martedì 28 aprile 2009

Rose e giunchiglie

Monotona, la pioggia rigava i vetri della finestra, inzuppando la terra del giardino che esalava profumi stantii di foglie lasciate marcire. “ Sposa bagnata, sposa fortunata” le aveva squillato all’orecchio, poco prima al telefono, l'amica del cuore. Alle sue spalle, bianco e leggero, il suo abito da sposa, appoggiato a una gruccia, sembrava una nuvola spersa in un cielo in tempesta. Il campanello suonava in continuazione e fattorini frettolosi consegnavano pacchi e fiori. Sua madre e sua sorella, con gridolini d’impazienza, seguiti da esclamazioni di meraviglia, li scartavano.
Le bomboniere occupavano quasi tutto il ripiano del tavolo e la casa traboccava di fiori dai profumi intensi che, mescolandosi all'odore della pioggia, la riportavano a qualcosa che affiorava alla sua memoria, insistente, fastidioso come una mosca impazzita che, ronzando, tentasse inutilmente di uscire da una stanza chiusa.
“Sarai emozionatissima!“ Aprì la bocca per rispondere a sua madre, ma stava già svolazzando verso il corridoio, diretta all’ingresso, mentre il suono del campanello riprendeva a diffondersi per la casa. Non era emozionata, era tesa e vigile – pensò – mentre la sua attenzione si concentrava su quel profumo che evocava concitazione. E gente. Gente che la baciava, l’abbracciava, mormorando frasi di convenienza. Fiori dappertutto anche allora, abiti scuri e voci sussurrate, nella cappella mortuaria che accoglieva la bara di sua nonna. L’aveva amata molto e lei ancora avvertiva il dolore per la sua assenza. Cosa le avrebbe detto se fosse stata lì? Si sarebbe occupata dei fiori e dei regali, oppure avrebbe messo sul fuoco il bollitore, tolto i biscotti fatti in casa dalla credenza e, accarezzandola con quello sguardo gonfio d’orgoglio che abitualmente le riservava, si sarebbe seduta davanti a lei e le avrebbe chiesto:
“ Sei sicura della tua scelta?”
“ Ormai” lei avrebbe risposto.
“ Ormai un corno!” e la sua voce avrebbe avuto un’intonazione ferma, decisa. Gli occhi piantati su di lei, avrebbe aggiunto “Se non sei convinta, si blocca tutto. Per pagare e sposarsi c’è sempre tempo”.
Mentre sua madre rientrava nella stanza, l’ennesimo pacco tra le mani, lei inspirò con forza, mentre quelle parole “ Non mi sposo” volavano nell’aria schiantandosi sui volti attoniti della madre e della sorella. Con un filo di voce sua madre disse: “ Non puoi..” e la sorella si accodò, mormorando “Ormai…”
Lei, il sorriso che, accendendole lo sguardo di sollievo, diventava una risata “Ormai un corno!”gridò.
Fuori, il vento rubava le nuvole al cielo liberando il sole mentre, a mazzi, rose e giunchiglie finivano nel sacco della spazzatura.

domenica 26 aprile 2009

Scrittrice o scribacchina

E si incomincia a rivedere, rifinire, aggiungere, togliere. Più togliere che aggiungere. Troppi avverbi, troppe virgole. Anche troppe descrizioni, forse qualche dialogo ridotto o tagliato tout court. Incomincia a uscirti dagli occhi, ma non va, non va ancora.
Ti rendi conto che dovresti parlarne con qualcuno: qualcuno di cui ti fidi. Dovrebbe amare la lettura, essere uno che sa scrivere, ma non uno scrittore, avere la pazienza di Giobbe. Ci vorrebbe un editor, ma dove lo trovi? A stento sai cos'è e ti consigliano di essere prudente. Insomma è arrivato il momento di affrontare un primo giudizio di massima, dopo avere fatto il preliminare lavoro di revisione.
E tu hai una fifa blù.
Lo consegni, aspetti. E speri.
Indispensabile sarebbe farlo leggere a chi non ha remore a massacrartelo, il libro. E l'autrice? Se necessario anche quella. Ci si resta male, ma il lettore, se preparato, dà suggerimenti e fa critiche che, se non ti stroncano invitandoti a darti all'ippica, andrebbero ascoltate, riascoltate e risentite. Nove su dieci, molte sono valide.
Ti senti una cacca e ricominci: a rivederlo. Di nuovo.
Lo dai da leggere a altri.
I parenti spesso plaudono alla scrittrice. Diffidarne.
Qualcuno ti consiglia di lasciarlo riposare. Come il vino? Sì, ma non troppo, potrebbe andare in aceto.
Incominci a chiederti se non sia una sfiga nera avere questa passione travolgente per la scrittura, mentre lo rivedi per la quinta volta, e lo metti nel cassetto temendo che possa essere la sua collocazione definitiva.
Tanto lavoro per nulla? Non saresti la prima. Migliaia di sogni - pardon libri - finiscono nei cassetti.
Ora però gli amici ti chiedono scherzosi "A quando la pubblicazione?" e allora passi alla fase due, digitando per la prima volta sul tuo computer "Casa editrice" e non hai ancora idea, povero tapino, del ginepraio nel quale ti stai cacciando.
E per l'esordiente e ingenuo scrittore ha inizio il viaggio nel mondo dell'editoria, uno degli ultimi gironi dell'inferno, quello in cui sarà condannato a spedire lettere, costate lacrime e sangue con accluso manoscritto, a editori che non risponderanno nemmeno con un "Fa schifo!" Non risponderanno e basta!Ho il sospetto, che si rivelerà prontamente certezza, che nemmeno leggeranno.
Il silenzio calerà sul tuo romanzo, impenetrabile come un muro di nebbia, e come su un muro di nebbia rimbalzano luci e suoni, così tutti i tuoi sforzi per farti pubblicare s'infrangeranno su porte per te sprangate sul nulla.
" Uno su mille ce la fa" e novecentonovantanove trovano soluzioni più o meno fantasiose.
Gli irriducibili se lo faranno stampare a spese proprie, o "con un contributo" alle spese su suggerimento dell'editore. Sono quelli disposti a tutto pur di vedere il proprio nome su un libro. " L'ha fatto anche Moravia" ti dicono. Vabbé, se è per questo l'ha fatto pure Pasolini, ma non mi sembra un motivo valido. Come gli illustri predecessori questi ci credono proprio al fatto di essere bravi. Incompresi, ma bravi. Bisogna tirare fuori da sé anche l'arroganza, a patto di possederla. Poi ci sono quelli che ai dannatissimi editori - che considerano la scrittura, nella fattispecie la nostra (sic), arte, un investimento valutabile in termini di capitale impiegato, rischio assunto, e possibile ritorno in termini di profitto nonché confronto con investimenti alternativi - sputerebbero in un occhio, e quindi si rifiutano di scendere a patti, affermando perentori che il loro romanzo tornerà dove in fondo è sempre stato: nel cassetto. Lo leggeranno figli e nipoti. Meglio che niente.
Ci sono poi i " prezzemolini": quelli che con sette, otto copie sotto braccio, s'infilano in qualunque luogo dove ci sia una manifestazione libresca, si consegni un premio, si parli, a qualunque titolo, di libri. E, con un po' di fortuna, chissà, potrebbero riuscire a incuriosire qualcuno che, trovandosi quel manoscritto tra le sue carte, magari un'occhio potrebbe finire per allungarlo.
Confesso che ho pensato, spesso con sollievo, che per me è stata un'avventura, esaltante ma comunque un'avventura, decisa e capitata in un'età in cui si pensa più all'ospizio che al successo. La vita, quasi tutta alle spalle, con l'inevitabile saggezza che questo comporta, mi hanno indotta ad alcune rapide considerazioni: in fondo ideologicamente sono per la fruibilità di tutto ciò che è bello(ammettendo che quello che ho scritto sia tale) da parte di tutti, onde e per cui, se a qualcuno dovesse interessare, darò modo di scaricarlo da internet. Non è questo lo spirito del blogger?
Ultima cosa: sono una curiosa e alla fin fine mi piacerebbe avere una risposta alla domanda che non ho mai smesso di pormi: " Cos'è che fa di uno che scrive uno scrittore, e io cosa sono? Scrittrice o scribacchina?"

