sabato 28 febbraio 2009

Bora scura

Io amo il vento, anche se m’innervosisce e mi disturba il sonno.
Quando vivevo ancora a Trieste e lo sentivo annunciarsi con il suo inconfondibile mugghio, diventavo allegra e vitale. Ora, mi basta uno stormir di fronde e lei, la Bora signora delle steppe, contagiandomi con la sua follia, s’impadronisce dei miei ricordi.
“ Te ga visto quel mato?”
“ Dove? “
“ Vicin la porta, no ‘l va né dentro, né fora…”
“ Dighe qualcossa”
“ Ciò mulo, te son nato in barca?”
Nella mia città, forse per questo motivo, l’estraneo non è il signore (che sta passando, fumando, chiacchierando) , ma “el mato”, e il mare che s’infrange schiumando sulle panchine di Barcola o sul Molo Audace invade anche il linguaggio.
Il mio è un dialetto che si colora di azzurro, di mare, ad ogni istante e - quando dopo numerosi tentativi di aprire l’ombrello senza farlo rivoltare, in giornate in cui vento e pioggia si azzuffano, riusciamo a ripararci dalla pioggia - ci sarà spesso qualcuno nei paraggi che dirà sorridendo “Dai e dai, la barca va sui pai”.
Da bambina lo temevo, odiavo il suo soffio gelato che scivolava sulla pelle, carezza rubata che m’infastidiva. Odiavo contendergli il berretto che a volte, a tradimento, mi strappava di dosso facendolo, tra le risate dei compagni, volare in cielo o tra le onde. Fino a quel giorno…
Il mare rabbrividiva in onde stizzite, sotto la sferzata del vento, quella mattina d’aprile; le rocce bianche del Carso già si macchiavano di verde. Il mio ragazzo voleva portarmi in barca. Sopra le nostre teste nuvole in corsa sempre più veloci… e il vento che aumentava ululando in raffiche furibonde. Improponibile l’uscita in barca. Lui insisteva dichiarandosi marinaio provetto
Il mio bikini, rosso come un segnale di pericolo, nascosto nella cartella. Mi convinse.
Ricordo quel cielo violetto, poi nero; le prime gocce di pioggia che già diventavano scroscio, torrente. Acqua, da tutte le parti; il vento un turbinio che rese la barca ingovernabile.
Ci salvò, rimorchiandoci a riva la Guardia costiera.
I nostri genitori, convocati alla Capitaneria di Porto, entrarono con una faccia da far paura.
Avevamo pure fatto “fogone”, non andando a scuola. Per mesi non mi fecero uscire e quella primavera fu particolarmente ventosa. Chiusa in casa a riflettere cominciai a dialogare con il vento, a coglierne le avvisaglie e a ritirare subito la biancheria dallo stenditoio, a valutarne la forza, ad addormentarmi nonostante il suo urlo senza tregua. Divenne parte del mio mondo, compagno rumoroso in quelle giornate interminabili e solitarie. Ancora oggi, la nostalgia della sua voce mi assale a tradimento e mi riporta in un istante alla mia sofferta giovinezza. Alle velocità del vento!