domenica 20 giugno 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°27)

"Allora?" le chiesi impaziente.
Mentre il cameriere appoggiava la tazzina davanti a lei, Gloria afferrò la borsetta e alzò gli occhi voltandosi come a cercare qualcuno ma inforcando contemporaneamente un paio di occhiali dalla montatura piuttosto vistosa. Doveva  essere il segnale convenuto, perché la portiera posteriore della macchina che brillava immobile sotto il sole si aprì.  Lentamente, mentre il respiro si fermava quasi strozzandomi e Enrico mi afferrava una mano per calmarmi, qualcuno uscì: una figura si stagliò chiara, ritagliandosi uno spazio in quell'azzurro d'acqua e di cielo. Illuminata dal sole, riconobbi mia figlia dal maglione che indossava, mentre muoveva qualche passo,  subito seguita da un uomo che vidi soltanto di spalle. Stavo per alzarmi quando la voce di Gloria tagliò l'aria, facendomi accapponare la pelle. "Non dare in smancerie! Tua figlia sta bene come hai potuto verificare." Dopo pochi secondi, le due persone accanto alla macchina, dopo essersi guardate attorno,  risalirono accostando la portiera dell'automobile, consentendomi soltanto d'intravedere il viso di mia figlia semi nascosto dall'onda dei capelli, di cogliere in lei un impaccio nel muoversi e di registrare nella memoria quel gesto lento, titubante, nel togliersi un ricciolo dal volto, un gesto non suo. Era probabile fosse spaventata, incerta, se non addirittura terrorizzata - dissi a me stessa, cercando di calmarmi.
"Cosa le avete fatto?" sbottai, mentre le mani mi tremavano e sentimenti contrastanti: dal sollievo, per  averla potuta anche se solo per un istante vedere, alla rabbia, filtrati attraverso la paura e l'incertezza, mi scoppiavano dentro, dandomi la sensazione di essere su una giostra, come quelle che da bambina con il loro moto circolare mi facevano girare la testa.
Non mi rispose limitandosi ad alzare le spalle con aria seccata. Poi mi sussurrò:
"Verrai con me! Vedi quel palazzo alle mie spalle? E lì che dobbiamo andare e se l'informazione che mi darai sarà quella giusta usciremo da quel portone e io avrò un cappello bianco. Altrimenti indosserò un cappello rosso e... "
Tacque, mentre Enrico e io all'unisono, ripetevamo: "E... "
"Vostra figlia non vi sarà restituita!" disse.
Enrico mi zittì con uno sguardo dicendo: "Accetteremo soltanto se sarete disponibili a uno scambio. Vi propongo di prendere me al posto della ragazza. La mia impressione è che questa storia l'abbia, come sarebbe normale, provata. Mi è sembrata traballante.  Deve tornare da sua madre sana e salva, oggi, indipendentemente dall'informazione che vi forniremo. Abbiamo passato al setaccio la casa e la nostra memoria: più di quello che abbiamo fatto non potremmo fare... Dovete restituirci nostra figlia. E' criminale quello che state facendo e non ha giustificazioni!"
                     "Criminale? C'è stato di peggio, ben di peggio nel vostro civilissimo Paese e", aggiunse, mentre il suo volto s'induriva assumendo quell'espressione che ben conoscevo, che le faceva affiorare nello sguardo quell'anima spersa, che dava i brividi e gelava la parola sulle labbra, "senza giustificazioni, e men che meno valide".
Sentendo Enrico proporsi al posto di nostra figlia io non mi ero meravigliata, limitandomi a sorridergli grata per la sua proposta ma, forse senza riflettere a sufficienza, ora, balzata in piedi, ero pronta a seguire Gloria. Avere visto Letizia mi aveva dato una sferzata di energia, una forza che  mi pulsava nelle vene. E soltanto in quel momento mi rendevo conto dell'angoscia che mi aveva tenuta sveglia per giorni, del terrore che, annidato in fondo alla mente e alle viscere, non avevo voluto analizzare temendo che mia figlia fosse già stata uccisa.