sabato 25 aprile 2009

Scrittura mon amour

La scrittura come fatica così pesante, così intensa,  non l’avevo ipotizzata. Quella ricerca del ritmo e quella fluidità che si possono, si devono spezzare quando irrompe sulla scena qualcosa che cambia, modifica definitivamente, creando un ‘prima’ e un ‘dopo’ nettamente distinti, spesso mancavano a ciò che scrivevo, risultavano difficili da trovare come un ago in un pagliaio.
Il carattere di chi scrive influenza la scrittura? E gli scrittori hanno qualcosa in comune? Risponderei sì a entrambe le domande. Gli scrittori sono artisti, il loro modo di percepire la realtà è diverso, più immediato e profondo. Come gli scienziati sono curiosi. Lo scrittore osserva, studia il mondo che lo circonda nei minimi particolari per dare verosimiglianza a ciò che scrive, ma il suo obiettivo è emozionare e solo in subordine informare. La sua capacità è quella di trasformare il resoconto in racconto. Vive in una dimensione ‘altra’ , è un sovvertitore di destini, un collezionista di vite che divora con appetito bulimico, ma…ma la sua furibonda fantasia deve essere filtrata attraverso la rigorosità dei passaggi logici, trovando un costante equilibrio tra passione, ragione e forma stilistica.
Predisposto all’ascolto, partecipa a ciò che gli viene raccontato, da un bambino come da un vecchio, consegnandosi calzato e vestito all’emozione. Non può difendersi, porsi al riparo dalla vita chi vuole scrivere: la serenità è senza storia. E’ noia. Con un “E vissero felici e contenti …” le fiabe si concludono e i romanzi cominciano.
Ma l’emozione va filtrata, depurata, ripulita. Come un puledro selvaggio va domata, è lo scrittore che sceglie le parole, che ne stabilisce il trotto o le scatena al galoppo, ma tenendo saldamente in mano le redini. La scrittura è passione e delle passioni ha le caratteristiche: è dirompente, prorompente, esclusiva; non tollera concorrenti, né diversivi, reclama per sé ogni spazio. Fa piazza pulita del pudore, ti consegna al lettore nella tua intimità, senza veli, senza infingimenti. Il tuo lato in ombra sotto il sole a picco…
Lo scrittore si cala, speleologo dell’anima, nei cunicoli, fruga nella memoria riportando a galla i ricordi dimenticati, lustrandoli e facendoli brillare come fossero nuovi di pacca dopo averli strappati, a brandelli, a morsi all’oblio. Spazia nel tempo, prevedendo il futuro che altro non è se non una verosimile ipotesi tra le tante che la fantasia suggerisce, e veleggia nello spazio, facendo del mondo il suo palcoscenico.
Mi rimane sempre una domanda, la domanda per eccellenza, quella a cui non riesco a dare una risposta: cosa differenzia chi scrive da uno scrittore?

venerdì 24 aprile 2009

Camilla

“ Eh sì! Fu proprio l’anno in cui i gerani continuarono, anche in pieno inverno, a fiorire: piccoli fiori striminziti, pallidi per la scarsa luce che le brevi giornate invernali concedevano. Ostinatamente, anche tra una spruzzata di neve e l’altra, i gerani continuarono a fiorire, i colori che si confondevano con le strisce arcobaleno delle bandiere della pace che, stracciate dal vento, imbrattate dallo smog, infradiciate dalla pioggia, fecero capolino sempre più numerose sui davanzali delle finestre dando alla città un inquietante effetto colore. Eh sì, ragazzi! Fu proprio l’anno in cui scoppiò la guerra “.
Camilla, rattrappita dall’artrosi, sedeva davanti al computer, lasciando scorrere lo sguardo sul monitor. Accanto, la badante cyborg batteva per lei sui tasti con leggerezza. Negli occhi della donna, sommersi dalle rughe, emergevano confondendosi ricordi ed emozioni che il computer memorizzava. L’avevano invitata a raccontare, come una delle ultime sopravvissute all’orrore della guerra, e centinaia di “menti” stavano incamerando, senza interromperla, i suoi ricordi come informazioni.
L’emozione le prendeva la gola mentre il pensiero tornava a quegli anni.
Riprendendo il filo del discorso, Camilla proseguì: “ Eh sì, ragazzi! Io notai, con stupore e inquietudine, la fioritura invernale dei gerani e la crescita anomale delle piante sul mio terrazzo, che lo avevano trasformato in una giungla equatoriale. Poi cominciarono i bombardamenti sulle città e gli attentati. I primi segnali del cambiamento climatico in atto si erano avvertiti già prima della guerra, ma la situazione divenne esplosiva dopo che migliaia di bombe trasformarono intere zone del pianeta in deserti rossastri e brulli, crivellati di buche profonde. Il paesaggio terrestre si trasformò in paesaggio lunare e quelle zone, come ben sapete, vengono oggi utilizzate soltanto per ambientarvi, risparmiando sugli effetti speciali, film di fantascienza”.
Camilla, sommersa dal peso dei ricordi, per un istante tacque. Poi, faticosamente, riprese a raccontare:
“ Il silenzio invase quelle valli che, come ferite, incidevano la terra, circondò le macerie, si accoccolò pietoso accanto ai morti, e tutto si sbriciolò in polvere sotto il sole che continuava a incendiare in tramonti arroventati quel paesaggio di morte.
Dopo due mesi dallo scoppio della guerra, mio marito morì nell’attentato che distrusse la metropolitana di Milano “.
La platea mandò dei commenti. Tutti i libri di scuola riportavano video e testimonianze di uno dei più terribili attentati di quegli anni. In quella grigia giornata autunnale, complice anche la pioggia che cadeva fitta, rimbalzando sugli ombrelli e formando larghe pozzanghere sull’asfalto, quasi tutti avevano preso la metropolitana…
I vigili del fuoco, richiamati da tutto il Paese, avevano scavato per mesi, riportando in superficie corpi sfigurati e oggetti personali sui quali i familiari delle vittime si avventavano alla ricerca di un ricordo dei loro congiunti che li aiutasse ad identificarli. In una scatola, che conteneva soltanto anelli, una fede con incise quelle parole: - Camilla, dodici dicembre 2010 –
Se l’accarezzò furtivamente, sfiorando l’anulare destro, piegato dall’artrite.
La commozione le chiuse la gola, mentre la badante si alzava per accostava il carrozzino alla vetrata della sala. Il sole era una palla violacea e incandescente e, sotto all’astronave che dondolava lenta, girava su se stessa la terra!
Sorrise.
Le avevano promesso che avrebbero riportato le sue ceneri dove era nata, in quella terra, segnata con la sigla XK 23, terra che per lei era ancora roccia carsica, aspra e bianca dietro ai cespugli di sommacco e biancospino. E mare che mormorava, urlava o sussurrava…
Come spiegare tutto ciò a quelle strane creature?
La guerra, soprattutto quella batteriologica dell’ultimo periodo, aveva sterminato quasi completamente la popolazione della Terra.
Ma essendosi già fatta strada la concezione dell’informazione–coscienza, la sua indistruttibilità e il concetto della mente come software collocato in quell’hardware che è il cervello, aveva anche avuto attuazione il progetto che contemplava il dowloading della mente. I computer che la guerra batteriologica non aveva danneggiato contenevano menti disincarnate praticamente immortali libere di vagare all’interno della rete. Ma il corpo gravame per l’anima e l’intelletto, e nessuno meglio di Camilla, tormentata da acciacchi senili poteva saperlo, era anche trait d’union con la natura circostante, o meglio ciò che la natura era stata. Potevano capirlo recuperando nella memoria le informazioni legate alle emozioni, ma un tramonto sul mare, l’aria di primavera, il profumo della vita da assaporare con i sensi…
Dovrebbero uccidermi, pensò, vendicarsi del nulla o poco fatto per evitare lo scempio, il massacro…ma, nell’astronave sospesa nello spazio vibrava soltanto il silenzio.

I sogni son desideri

Se ci lasciassimo scivolare, senza freni inibitori, lungo il crinale delle emozioni, disponibili a snidare i segreti, mandati in castigo, faccia contro il muro, come bambini disobbedienti dimenticati negli angoli bui della coscienza, cosa potrebbe succedere? Di scoprire l’altra faccia della luna, quella in ombra…la terra dove i lupi sbranano gli agnelli e i sogni diventano incubi per liberare i segreti dalle loro prigioni.
Lo psicologo che, a lato, sussurra: “ I sogni son desideri “…

Primavera

Improvvisamente l'aria fredda, aspra e ventosa, si addolcisce. La sciarpa intorno al collo stringe, avverto l'impaccio dei guanti.
Questa mattina, andando in ufficio, il ramo era brullo, nero di pioggia e lustro come una pelle di serpente. Ora che, ciondolando stanchezza, torno a casa dal lavoro, una gemma è spuntata e sembra inturgidirsi sotto i miei occhi.
Non mi meraviglierei se esplodesse, srotolandomi davanti agli occhi una foglia, nuova di pacca.
Euforica, respiro aria di primavera.

giovedì 23 aprile 2009

La scrittura non è solo malia

La scrittura? Quale?
Quella incontenibile come un fiume in piena, densa e sfibrante come una notte estiva? Quella che aggredisce per capire, che scava nel dolore, nello sgomento del protagonista contando su una sensibilità che è invalidante come una ferita e salvifica come un'ultima spiaggia? Come trovare tecnicamente la capacità di controllo del mezzo espressivo, come piegare alle proprie esigenze emotive le parole?
Ci sono tanti modi di esprimere, per esempio, il dolore: il dolore arrivava a ondate che si susseguivano incalzandola, senza lasciarle spazio, sommergendola, togliendole il respiro. La testa le girava intorno a poche parole, ossessive, ma che non riusciva a pronunciare. Per pochi secondi s'illuse di non aver capito, ma fu un sollievo momentaneo...

Tentiamo ancora:
aprì la bocca per respirare e boccheggiò cercando invano un po' d'aria, una via di fuga.
Capì di essere accerchiata, imprigionata, braccata, in balia di un dolore dilagante, nero come una notte abbandonata dalla luna, aspro come un terrore infantile, bruciante come una ferita inferta all'orgoglio.

