domenica 28 giugno 2009

I Dellapicca

Sigismondo stava entrando in quell'età della vita in cui, pur avendo noi ancora tutte le caratteristiche della giovinezza, lo sguardo ci cade su chi, fino a quel momento ignorato, quasi non visto, più giovane non è. E ci si ferma a parlare, ad ascoltare, percependo che è scattata la curiosità, fino al giorno in cui si sbotta con quel ”Voi giovani”che, nell'asprezza con cui lo pronunciamo, già evidenzia il rimpianto e la rabbia che sono propri di tutti gli esclusi. Inizia allora quel volgersi indietro, quella nostalgia del passato, il cui tempo si sta divorando, sempre più goloso, il nostro futuro. Quale aggancio più valido per ancorarvisi, al futuro, del mettere al mondo un figlio, per marcare quel territorio, ancora inesplorato e che forse non vedremo, con un segno, una presenza che si porti dentro qualcosa di noi?
E così Sigismondo, ormai quarantenne, ingravidò la moglie, accogliendo con grande soddisfazione la notizia che sarebbe diventato padre. Maria non sembrò altrettanto contenta. I primi mesi di gravidanza furono orribili: le nausee mattutine non le davano tregua. Si alzava pallida come uno spettro, ma non gli preparava più la colazione perché il profumo del caffè la nauseava. Si sedeva accanto alla finestra, gli occhi, che il viso smagrito rendeva enormi, quasi sbarrati sul mare come fosse in attesa di qualcosa o qualcuno. Quando il marito le si avvicinava, si ritraeva, e solo allora Sigismondo ritrovava quel sorriso enigmatico che aveva inchiodato, quando l'aveva conosciuta, la sua attenzione.
Si era rivolto allo speziale migliore della città, che le aveva somministrato misteriose tisane per attenuare i suoi disturbi, senza ottenere il minimo risultato, ma contribuendo a aumentare l’ansia di Sigismondo con la notizia che, probabilmente, il parto sarebbe stato gemellare. L’uomo aveva scosso il capo preoccupato, dicendo: ”Con quei fianchi esili come un giunco avrebbe faticato a fare un figlio, non so proprio come riuscirà a portare a termine una duplice gravidanza e a partorirne due…” “ Ma non si potrebbe fare qualcosa?” “ Pregare” aveva risposto lo speziale e Sigismondo, borbottando, l’aveva pagato, accompagnandolo alla porta.
L’estate era passata, cambiando la luce che, ora, dava corposità all’infinita gamma dei rossi, dei gialli e degli aranciati che macchiavano le colline a ridosso della città. La bora, che aveva ripreso a soffiare, bora scura portatrice di tempesta, ululava da qualche giorno, infilandosi in ogni fessura, facendo scricchiolare, vibrare, dondolare tutto ciò che sfiorava, in una sarabanda che da sempre alimentava e giustificava la superstizione e la passione per il mistero e i fantasmi degli abitanti della città.
Maria, tonda come una vela gonfia di vento, sprofondata sulla poltrona più comoda, si lagnava del tempo, del bambino – che si ostinava a considerare unico - della bora, chiamando in continuazione Teresina che, sbuffando, in dialetto le gridava: “ Sto cusinando, la gabbi pazienza” poi “ Rivo, rivo…” quando la padrona, lamentosa, ricominciava con quel “Teresina, Teresina…” che invadeva le stanze della casa e aveva il timbro angosciato di un singhiozzo. Ma quel giorno l’urlo che invase la casa, quel “Teresina, aiutami!” strozzato e seguito da un mugolio di animale ferito, fece rabbrividire e accorrere immediatamente la serva che, lasciando cadere il pentolame che stava lavando, uscì dalla cucina, precipitandosi lungo il corridoio, gli zoccoli che battevano sul pavimento come colpi forsennati di martello.xiyc5qyxiq

Il fantasma esce di scena

Il grande Philip Roth riappare sulla scena, inquietante come un fantasma, il fantasma di se stesso.
Perché cos’è un uomo che la vecchiaia ha aggredito e vinto se non l’immagine sfocata di ciò che è stato? La sessualità è un ricordo che si fa di giorno in giorno più sbiadito, l’aggressività è scomparsa sperperata in mille battaglie inutili, spesso asservita al gioco sessuale per colpire la fantasia di una donna o per sentirsi potenti quando l’impotenza avrebbe richiesto uno sforzo di fantasia, non l’opposto.
Il protagonista non è l’autore, settantenne, acciaccato, incontinente, che è solo pretesto per descrivere l’ultima fase della vita, quella in cui tutto è insulto, quasi a rendere la fine liberatoria, un alzare bandiera bianca alla morte, diventata finalmente più attraente della vita.
Ironico, caustico, pervaso di malinconia aspra, che aggredisce come solo la cultura ebraica sa fare in una descrizione minuta, da cesello, di caratteri che emergono, sbalzati, dalla sua penna, precisi e inconfondibili, e che sono quelli che ci circondano, ci opprimono, ci eccitano e ci infastidiscono, perché la messa a fuoco è perfetta e il dolore, la rabbia , il rimpianto, da lui provati, ce li regala scontroso, senza volere ringraziamenti, né gratitudine, soltanto per dare loro un senso, o illudersi, per l’ultima volta, di darlo.
Quale titolo, per questo splendido libro, migliore de “Il fantasma esce di scena”?
Grande, grande, grandissimo Philip Roth!