Enrico si alzò e fece un passo verso di noi ma, vedendo la macchina in attesa mettere in moto e aspettare con il motore acceso, ebbe un'esitazione: lanciò un'occhiata verso la piazza lasciando scivolare sui finestrini scuriti uno sguardo rabbioso e impotente che si concentrò, un istante dopo, sul volto imperturbabile di Gloria, mentre un sospiro gli sfuggiva e le mani, strette a pugno, in un gesto di rabbia gli ricadevano inutili lungo i fianchi.
Io gli sorrisi, cercando di mettere in quello sguardo che ci scambiammo tutto il calore, la riconoscenza e l'amore che provavo per lui, poi mi voltai verso Gloria che fremeva, già nuovamente infastidita, e la seguii.
Fatti pochi passi entrammo nell'atrio silenzioso e ovattato di una biblioteca. La luce, filtrata da pesanti tende, illuminava appena i locali. Tavolini con persone intente a sfogliare libri si allineavano in lunghe file regolari.
Brillavano gli ovali che le lampade disegnavano fluttuando nell'aria come stelle in una notte estiva. Gloria si accomodò  invitandomi con un cenno del capo a fare altrettanto. Poi estrasse un libro dalla borsetta, mi guardò e mi disse:
"Allora cos'hai scoperto?".
"Cosa stai cercando?"
"Un'indicazione che questo libro dovrebbe fornirmi... "mi rispose, incerta.
"Forse una serie di lettere o delle parole?" le chiesi, tentando di mercanteggiare sulle mie informazioni, approfittando dell'emozione che, stranamente, sembrava averla contagiata.
Il libro che aveva appoggiato sul tavolino era sporco, sciupato e non riuscii a decifrarne il titolo ma, mentre occhieggiavo e Gloria lo apriva su una pagina qualunque osservandolo pensierosa e inquieta, capii i motivi del mio imbarazzo: non era scritto in italiano.
Gloria alzò gli occhi e disse: "E' inutile che tu allunghi il collo come una gallina cieca intenta a cercare il suo chicco... E' scritto in tedesco".
"In tedesco balbettai" fingendomi stupita e spaventata, mentre in realtà cercavo di cogliere ogni possibile informazione.
" Allora?" mi chiese Gloria mentre il mio sguardo registrava il tremore delle sue mani e la luce faceva brillare sulla sua fronte una lieve, significativa traccia di sudore. (continua...)

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°26)

   Lugano splendeva sotto il sole, illuminando i palazzi che nascondevano i caveaux delle banche gonfi di gioielli e di mistero. La cittadina puzzava di denaro come una pescheria, anche la più linda, di pesce.  Funzionari di banca cerimoniosi e untuosi si bevevano un caffè per togliersi dalla bocca il gusto rancido che vi ristagna quando la schiena si piega troppe volte davanti alla ricchezza e le palpebre filtrano sguardi che l’invidia illividisce.
           Il caffè, i tavolini rivolti verso il lago, ruotava intorno a un cameriere impeccabile che, in attesa delle ordinazioni, lasciava scivolare  uno sguardo severo sulla mia faccia, sconvolta dalle troppe notti senza sonno, e sulla camicetta stropicciata, notando forse l’assoluta mancanza di gioielli che risplendevano invece al collo, ai polsi e alle dita delle numerose signore che, sorseggiando infusi, tisane e caffè, si sussurravano maldicenze e indiscrezioni esplodendo in risatine, subito soffocate in nome di un bon ton che le uniformava al pari delle condizioni che regolamentavano i loro conti correnti bancari. I nostri occhi, che febbricitanti e riarsi setacciavano ogni angolo, ogni movimento, ogni macchina che scivolasse lungo la strada o finestra che un raggio di sole facesse brillare anche solo per un istante, diventavano sempre più inquieti al passare dei minuti  senza che nulla accadesse, assumendo quell'aria interrogativa che le domande senza risposta conferiscono allo sguardo. 