Oppure:
il dolore provato avrebbe sfigurato per sempre la sua anima, rendendo il suo sguardo
azzurro freddo come un lago d'inverno, oscurato da brume e spazzato, senza tregua, da un vento di tramontana.

E se:
il dolore la ingoiò, svuotandola di tutto ciò che era stata.

Ultimo tentativo:
tagliente come un coltello, il dolore la straziò.

Ancora uno:
negli occhi, vuoti, non c’era più posto, nemmeno per il dolore.

Quale tra queste modalità espressive del sentimento del dolore può considerarsi la migliore? Dipende dal
contesto? Qualcuna è troppo ridondante e le ultime troppo scarne?
(continua)

mercoledì 22 aprile 2009

Amore

Amore

Alzò gli occhi e i loro sguardi s’incrociarono.
Si sentì tremare. Dentro.
Il sangue affluito al cervello, picchiando sulle tempie, le annebbiò lo sguardo.
Un’energia inaspettata le mosse i fianchi al ritmo di una melodia che aumentava d’intensità.
I piedi incominciarono a battere sul terreno, mentre le braccia disegnavano spirali … ta,ta,tata, tari ta ta , ta,taaaaa.... veloci, sempre più veloci..
Lui l’aveva invitata a ballare.
Ballare?
Avrebbe potuto volare, come un aquilone ubriaco di vento.
Avrebbe potuto cantare, con quella sua voce stonata che, lo sapeva, ormai lo intuiva, si sarebbe potuta levare alta e limpida come quella di una solista, confusa tra i ceri, dietro l’altare di una chiesa.
Era lui il suo amore.
E, ora, avrebbe potuto anche morire perché, anche se solamente per un istante, aveva riafferrato la vita e, a quella baldracca senza tempo, i grandi occhi chiari gravidi di ricordi, aveva riso in faccia.

La prima stesura

L’inizio c’era e anche una serie di episodi significativi catalogati in ordine temporale. Incominciai a legarli tra loro attraverso il racconto di una quotidianità che si avvaleva di immagini vissute, lette, elaborate nel tempo. La storia minuta, umile, scandita dai pasti, dai risvegli e dalle colazioni, dagli inevitabili attriti e nervosismi legati alla convivenza in spazi ristretti, faceva da contraltare domestico alla Storia, la grande storia, che seguiva il suo corso, spesso appena percepita dai singoli, se non di fronte alle grandi catastrofi come la Prima guerra mondiale che, irrompendo sulla scena del romanzo, coagulava intorno ai disagi, alle morti e alla fame l’attenzione e le priorità di tutti i componenti della famiglia.
Trieste, provincia inquieta e ribelle dell’Austria Ungheria, irredentista, ma a “macchia di leopardo" poiché non tutta la borghesia auspicava il ritorno alla madre patria, circondata da contadini carsolini di lingua slava, abituata al rigore amministrativo, alla cultura e alla incorruttibilità dei funzionari austriaci, era ed è città dalle molte anime che esprimono una triestinità complessa e particolare, difficile da capire per chi non l’abbia vissuta sulla propria pelle. Anche nella famiglia Odero i figli crescendo sveleranno anime diverse in cui si rifletterà come in un gioco di specchi la complessità che è propria della città che li ha accolti. E’la difficoltà d’inserimento che travaglia chi lascia la propria terra, ma si porta nei cromosomi un'inalienabile specificità culturale. La città, ricca e liberale, vivrà una sofferta e deludente riunificazione alla madre patria, farà i conti con il fascismo, le leggi razziali e il disastro della Seconda guerra mondiale, la Adriatisches Kustenland e l’orrore della Risiera di San Sabba.
Il romanzo si concluderà con la liberazione di Trieste, l’occupazione titina e il sentore dell’aspra contesa territoriale di cui la città sarà oggetto tra gli alleati occidentali.
Un confine vagante che, prima di dividere terre, giardini, case e camposanti attraversando, invisibile e/o immaginario, anche la coscienza e l’anima dei protagonisti, diventerà simbolo per ogni triestino di "un'identità di frontiera".
(continua)

lunedì 20 aprile 2009

Incipit

E venne il giorno in cui, seduta davanti al computer, scrissi Capitolo 1°, pomposamente, tanto per farmi coraggio. In che contesto temporale e geografico collocare il mio romanzo? Questa scelta fu facile: sono cresciuta tra Udine, Gorizia e Trieste e ancora mi viene da sorridere quando ripenso a uno “stage”, fatto in Francia , alla fine degli anni ’60 e all’impaccio con cui mi chiedevano “Trieste? Est- tu italienne?” Girando l’Italia mi sono accorta che la gente sa poco o nulla della mia città, delle sette bandiere che nel Novecento sventolarono sui suoi pennoni, della comunità ebraica che accolse Weiss, dei suoi molti, troppi cimiteri, delle sue tante chiese, di quel suo essere “crogiolo” di razze e culture, ma certamente non per chi la conosca a fondo. Trieste è una città strana, dove le “mule” sono piene di “morbin” e i “muli” hanno il gusto del “vitz”. E’ una città dove, tra amici, ci si scrive in dialetto, la lingua in cui io “ancora amo, impreco e canto”.
Città unica, incastonata tra il mare, che le dà respiro e spazio, e il Carso, che il sommacco accende di rosso e giallo, Trieste è decadenza indolente, sempre con il pensiero rivolto al passato, in un borbottio astioso che sfuma in mugugno costante.
Bambina, tutto sentivo parlare fuorché l’italiano. Gli zii e mio padre, che avevano frequentato le scuole dell’Impero - il buon Francesco Giuseppe, in questa turbolenta provincia mandava i migliori funzionari e insegnanti di cui disponeva - per non farsi capire da noi bambini parlavano in tedesco, mentre mia nonna in cucina litigava in croato con la figlia maggiore. L’altra nonna mi insegnava intanto il dialetto istriano – e di Goldoni non mi sarebbe più sfuggita nemmeno una parola – e a Udine imparavo il friulano.
A scuola, in prima elementare, con quale fatica è facile immaginarlo, finalmente cominciai a parlare in italiano. I nonni paterni non erano triestini: il nonno apparteneva alle minoranze italiane che popolavano la costa dalmata e la moglie era croata.
Approdarono a Trieste perché era per loro una terra promessa: una città ricca di opportunità lavorative, dove aveva già fatto fortuna un loro parente. Inoltre, la nonna in seguito alla morte dei due figli più piccoli era quasi impazzita e il marito l’aveva portata a Trieste nella speranza che il cambiamento d’ambiente l’aiutasse a convivere con quel dolore o a superarlo.
E così iniziai il romanzo descrivendo l’arrivo, via nave, dei miei nonni con le loro tre figlie, in quella Trieste dei primi del Novecento grande emporio dell’impero austro ungarico.
Sulle spalle non soltanto il peso di quei fagotti in cui avevano tentato di stipare il passato, ma lo strappo che da quel passato li avrebbe separati per sempre.




“ La nave passeggeri, pilotata da un rimorchiatore, attraccò in perfetto orario al molo di Trieste. Carica di bagagli, una folla variopinta, si accalcava in direzione della scaletta attorno alla quale si muovevano, efficienti e veloci, i marinai.
La gente cominciò a scendere.
Su una panca della nave, spersa in un mare di fagotti accatastati intorno a lei, stava, nerovestita dalla testa ai piedi ad eccezione di un fazzoletto colorato annodato intorno al capo a coprirle la fronte, una donna alta, il corpo arrotondato dalle numerose maternità. Con una bambina stretta al petto e altre due aggrappate alla gonna, sedeva immobile, apparentemente nell’attesa di qualcosa o di qualcuno, respirando quell’aria per lei nuova che sapeva di vento e di salmastro.
“ Vincenzo, siamo arrivati? “.
L’uomo, che si era avvicinato alla panca portando sulle spalle un altro ingombrante pacco legato alla meglio con dello spago, annuì sorridendo, il braccio teso a indicarle la città di cui, ora, s’intravedevano i palazzi imponenti, le rive lambite dall’acqua, i grandi viali alberati e, a destra dietro agli attracchi delle navi, la serie ininterrotta dei magazzini dai quali entravano e uscivano traballanti carichi di merce..."
(continua)

Episodi slegati prendono il volo.

