicidato. Aveva il Parkinson... Eh, già: era uno dei "nostri", un'altro bradipo tremante. La moglie, quasi scusandosi, precisa "Non era ancora pronto a dirlo..." A chi? A se stesso o a noi? Noi, malati e sani, pubblico giudicante, ma non più della sua bravura di attore bensì dei suoi limiti di malato. Cosa avrà pensato? Non possiamo saperlo: possiamo solo intuirlo. Ci ha sbattuto in faccia la sua scelta: definitiva, immodificabile. Ha scelto la morte, non una vita da malato.
La morte è sguaiata, indecente, scandalosa... Anche la malattia. Vivere richiede coraggio, soprattutto quando si è affetti da una malattia neurologica degenerativa e progressiva... Anche morire, anche morire richiede coraggio. Tanto. Alzi la mano chi non ha mai pensato al suicidio. 
Forse è da qui, dal binomio vita/morte che saremmo dovuti partire, e dai sentimenti che accompagnano questi limiti di quel segmento netto che è la vita. Veniamo al mondo non per nostra volontà, ci scaraventano in questa avventura piena di insidie i genitori che cercano, spesso senza riuscirci, di attrezzarci al meglio per la vita. Non decidiamo la nascita ma possiamo decidere la morte e... qualcuno lo fa. E' una scelta che lascia intuire rabbia e disperazione non più gestibili, non più sopportabili. E' il momento in cui diventa più difficile e doloroso vivere che morire. E' un atto di vigliaccheria o di coraggio? Perché porsi questa domanda? Ha importanza dare un nome a quello tsunami di emozioni che induce a un gesto simile? Etichettarlo equivarrebbe solo a giudicarlo, ed era proprio questo che Robin Williams temeva: gli sguardi impietosi sulle proprie mani tremanti, il fastidio che avrebbe letto negli occhi degli altri di fronte alla lentezza, all'impaccio... Era l'inserimento, suo malgrado, nella categoria dei "diversi".
Questo gesto non va giudicato, va solo rispettato...