mercoledì 18 marzo 2009

Nostalgia di Venezia

Le vie strette mi ricordavano la geometria del ghetto che, da bambina, a Trieste, attraversavo per arrivare alla casa di mia nonna. Identica la mancanza di luce, l’arcobaleno dei panni stesi ad asciugare, le rachitiche piante sugli stretti davanzali. Percorrevo le calli incrociando i canali che esibivano casa ferite dall’acqua, macchiate di muffa verdastra che intaccava l’intonaco facendone affiorare l’ossatura in pietra o mattoni. Mi avevano parlato tanto di questa città e io la osservavo, un po’ delusa, fino a quando, socchiusi gli occhi, cercai di sentirla oltre che vederla: questa Venezia sbilenca che sembrava galleggiare sull’acqua, come un paese visto in sogno, ondeggiante, come i santi portati a spalla tra i fumi d’incenso di una processione. Non era una città vera, era una città sognata, un luogo della fantasia. Le mie orecchie percepivano quel frangersi leggero dell’onda contro qualsiasi cosa ferma quasi a volerla scardinare e quella parlata molle strascicata, rigorosamente dialettale, quasi a voler rivendicare un passato da gran dama che può ancora imporre le sue debolezze come scelte. Perché se l’acqua che cinge Trieste, la mia città, è ampiezza, respiro, promessa di avventura e di fuga, a Venezia, umida e stantia, l’acqua assedia e non incornicia. Città nella città, colma i suoi canali, circonda le sue fondamenta, mormora e sussurra. Acqua stantia che non si rinnova, è acqua di laguna nella quale la città si riflette, con i suoi eccessi di ori, smalti, marmi pallidi e aerei come pizzi, finestre che si allungano verso il cielo lasciando intravedere interni preziosi. Splendida e decadente, è, non a caso, il fondale perfetto per il gioco delle maschere. La finzione che la maschera rappresenta e esaspera richiede un palcoscenico adeguato e la città si presta al gioco perché tutto a Venezia: gondole, calli, Piazza San Marco, la luna che scivola sul Canal Grande, è spettacolare, unico e teatrale.