Per prima cosa buttai giù quelle storie come le ricordavo, con quel sapore d’infanzia, con lo stesso stupore con cui le avevo accolte, senza filtrarle e ridimensionarle attraverso uno sguardo adulto e dissacratorio. E’ strano questo meccanismo della memoria che seleziona i ricordi secondo presupposti che spesso, a un primo esame, risultano incomprensibili.
Infatti venivo letteralmente inondata di ricordi, ma in quella fase subentrò un fatto nuovo: i personaggi e le loro storie, già enfatizzati nei racconti infantili, ora prendevano il volo, uscivano dagli schemi mnemonici, piegandosi alle finalità del romanzo, sì perché avevo già nell’anima e nel cervello la storia di una famiglia, alla quale la mia famiglia si limitava a prestare qualcosa di sé.
Connotai i personaggi in modo da differenziarli nettamente, facendo e sfacendo le loro vite e diventando arbitra del loro destino. Ero la voce narrante, il burattinaio che tirava i fili e, senza nemmeno rendermene conto, ero diventata io la cantastorie, prendendo il posto della zia.
Piedi in terra e testa tra le nuvole, prendeva corpo l'invenzione letteraria.
Ricordo mia madre che, leggiucchiando qua e là i miei appunti, commentava disorientata dicendo: “ Ma non è andata così… “ e io che, riprendendo il gesto della zia, mi mettevo l’indice davanti alla bocca, interrompendola mentre mi sembrava di vederli, tutti questi personaggi, improvvisamente di nuovo vivi.
Catalogai i vari episodi in ordine di tempo dopo aver fatto delle schede intestate a ciascuno di loro. Ora avrei dovuto collegare tra loro i vari episodi e scrivere il capitolo introduttivo: l’incipit.
Questo lavoro mi entusiasmava: mi dimenticavo di avere fame, sete, sbuffavo infastidita sentendo suonare il telefono che mi strappava a forza da quella vita parallela in cui mi ero calata.
Ero molto distratta e le persone intorno a me se ne rendevano conto.
Qualche volta qualcuno mi diceva “Dove hai la testa?”.
Fossi stata sincera avrei dovuto dire:” A Trieste, primi anni del Novecento, in una casa piena di ragazzini urlanti e nell’anima e nel cervello di tutti i componenti di quella famiglia…” (continua)

domenica 19 aprile 2009

Come nasce un romanzo

Scrivere un romanzo è vivere un’avventura. Come cominciò “ Confine immaginario”?
Iniziò rimuginando ricordi, ma soprattutto racconti che avevo sentito da bambina e che già allora, sulle labbra della zia Maria, che era senza saperlo una cantastorie nata, avevano in sé tutte quelle componenti che rendono avvincente una storia. Se in me c’è oggi la ben che minima capacità di raccontare lo devo a lei. La zia Maria non aveva fatto corsi di scrittura creativa, la zia Maria era andata a scuola ben poco, ma quando nella cucina, tra i vapori del cibo, gli odori delle erbe aromatiche, lo sfarfallio della farina, iniziava a raccontare, la malia di quelle sue storie m’irretiva implacabile. Iniziava con la descrizione di un luogo e si dilungava sul tempo, tempo atmosferico: spesso erano notti cupe, di tempesta, o albe chiare, e quello che non mancava mai era il vento, quel particolare vento che noi triestini chiamiamo bora. Portatrice di tempesta quella scura, di schiarite improvvise quella chiara.
“ Era notte e la bora soffiava da giorni, ululava sinistra e s’insinuava, nonostante i doppi vetri, gli scuri chiusi, rinserrati, facendo se non tremare, fremere…”
Io, attentissima e inappetente, ingoiavo parole e caffellatte. Intanto, lei continuava facendo irrompere sulla scena del racconto i personaggi. Ah, i personagg! I personaggi venivano descritti con modalità diverse: alcuni accuratamente, altri appena delineati, perché a questo punto lei introduceva, quasi di soppiatto, l’altro elemento che non mancava mai: il mistero, anche se all’inizio era soltanto un velo, un pizzico appena, come il pepe su una pietanza. C’era nel racconto qualcuno che non si sapeva chi fosse, da dove venisse. Spesso era “un foresto” e nella Trieste di quell’epoca, i primi del Novecento, ci voleva poco per essere foresti: era sufficiente provenire dall’Italia e non fare quindi parte del Grande Impero saggiamente amministrato da Francesco Giuseppe.
A questo punto prendeva il via la storia che però, ogni volta che veniva ‘riraccontata’ si arricchiva di elementi nuovi, fantasiosi. Devo dire che io facevo la mia parte, suggerendo soluzioni diverse, tempestando di domande, giurando e spergiurando di averne sentito pochi giorni prima una versione diversa.
“ Nonna Lucrezia sentì una fitta morderle i fianchi e capì subito che il bambino aveva deciso di venire al mondo in anticipo. Il marito non era ancora tornato a casa dal lavoro. Soltanto Maria, la figlia maggiore avrebbe potuto aiutarla…”
“Maria eri tu, vero zia?” chiedevo, un po’ petulante, mentre lei si metteva il dito davanti alla bocca per farmi tacere, e continuava, senza perdere la concentrazione “ La chiamò, crollando a sedere sulla panca della cucina, mentre una macchia scura si allargava sulla gonna e qualcosa gocciolava sul pavimento. “ Moiko meni ho perso le acque…”
“ Cosa vuol dire moiko meni? “ chiedevo, e lei mi rispondeva “Povera me” aggiungendo: “ Non interrompere” e costringendomi a rinunciare a qualsiasi spiegazione su quelle acque misteriose che avevano la facoltà di rompersi, cosa effettivamente assai strana per l’acqua. Io tacevo proponendomi di chiedere spiegazioni a fine racconto o a mia madre.
Nel frattempo, la bocca spalancata dalla meraviglia, zia Maria era riuscita a farmi mangiare qualcosa e quindi, conseguito il suo obiettivo, mi mandava a giocare con i cugini.
“ Vai a giocare che devo preparare da mangiare, su, su da brava” e concludendo “ Hai proprio la testa tra le nuvole, ma ti capisco, qui sulla terra non c’è fantasia, è tutto piatto…” mi allungava una carezza e riprendeva il pieno controllo della sua cucina.
Fuori, il vento che si era fermato ad ascoltarla, riprendeva a soffiare, rabbioso.
(continua)

sabato 18 aprile 2009

Mestiere di scrivere
Piccolo aiuto per aspiranti scrittori!

Scrittura

E’ da tempo che nella mente mi frulla una domanda alla quale non sono in grado di dare una risposta. Io scrivo. Da quando? Da sempre direi. Da quando forse, bambina, negli album dei ricordi – che allora erano di gran moda – non mi limitavo a fare qualche osceno cerbiatto o una casetta con le montagne sullo sfondo, ma completavo il tutto con un brevissimo racconto o qualche considerazione personale. Un po’ più grande fui appassionata scrittrice di diari che, di solito, venivano gettati nell’immondezzaio in occasione dei traslochi.
Poi ci furono gli anni del doppio, triplo(?) impegno: tre figli da crescere da sola, il lavoro, la casa…Alla lettura non rinunciai mai, al sonno, per finire un libro, spesso sì. Ma quel ritmo di vita forsennato andò, gradatamente, allentandosi: prima se ne andò un figlio, poi un altro. Arrivò la pensione.
Una mattina di un giorno qualunque, mi alzai, riempii la moka, accesi il gas, riepilogando mentalmente, com’era mia abitudine fare, gli impegni della giornata. Ma, con meraviglia che subito dopo si tinse di angoscia, realizzai che non avevo nulla da fare: nessuno aveva più bisogno di me. Quanto ci volle per capire che potevo fare qualcosa per me stessa? Non poco, siamo bipedi abitudinari e una vita al servizio degli altri non è facile da modificare.
Per farla breve passai “un inverno del nostro scontento” in compagnia del gatto e dei pensieri più neri, persa e spersa tra le brume padane. Ero stata costretta a comprimere le mie esigenze ai minimi termini e quindi non conoscevo il piacere di starmene a lungo sotto la doccia, farmi una maschera per il viso, andare dal parrucchiere, sedermi in un caffè all’aperto, sotto al sole, lasciando scivolare lo sguardo sulla fauna cittadina. Quanto alle mie necessità alimentari, un trancio di pizza o un panino, e, per far festa un’insalata, ci voleva poco a soddisfarle.
Cosa innescò il cambiamento? Il computer. Decisi, tra i sorrisetti ironici dei figli che si davano di gomito, di imparare a usarlo. Non fu facile, ma la costanza non disgiunta da un bel po’ di lezioni, ebbe la meglio.
Perché mi decisi a usare il pc? Non solo perché sono curiosa e amerei confrontarmi con gli altri, ma anche perché avevo sentito la voglia, direi più correttamente la necessità, di scrivere una storia: non un racconto, men che meno un diario, proprio un romanzo.
Avevo avuto molto tempo per riflettere e dentro di me cominciavo a realizzare che questo tempo che mi stava angosciando, che sentivo come un’animale acquattato nell’ombra e pronto a divorarmi, poteva avere una valenza positiva, poteva diventare una ricchezza da usare, da sfruttare.
Cominciai a scrivere nelle interminabili giornate estive, al mattino saltavo giù dal letto con un programma ben preciso che mi frullava in testa. Il tempo volava, ma era tempo mio, finalmente, e lo usavo per me. Così sono nati “Confine immaginario” e l’anno dopo “Come me”.
Ho scritto anche tante altre cose e l’altro giorno su Technorati ho trovato il mio blog tra i top al tag racconto. E’ stata una bella soddisfazione! Probabilmente non pubblicherò mai i miei libri, ma so per certo che scrivere è quello che avrei voluto fare e scrivere è quello che farò negli anni a venire.
Mi rimane questo dubbio: cos’è che fa di una persona che scrive uno scrittore?
Il lettore? Tanti lettori? Un editore? La passione, o la fantasia? Il tutto non disgiunto da un pizzico di fortuna?
Giro a voi blogger l’arduo quesito.

mercoledì 15 aprile 2009

Parole

Scrivi tu che scrivo anch’io
scrive pure nostro zio
Le parole son di fuoco
sono frecce a dire poco,
le parole sono dure
per descriver le paure
il tormento, il pianto, l’urlo

Ingegnere era crepato quel soffitto a te mostrato?
Assessore, non averlo sospettato
è da uomo, a dir poco, ritardato
Manco il sindaco ha capito
che l’inferno era ad un dito
dalle case,
dai bambini che giocavan nei giardini
dai ragazzi, che tra frizzi e pure lazzi
son crepati nei palazzi, costruiti con la sabbia
lieve, lieve,
come panna come neve
….
non è certo la parola a essere greve
Scrivi tu che scrivo anch’io
scrive pure nostro zio
Le parole fan paura,
se ci vuole la censura
Le parole sono un’arma
Che disturba ‘sta marmaglia
Difendiamole coi denti,
che a voler esser prudenti
alla lunga
si diventa conniventi.