Il tempo passava, il sole si spostava nel cielo invadendo angoli fino a quel momento privilegiati dall’ombra. Sentivo il cuore battermi disordinatamente nel petto, colpi irregolari che s’infrangevano contro le costole, quasi volessero spezzarle per esplodere da quel mio corpo troppo minuto per contenere tanta paura e tanto dolore. Il mio sguardo scivolava su Enrico cogliendo soprattutto negli occhi - lo stesso taglio, colore, la medesima intensità pensosa -  la somiglianza tra padre e figlia. Davanti agli occhi mi sfilavano in rapida sequenza immagini, una carrellata di immagini che me la riportavano alla memoria: piccolissima, appena me l’avevano messa tra le braccia, in quella Venezia che sembrava promettere solo bellezza e tenerezze  infinite, con il fiocco e la cartella al primo giorno di scuola, alle feste di compleanno con le torte sempre più ricche di candeline, di burro e di tensione e poi...  in fuga: dalla città, dal padre, dalle promesse non mantenute che il mio volto  chiuso, serrato nella rabbia e nel rancore, doveva averle comunicato. Gli anni erano passati,  lei e io sole contro il mondo, le domeniche ai giardinetti, l’attesa di quel padre che i teatri si contendevano rubandoglielo, mentre io diventavo sempre più tesa e litigavo con sua nonna sciorinandole dinanzi agli occhi una femminilità dolente, inacidita dal rancore e dalla solitudine. Ero ormai un grumo di paura, di disperazione e di rabbia, ma ero anche attenta, accorta come una leonessa in caccia per procurarsi il cibo per i cuccioli, quando, con la coda dell’occhio, notai quella falcata inconfondibile, il lungo abito che vorticava intorno alle caviglie e i capelli che brillavano sotto il sole: Gloria, decisa, stava attraversando la piazzetta dirigendosi verso il caffè dove Enrico e io continuavamo, per non dare nell'occhio e anche per calmare i brontolii delle nostre viscere contratte, a ingurgitare tè e ingoiare pasticcini.
“Eccola!”
Si sedette.
"Posso avere un caffè?" disse.
Non  le mancava la faccia tosta - pensai, mentre Enrico passava l'ordinazione al cameriere.
"Non ti dirò né consegnerò nulla, senza prima aver visto... " borbottai.
"E lui cosa ci fa qui?" chiese Gloria, squadrando  Enrico 
"E' con me, ma non fingerti meravigliata, ci sorvegliate da... da non so nemmeno quanto tempo"
Poi, mentre la voce mi si spezzava, dissi:
"Come sta Letizia? Mi auguro non le abbiate fatto del male!"
 "Alle mie spalle, sta parcheggiando dall'altra parte della piazza una macchina scura, i finestrini abbassati. Aspettano un mio cenno per far scendere tua figlia dalla macchina. Avrai modo quindi di verificare le sue condizioni. Ora tocca a te! Cosa avete trovato?" concluse, mentre i suoi occhi si illuminavano per un istante di quella luce che solo l'odio era in grado di accendere.
"Che garanzie abbiamo di riavere Letizia, dopo averle rivelato il risultato delle nostre ricerche?" chiese Enrico.
Il  tono della sua voce era fermo, lo  sguardo calmo, consapevole, scivolava sul volto di Gloria.
"Nessuna, ma non avete scelta. Posso soltanto ripetervi che non siamo assassini, vogliamo... "
"Ladri si!" la interruppi.
Si voltò lentamente verso di me e poi, mentre un 'ombra le increspava il volto pallido quasi un presagio di pianto lo attraversasse, mormorò: "Non è denaro che cerchiamo, ma qualcosa per noi di ben più prezioso" e tacque, assorta.
Il sole ci illuminò per un istante, poi l'ombra ci avvolse in un gioco di luci e tenebre quasi a sottolineare quella schermaglia di proposte e controproposte alle quali era affidata la vita di ciò che avevo di più prezioso.
Gloria, com'era nelle sue abitudini, era riuscita con quelle poche parole ancora una volta a sorprendermi.
(continua...)
Nb: ho reinserito la puntata per un errore di trascrizione dell'indirizzo su Friend Feed. Pardon!