"VINTAGE"

Recuperare un abito di sartoria meravigliandosi dell'accuratezza del cucito, della maestria del taglio, della qualità della stoffa, è già un modo di ribellarsi a chi ci vorrebbe tutti eguali, livellandoci verso il basso, per controllarci meglio. Erano abiti fatti per durare - non a caso sono ancora qui - abiti da immortalare nelle fotografie di famiglia, da conservare con cura, da riporre con la naftalina d'inverno e i mazzetti di lavanda nelle altre stagioni. Ho un'amica che veste "vintage". Raffinata e inconfondibile, non vagamente demodée, ostentatamente diversa, mi ha insegnato la bellezza del kitsch. Io, ragazzina piccolo borghese, seguivo 'la Moda' negando il mio gusto un po' eccentrico e la mia creatività. E' stato liberatorio uscire dagli schemi, ritrovando abiti che hanno una storia perché della Storia fanno parte. Chi ha la mia età, ad esempio, non potrà non legare i sandali con la suola ortopedica e i calzini corti, ai quali venivano abbinati, agli ultimi durissimi anni della Seconda guerra mondiale, alle mamme o alle nonne che, in bicicletta andavano nei paesi, nelle case dei contadini, abitini e tovaglie ricamate nelle sporte, da barattare in cambio di uova e pacchi di farina. Furono loro, le donne, ad assicurare la sussistenza alimentare alle famiglie dopo l'Otto Settembre, quando molti uomini si nascosero, altri andarono in montagna con i partigiani, tanti vennero fucilati o deportati...
Se l'abito è travestimento e maschera, scegliamo maschere raffinate e personali. Sarà anche un modo per rinsaldare quel filo rosso che lega senza soluzione di continuità le madri alle figlie, alle nonne...Indossare certi abiti, sparire sotto cappelli a pagoda era "crearsi un tipo?" E l'alter ego o l'avatar o il nick name non sottintendono forse lo stesso bisogno di mistero e mascheratura?

Gente di mare

Era già una ragazzina la prima volta in cui vide Venezia. In gita scolastica, affrontava un viaggio senza i suoi genitori. C'era stata una levataccia alle prime luci dell'alba, il latte ingoiato in fretta, le raccomandazioni sulla porta, il bacio frettoloso di sua madre e poi, via di corsa alla stazione delle corriere. Durante il viaggio avevano chiacchierato, cantato, fatto un po' le sceme con i ragazzi dell'altra classe che partecipava alla gita. Le insegnanti, asserragliate nei posti dietro al guidatore, che dormicchiavano presagendo le corse notturne che non avrebbero consentito a nessuno, clienti dell'albergo compresi, di dormire.Venezia li aveva accolti con una di quelle giornate primaverili, piene di luce, che la rendono disarmante nella sua decadente bellezza. Come belletto troppo acceso su guance cascanti il sole ne scopriva le magagne, le muffe verdastre, i colori scrostati quasi bruciati dalla salsedine, ma ne esaltava anche gli ori e gli smalti accendendo di  luci i suoi palazzi. Lei camminava stupita dalla diversità del luogo rispetto a tutte le altre città che aveva conosciuto: era una città che vibrava di suoni dall'ansimo dei vaporetti alllo scoppiettio dei motori dei motoscafi.
Stavano seguendo l'itinerario nell'intreccio delle calli che li avrebbe portati a Piazza San Marco, quando una casa d'angolo attirò la sua attenzione. I muri scrostati lasciavano intravedere vari strati di colore e, in alcuni punti, mettevano a nudo pietre e mattoni corrosi dall'umidità. - La porta è sull'altro lato del vicolo, - pensò, - e accanto ad essa c'è una finestra con il davanzale ingombro di piante aromatiche. Il vicolo, brevissimo, porta a una piazza minuscola, quadrangolare al centro della quale campeggia un pozzo: in marmo, il bordo rotondeggiante che sostiene un arco in ferro battuto attorno al quale si avvolgono, sbalzati a mano, tralci d'edera. Sull'altro lato della piazza, due gradini di pietra potano all'approdo delle gondole. Ce n'è una nera, lussuosa, tappezzata di velluto color cremisi...
Svoltò nel vicolo, il cuore che le batteva forte, le mani strette a pugno nelle tasche del maglione. La piazza era lì, come l'aveva immaginata, avvolta in un silenzio irreale. Non c'era...oh sì, non l'avevo notato quel vecchio seduto su una sedia impagliata, di quelle che abbondano nelle osterie di paese, curvo, incartapecorito, le mani, deformate dall'artrite, appoggiate in grembo, un basco in testa. Lo sguardo, negli occhi assediati e vinti dalle rughe, sembrava fisso su qualcosa che soltanto lui fosse in grado di vedere.
Si avvicinò, lui le lanciò un'occhiata di sghembo mentre, impacciata, accennavo un saluto con il capo.
" Sei venuta" le disse.
" Come? " borbottò in risposta, stupita.
" Volevo vederti prima di morire".
" Ma...chi è, che cosa sta dicendo? " domandò spaventata.
" Vieni da una città di mare" Non era una domanda, ma un'affermazione alla quale lei fece seguire, inquieta, la sua domanda:" Come lo sa?".
" Dai tuoi occhi: noi, gente di mare, abbiamo l'avventura nello sguardo, che non teniamo mai basso, che piantiamo in faccia a chi ci parla. Noi, abituati a spaziare, la libertà ce la portiamo nell'anima di cui lo sguardo è la via d'accesso. Ricordati che sei nata libera e non permettere a nessuno di chiuderti in gabbia."
Sentii uno scalpiccio di passi alle mie spalle e una voce "E' da un'ora che ti cerco! Dovete stare tutti insieme...Cosa ti è saltato in mente..."
" E' successa una cosa stranissima" rispose, voltandosi verso l'insegnante che era ormai alle sue spalle, " lo vede questo signore?"
" Chi? Qui non c'è nessuno. E ora non metterti a raccontare storie, a cercare scuse..."
Si voltò, non c'era nessuno. Soltanto un gatto si strusciava contro il muro.
Nella piazzetta bionda di sole si udiva solo il sussurro dell'onda che instancabile s'infrangeva, aggredendoli, sui palazzi che affondavano nell'acqua.

martedì 14 aprile 2009

La complementarietà uccide

Kappa si sfilò il casco con un gesto stanco. Rassegnato. Dorina lo osservò freddamente mentre diceva:"Non immaginavo che, a lungo andare, la maschera diventasse il volto".
Poi, mentre lei continuava a tacere, le chiese: "Quali sono gli ordini che hai ricevuto?"
"Ti riporteremo a Urano" gli rispose, aggiungendo "Ti studieranno"
La risata aspra di Kappa l'interruppe "Finirò in un laboratorio?" "Io ho soltanto l'incarico di riportarti a casa" lei gli rispose.
"Ti chiedo un ultimo favore" mormorò l'uomo "Accompagnami al mio albergo, voglio portare con me alcuni ricordi del mio viaggio sulla Terra. Non fuggirò, te lo prometto, mi localizzereste immediatamente..e poi, sono molto stanco".
Si alzarono e, dopo pochi minuti, raggunsero l'albergo di Kappa.
Salirono.
Entrarono nella stanza: Kappa si avvicinò alla finestra.
" Perché i due mondi privilegiano l'alternatività rispetto alla complementarietà? O uraniano o terrestre, perché non uraniano e terrestre? Perché non solo razionale, consequenziale ma anche fantasioso, impulsivo, emotivo e creativo? Ogni scelta presuppone una rinuncia a una parte di sé, una lacerazione. Sulla Terra aveva appreso la lingua dei sentimenti, avrebbe voluto insegnarla agli abitanti del suo pianeta, ma era stata una speranza vana la sua, un'illusione. L'avrebbero isolato, trattato come una scimmia da circo, connotato come diverso. Possibile che non si capisse il potenziale di arricchimento insito nella complementarietà?"
Dorina lo guardava: sul volto soltanto l'attenzione richiesta dall'ascolto. Provò per lei una pena profonda e, mentre scavalcava il davanzale volando nel vuoto, un sorriso gli addolcì il volto.
Dorina lo guardò toccare l'acqua e sprofondare senza più riemergere.
"Kappa 22 deceduto. Missione conclusa senza contaminazioni ulteriori. Rientriamo alla base".
Si tolse la tuta similpelle e la testa umana e la fece volare nel canale. Recuperando i corpi avrebbero pensato a un amore impossibile. In quella città assurda, irreale come un palcoscenico teatrale, qualunque follia sarebbe stata credibile e i blogger si sarebbero scatenati il giorno dopo con le ipotesi più fantasiose. Il confine tra realtà e fantasia per i bipedi umani era talmente labile che non ci sarebbero stati problemi.
Azerò i computer, poi, silenziosa e efficiente Kappa 32 uscì dalla stanza.

Nostalgia

Le vie strette mi ricordavano la geometria del ghetto che, da bambina, a Trieste, attraversavo per arrivare alla casa di mia nonna. Identica la mancanza di luce, l’arcobaleno dei panni stesi ad asciugare, le rachitiche piante sugli stretti davanzali. Percorrevo le calli incrociando i canali che esibivano casa ferite dall’acqua, macchiate di muffa verdastra che ne intaccava l’intonaco facendone affiorare l’ossatura in pietra o mattoni. Mi avevano parlato tanto di questa città e io la osservavo, un po’ delusa, fino a quando, socchiusi gli occhi, cercai di sentirla oltre che vederla: questa Venezia sbilenca che sembrava galleggiare sull’acqua, come un paese visto in sogno, ondeggiante, come i santi portati a spalla tra i fumi d’incenso di una processione. Non era una città vera, era una città sognata, un luogo della fantasia. Le mie orecchie percepivano quel frangersi leggero dell’onda contro qualsiasi cosa ferma quasi a volerla scardinare e quella parlata molle strascicata, rigorosamente dialettale, quasi a voler rivendicare un passato da gran dama che può ancora imporre le sue debolezze come scelte. Perché se l’acqua che cinge Trieste, la mia città, è ampiezza, respiro, promessa di avventura e di fuga, a Venezia, umida e stantia, l’acqua assedia e non incornicia, ma è città nella città, che colma i suoi canali, circonda le sue fondamenta, mormora e sussurra. Acqua stantia che non si rinnova, è acqua di laguna nella quale la città si riflette, con i suoi eccessi di ori, smalti, marmi pallidi e aerei come pizzi, finestre che si allungano verso il cielo lasciando intravedere interni preziosi. Splendida e decadente, è, non a caso, il fondale perfetto per il gioco delle maschere. La finzione che la maschera rappresenta e esaspera richiede un palcoscenico adeguato e Venezia si presta al gioco perché tutto a Venezia: gondole, calli, Piazza San Marco, la luna che scivola sul Canal Grande è spettacolare, unico e teatrale.

venerdì 10 aprile 2009

Kappa prende due piccioni con una fava

Non restava che una cosa da fare: indagare, sì, scoprire la verità, diventando da inseguito, inseguitore! Sbirciò dalla finestra. L'uomo che lo pedinava doveva essersi mimetizzato. Si tolse la testa da umano e, libero da interferenze emotive, attivò le protesi che gli permettevano notevoli estensioni sensoriali. Individuò immediatamente il suo inseguitore, mimetizzato sotto un casco da motociclista e fasciato in una tuta di pelle nera che lo rendeva difficilmente riconoscibile, ma non ai mezzi visivi potenziati dell'uranoide. Avrebbe copiato Ics, Punto di Domanda, come aveva soprannominato l'uomo che gli era stato messo alle calcagna, si sarebbe bardato nello stesso, identico modo, e forse avrebbe "preso due piccioni con una fava". Sorrise, rendendosi conto che stava usando un linguaggio che non era il suo, ma che faceva ormai parte della creatura dai contorni incerti che in lui si stava delineando. Uscì in fretta, poi, approfittando di una distrazione di Ics, infilò la porta scorrevole e girò nel primo vicolo alla sua sinistra, seminando il suo inseguitore. Non era ancora passata un'ora quando, in perfetta tenuta da motociclista, si piazzava davanti all'albergo di Dorina, mimetizzandosi tra la folla.
La pioggia aveva smesso di cadere e un pallido sole autunnale diffondeva per le calli una tonalità di luce ambrata che scivolando sui palazzi ne evidenziava tutta la decadente bellezza.
Alcuni venditori ambulanti offrivano la loro merce decantandone ad alta voce la qualità. Lo sciabordio dell'acqua amalgamava i suoni dando loro il ritmo morbidamente cadenzato di una ballata. Kappa controllava l'uscita dell'albergo.
Eccola! Indossava un cappotto rosso, borsa in tinta e, intorno al volto chiaro dai tratti minuti, quasi un'aureola da santa, l'ombra fulva dei capelli. Era un'apoteosi di rossi che sembrava essere scaturita dal pennello di Tiziano.
Si guardò intorno, incerta, poi con passo esitante si diresse verso di lui.
Il sole, che accendeva il rosso dei capelli, le illuminava lo sguardo nel quale una domanda affiorava mentre, accostandolo, gli sussurrava:" Cosa fai qui?" (continua)

giovedì 9 aprile 2009

Noi siamo il futuro

Ieri sera da Santoro sfilano di nuovo le immagini devastanti del terremoto, si accendono le polemiche e gli schieramenti contrapposti si delineano con chiarezza, mentre le magagne stantie di un Paese che non cambia, l'intreccio melmoso di politica e mafia, il volto bieco del potere che esibisce pietismo perché non ha anima per esprimere pietà, occupano la scena. Poi in quel dejà vu arcinoto irrompe un soffio di freschezza: due ragazzi sono davanti a un microfono nel luogo dell'orrore: poche parole di lui, un po' impacciato di fronte alle telecamere, poi, il microfono passa a lei. Sicura, dice, ripete, ribadisce decisa quel suo "Noi siamo il futuro, il vostro futuro e ci dovete tutelare, ci dovete permettere di averlo, di viverlo questo futuro.."
Scatta, sentito, l'applauso. Intuisco che soltanto dalla loro forza vitalistica scaturirà il cambiamento e che, se un futuro non glielo concederemo, giustamente se lo prenderanno perché è loro di diritto, per legge di natura. E mi rinasce dentro la speranza mentre quel volto, serio e deciso di ragazzina diventata donna in una notte di terrore, mi riconcilia con la vita.

terremoto show

Lo schermo inquadra il presidente del Consiglio, vestito di nero. In segno di lutto? Senza cravatta, con un maglione girocollo come chi, scaraventato giù dal letto, si fosse infilato il primo indumento capitatogli tra le mani. Nei giorni successivi l'abbigliamento sarà lo stesso. Chi vuole può pensare che sia in piedi da tre giorni con addosso gli stessi abiti. Ha in testa un casco. E' l'immagine dell'efficienza, non disgiunta dalla competenza. Non dimentichiamoci che a lui si devono le repliche in serie (anche se in formato ridotto) di Milano: Uno, Due ecc. Franceschini, invece, se ne va solo, soletto a fare un giro tra le rovine. Non vuole disturbare nessuno, né tanto meno pubblicizzare e sfruttare per altri fini questa sua passeggiata, della quale, tanto per fare due chiacchiere con gli amici al bar, ci dà subito comunicazione e attraverso un canale, quello televisivo, che viene usato solo, come sappiamo, per confidenze susurrate.
Le polemiche, in questo momento, sarebbero di cattivo gusto, nonché decisamente inopportune.
Chiedersi il perché di tanti, troppi morti per una scossa di terremoto che in altri paesi, che presentano gli stessi rischi sismici, avrebbe causato qualche danno e pochissime vittime, è fare polemiche. E quando ce le dovremmo porre queste domande? Quando incrociamo l'argomento sulla Settimana Enigmistica?
Questo "perché?" balbettato, susurrato o urlato, l'abbiamo letto sulle labbra dei genitori che aspettavano, davanti alle macerie, che li venissero restituiti se non i figli, almeno i loro corpi. Si leva da tutto il Paese una domanda, una richiesta di spiegazioni, di chiarezza. Rispondere che non è il momento equivale a non rispondere perché, se non è questo, in cui la gente ha perso parenti, casa, ogni sicurezza, qual è?
Importante sembra essere cavalcare la tigre, aumentare la propria popolarità, studiare l'effetto scenico nei minimi particolari. Devo dirlo: ci troviamo di fronte a grandi attori e a uno spettacolo a effetto; c'è un solo problema: i morti, come la disperazione e l'orrore, non sono comparse, sono veri.

mercoledì 8 aprile 2009

Il dubbio

La sera calava sulla città e lo sciacquio dell'acqua sovrastava ogni altro suono nelle calli ormai quasi deserte. Kappa camminava con apparente disinvoltura, conscio di essere seguito. Teneva d'occhio l'approdo dei vaporetti, pronto a balzare sul primo mezzo in arrivo. Probabilmente l'uomo alle sue spalle l'avrebbe seguito. Intravide alla sua destra una sagoma in movimento che puntava sull'approdo. Scartò in quella direzione e con un salto salì a bordo. Con la coda dell'occhio registrò una presenza alle sue spalle e, lentamente, con assoluta disinvoltura si girò, appoggiandosi alla parete divisoria che era quasi dietro alle sue spalle. Alzò gli occhi e incrociò uno sguardo, attento e...vagamente ironico. L'uomo, vestito di nero, era alto, ben piantato ma, facendo queste considerazioni Kappa non potè fare a meno di notare in lui una sorta di perfezione estetica eccessiva: era finto! Sì, finto come lui, inguainato in una simil pelle, ciglia troppo lunghe e ricurve, bocca perfettamente disegnata, mascella quadrata, denti scintillanti. Intorno a loro la folla anonima che prendeva il vaporetto per recarsi a scuola o al lavoro: adolescenti brufolosi, ragazze dal girovita abbondante, giovani uomini con gli occhiali e un accenno di calvizie, uomini un po' più maturi inquartati, massaie dalle gambe forti.
Due ragazze sedute in prima fila li avevano notati: si distinguevano nettamente, erano troppo perfetti per passare inosservati. Avrebbe mandato un rapporto a Urano quella sera stessa corredato di fotografie della folla che vagava per la città. Lui e il suo pedinatore sarebbero stati crdibili soltanto a una sfilata di Armani, ma lì in mezzo all'anonima moltitudine stipata sul mezzo di trasporto cittadino, attiravano decisamente l'attenzione. Scese alla fermata successiva. L'uomo lo seguì. Kappa avrebbe potuto, impegnandosi, seminarlo. Ormai conosceva bene la città, ma decise di non farlo e con lentezza studiata arrivò davanti al suo albergo. Entrò, salutato dal portiere.
Con la coda dell'occhio vide che l'uomo che l'aveva seguito, si fermava a osservare la vetrina di un negozio.
Prese l'ascensore e salì.
Era partito da Urano l'ordine di seguirlo? Qualcosa li aveva insospettiti?
Entrò nella sua stanza e si distese sul letto. Il profumo di Dorina aleggiava nella stanza, il desiderio del suo corpo minuto e tiepido gli salì dal ventre intorpidendogli il cervello. Dietro alle palpebre abbassate la sua bellezza gli danzò davanti agli occhi, mentre un pensiero gli saettava nella mente, logico e consquenziale: non era anche Dorina un po' troppo perfetta? Si addormentò con quella domanda piantato nella mente come un chiodo conficcato a martellate. (continua)

Inorridisco

Inorridisco. Mentre ancora si scava e si aggiorna il numero dei morti, qualcuno si chiede il nome dell'impresa che ha costruito in una zona sismica un ospedale di cartapesta. Provate a indovinare? Fate un piccolo sforzo. Si chiama Impregilo. L'avete già sentita nominare? E' di casa nei palazzi del potere.
La stessa che lavora sulla Salerno-Reggio Calabria e ha appena ottenuto un prolungamento della consegna dei lavori di altri tre anni, previo finanziamento.
La stessa che ha vinto l'appalto per la costruzione del Ponte di Messina.
La stessa che dovrà costruire sul nostro territorio le centrali nucleari.
A febbraio 2007 l'assetto azionario di Igli risultava composto in modo paritetico, al 33%, dalle società Argofin (gruppo Gavio), Autostrade (Famiglia Benetton) e Immobiliare Lombarda (gruppo Ligresti). Prima la società era della Fiat.

martedì 7 aprile 2009

Kappa si ribella

Kappa scivolava verso la depressione mentre Venezia si velava delle prime nebbie d'autunno. Dorina lo criticava aspramente, affermando di non sentirsi capita. Disorientata dalle sue capacità dialettiche lo accusava di freddezza, di mancanza di sensibilità. In una delle loro liti gli aveva gridato:" Chi sei? Da dove vieni?" e, per un secondo lui si era sentito scoperto, ma paradossalmente non come umanoide, ma come creatura in crisi. Avrebbe dovuto farsi sostituire, rientrare a Urano, sottoporsi al programma di disintossicazione e riprendere la sua prevedibile vita di sempre.
C'era un uomo che lo tallonava. Aveva scoperto che alloggiava nell'albergo sul canale di fronte al suo palazzo. Da casa, quando usava il cervello da uranoide, poteva guardare nella sua stanza e vederlo. Chi era, per conto di chi lavorava? Aveva mandato un rapporto a Urano e sapeva che altri due umanoidi erano già sulla Terra, ma la scelta operativa che era stata fatta non prevedeva, almeno per il momento e per ragioni di sicurezza, che s'incontrassero.
Ed era una semplice coincidenza che l'uomo che lo stava pedinando alloggiasse nell'albergo di Dorina? Non aveva la minima intenzione di abbandonare la missione pur sentendo che stava rischiando molto con la sua scelta.
Sulla Terra c'era il marasma che precede i grandi cambiamenti. Una crisi economo-finanziaria, di dimensioni mai viste prima, attanagliava il cosiddetto mondo occidentale, quello di cui faceva parte anche la città nella quale lui viveva: quella città la cui bellezza oltre a fare da sfondo scenico ideale alla sua storia con Dorina, lo stava emozionando, turbando, condizionando.
Su Venezia cadeva, in quella sera di settembre in cui l'aria rabbrividiva, una pioggia leggera e insistente che dava a Kappa la sensazione di essere in un acquario. (continua)

Coraggio

Che notte avranno passato? La paura, quella che si installerà dentro definitivamente, quella che si fisserà nella memoria per sempre, quella che farà sobbalzare ogni volta che sentiranno il tintinnio dei vetri di una finestra, sarà arrivata camminando furtiva, in punta di piedi. Si sarà intrufolata nelle tende, sotto alle coperte per invadere l'anima e rinserrarsi nella memoria. Arriva dopo: dopo la grande paura, quella che mette le ali ai piedi e fa volare, nel buio, sotto ai calcinacci, oltre ai portoni che cedono spalancandosi davanti ai pugni chiusi.
E' una paura con la quale dovranno convivere.
E' la paura che umilia le sicurezze tracotanti, forse le sicurezze tout court.
E' la paura antica dell'uomo davanti alla natura infuriata.
E' la paura che ti prende quando saltano le sicurezze elementari, come alzare un piede e, posandolo, trovare un piano d'appoggio stabile.
In un sussurro possiamo soltanto dire loro "Coraggio" perché dovranno tirarlo fuori tutto, fino all'ultima goccia, per uscire da questo orrore.

domenica 5 aprile 2009

Kappa si stupisce.

Dorina, seduta davanti a Kappa nello scenario sontuoso di Piazza San Marco, invece di godersi il panorama e la multiforme fauna umana che vi passeggiava, si accalorava spiegandogli le motivazioni che l’avevano indotta a votare per un sindaco che lei definiva “di sinistra”.
Lui la guardava stupito: come mai una giovane donna, proiettata nel futuro e non ancorata per età al passato, non aveva ancora capito che la Politica, quel tipo di politica, era ormai superato, vecchio, gli umani avrebbero detto obsoleto. La cosiddetta Sinistra, più precisamente alcuni dei valori che l'avevano contraddistinta, come la di solidarietà,la gratuità di certe prestazioni,un'equa divisione della ricchezza, non erano forse gli stessi che animavano e ispiravano i giovani blogger che, ironizzando sul potere e le sue maschere, mettevano in comune le loro conoscenze gratuitamente, firmando petizioni per impedire il saccheggio del pianeta? Non erano quelli stessi giovani che per sottrarsi a forme di condizionamento, anche un po’ più raffinate come quelle subliminali, avevano spento i televisori i cui schermi indottrinavano, irreggimentando il sapere secondo una modalità improntata ancora a una concezione della società di tipo gerarchico? Non aveva ancora capito Dorina che il confine, che cominciava a delinearsi, era tra i fruitori di un sapere esteso, critico e fantasioso e coloro che invece avrebbero continuato passivamente a seguire i programmi tv e a sclerotizzare i loro cervelli fino a perdere quasi completamente la propria capacità critica? Lui ancora si stupiva che venissero accolti da scrosci di applausi – standing ovation - personaggi politici che ottimi per un carnevale, erano però inadatti a un parlamento. Ma anche questo faceva parte della complessa natura umana o era qualcosa di indotto? E la memoria storica? E la memoria tout court? Aveva cercato traccia nei libri scolastici di ciò che era avvenuto nel Novecento, ma aveva trovato molto sulle guerre puniche e poco sulle due guerre mondiali del secolo scorso.
Nei programmi svolti dagli insegnanti ancora meno. Come mai?
Sul suo pianeta l’alfabetizzazione informatica seguiva i tempi dell’apprendimento del linguaggio e gli abitanti di Urano avevano al polso un computer fin da piccolissimi, motivo per il quale la comunicazione era verbale, gestuale e informatica in base alla scelta di chi la metteva in atto e, al di là dei singoli idiomi, il linguaggio informatico, oltre ad aveva un forte potere aggregante, permetteva l’esercizio del potere, in forma diretta, senza bisogno di rappresentazioni intermedie. I problemi venivano di conseguenza affrontati e risolti collettivamente. Era una società che si sviluppava orizzontalmente, non verticalmente, consentendo una democrazia reale ed effettiva, contrariamente a quanto avveniva sulla Terra.
Dalle ultime informazioni alle quali aveva attinto gli risultava che ci fosse una corrispondenza inversamente proporzionale tra il numero di coloro che esercitavano il potere e le dimensioni degli aggregati politico-territoriali che si andavano formando. Incredibile!
27 persone nel territorio chiamato Unione Europea avrebbero deciso per 500 milioni di persone! Di queste persone gravate dal peso di una simile responsabilità si sapeva poco: erano tutti o quasi anziani - e sulla Terra uomini bionici non se ne vedevano ancora! – vecchi di corpo e cervello. Sull’anima non erano possibili accertamenti ed era, l’anima, quella che si prestava alle peggiori manipolazioni…
Erano ben strani i bipedi di cui si stava occupando.

sabato 4 aprile 2009

Kappa 22 studia la Rete

Kappa 22, in missione speciale sulla Terra, subiva quella sorta di fascinazione che coglie chi osa spingersi in luoghi sconosciuti e profondamente diversi dai propri. Quello strumento, il blog, lo connetteva a realtà differenti tra loro, ma improntate a principi che sommati delineavano una civiltà che aveva poco a che fare con quella di Urano, il suo paese.
La Terra aveva confusamente imboccato la strada di un cammino tecnologico all’interno del quale l’informazione stava assumendo una rilevanza del tutto particolare. Gli uomini avevano finalmente capito che avrebbero potuto mettere in comune una potenzialità che fino a quel momento avevano custodito e coltivato come un fiore di serra nel proprio giardino. Erano le potenzialità intellettive, la loro intelligenza, il know how, i molteplici saperi che la Rete, che si stava estendendo come una ragnatela d’argento sul mondo, collegava potenziandoli. Si stava creando una sovrastruttura fatta di conoscenze che continuavano ad accrescersi per l’apporto di tutti coloro che si sedevano davanti alla tastiera di un computer e incominciavano a sfiorarne i tasti e a direzionare il mouse.
Kappa 22 sapeva che questa rivoluzione informatica avrebbe avuto un impatto tale sull’uomo da modificarne il corpo, il cervello e quella parte, a lui sconosciuta di quegli strani bipedi, che genericamente veniva chiamata anima.
Kappa aveva un visore posizionato nel cervello e quindi non aveva bisogno di un monitor per vedere al di à di quanto gli occhi potevano cogliere ma, non potendo utilizzare quasi mai il cervello uranoide, si era dotato anche della tecnologia strumentale degli umani.
In piedi davanti alla finestra stava assorto a osservare il primo chiarore dell’alba scivolare sulla città illuminandone ogni angolo: la luce si tingeva di rosa, i motoscafi borbottavano scivolando sull’acqua del canale. Qualcuno spalancava le imposte e la città si risvegliava: profumo di caffè e cornetti appena sfornati saliva nell’aria mentre i turisti più mattinieri cominciavano a ciabattare lungo le calli. Kappa si rendeva conto che quella città gli stava entrando dentro: quella città e ciò che provava perdendosi nella geometria senza sbavature del corpo di Dorina estendevano in lui, potenziandolo, qualcosa che se non era un’anima, certamente le assomigliava molto.(continua)

venerdì 3 aprile 2009

Disamore

Quando lui l’aveva lasciata, lei aveva sofferto, ma non si era meravigliata. Si era sempre accontentata, perché riteneva di non avere diritto a nulla. Da quale melma fangosa e torbida era cresciuta in lei la certezza di non meritare nulla dalla vita? E’ probabile che si debba essere amati per poter amare. Cos’è l’amore: accudimento? Pasto pronto, trecce strette, colletto inamidato? O tutto ciò è soltanto una specie d’amore, una componente di quel sentimento di cui lei aveva fatto una ragione di vita, una fiamma che aveva tenuta sempre accesa per potersi riscaldare? Almeno un po’.
Da bambina avrebbe dato l’anima per vedere il sorriso illuminare il bellissimo volto di sua madre, l’allegria riderle negli occhi, ma non c’era stata frase o attenzione o diligente impegno che fosse riuscito ad allontanare quella tristezza, a colmare il vuoto nello sguardo che sua madre le indirizzava. Quello sguardo aveva decretato non solo la sua incapacità di farla uscire dalla disperazione ma anche la responsabilità di averla imprigionata, come un cane alla catena, a suo padre.
Era colpa sua: ancora quasi inesistente, appena un abbozzo di creatura, aveva bloccato la sua fuga. Era sua la responsabilità per quel forzato ritorno nella casa del marito e non c’erano moine che avrebbero potuto modificare la dura realtà dei fatti.
Era così che aveva preso forma in lei il mancato diritto a esistere? Aveva riempito uno spazio destinato a essere vuoto, diventando trasparente, come un miraggio. Tra sua madre e la libertà lei, ancora lei, sempre di troppo, sempre presente a ricordarle l’inutilità di ogni tentativo di fuga.
Il disamore l’aveva resa grigia dilagando sulle sue smorte guance che sua madre si ostinava a pizzicare per farla sembrare meno pallida.
Ora lo sapeva: senza amore non si cresce, si sopravvive appena e, come uno di quei gerani che, sui davanzali del ghetto, cercano un po’ di sole, un baluginio d’oro al quale le strettissime vie non concedono se non una speranza d’accesso, lei aveva cercato l’amore.
Ma come si cerca qualcosa che non si conosce?
Forse le era passato accanto, l’aveva sfiorata?
Chissà?
Non l’avrebbe mai saputo.
Il vento, infilandosi nel dedalo intricato di strade che, come ferite, incidevano il ghetto, ululava prepotente.

Sapere libero, fantasioso e critico.

La palestra risuona delle voci delle bambine e di quella, stridula, dell'insegnante di ginnastica artistica. Stanno preparando il saggio di fine anno. "Non studiano più le poesie a memoria e non ricordano i vari passaggi... non sanno più memorizzare" la sento borbottare, seccata. Le poesie a memoria le studiai anch'io negli anni lontanissimi in cui si "mandavano a memoria" oltre alle tabelline anche nascite e morti dei personaggi che avevano fatto la storia, verbi irregolari in francese e via discorrendo. Ma oggi non sarebbe più possibile: la massa delle informazioni è enorme, intaseremmo il nostro cervello di dati spesso inutili. E allora? Allora abbiamo fatto come le imprese: abbiamo esternalizzato il nostro magazzino informazioni per dedicarci a qualcosa di più fantasioso e impegnativo. I nostri giovani hanno il computer per le informazioni. Le considerazioni a cui pervengono affluiscono in Rete per poter essere nuovamente utilizzate. E' un "sapere" non statico, ma dinamico che si potenzia circolando, come avviene per la moneta fiduciaria. E' un "sapere" che ha una valenza politica perché non porta a conclusioni unidirezionali impostate su informazioni prestabilite. E' libero, fantasioso e critico.
Sarà per questo che si attacca la Rete e si tenta d'imbavagliarla?

giovedì 2 aprile 2009

La grande sfida

La giornata estiva rischiarava anche gli angoli nascosti della città, illuminando di luce la pelle di Dorina. L’abito nero accentuava la fragilità del suo corpo, facendo risaltare l’onda rossa dei capelli che le alitava intorno al volto, punteggiato di efelidi rosate, accendendo di bagliori da incendio estivo i suoi occhi che lo scrutavano assorti.
Kappa, anche se distratto dal candore della sua pelle, l’ascoltava attento, mentre lei gli chiedeva cosa l’avesse portato a Venezia: un lavoro? Esigenze di studio?
“ Sto compiendo delle ricerche per conto di una Fondazione che sta allestendo una mostra sugli ultimi anni della Repubblica fino all’abdicazione del Doge, il primo Governo austriaco e gli anni di Napoleone…” le rispose.
“ Ah, interessante ” .
“ Sei americano, hai detto. L’America è grande, da dove…”
“ Vivo a New York, ma la mia famiglia, di origine italiana, era veneta: per questo conosco la tua lingua” lui le rispose.
I suoi circuiti registravano, allertati, ogni sfumatura nella voce della donna, cogliendo nei suoi occhi domande alle quali non avrebbe potuto rispondere.
Il suo ultimo rapporto a Urano era stato ritenuto poco preciso e, soprattutto, contraddittorio nella parte conclusiva, anche se il resoconto era stato giudicato di gradevolissima lettura. Kappa veniva bacchettato sulle dita e invitato ad attenersi alle istruzioni ricevute: era in missione, non in gita di piacere. Altri umanoidi sarebbero partiti dal pianeta nelle settimane successive distribuendosi sulla Terra secondo un piano prestabilito.
La missione era appena all’inizio, il materiale raccolto risultava abbondante e interessante. La celebrità conquistata con il conferimento del Golden Prime come blogger dell’anno faceva sì che il suo blog fosse frequentatissimo e oggetto di polemiche feroci che lo lasciavano sempre un po’ incredulo, anche perché, a suo avviso, distoglievano l’attenzione degli umani da problematiche ben più pressanti e urgenti. Perché, ad esempio, i notiziari riservavano la loro attenzione a vere e proprie sciocchezze tacendo sui pericoli, tanti e gravi, che affliggevano la terra? Succedeva in tutti i paesi e sembrava qualcosa di preordinato, ma a vantaggio di pochi.
Erano divisi in caste gli umani e alcune, potentissime, comandavano, ma fingendo di fare gli interessi delle caste più deboli e povere.
La terra era un groviglio quasi inestricabile di menzogna e verità tra loro intrecciate, ma era nel cervello degli uomini, che aveva inventato realtà immaginifiche come l’anima, il cuore, non inteso come muscolo cardiaco, e altre simili amenità, che bisognava indagare.
Tutte le costruzioni umane venivano dal cervello, che a Urano ormai erano in grado di replicare, ma non ancora di correggere.
Questa era la grande sfida su cui si reggeva la missione.