mercoledì 27 marzo 2013

Una donna tradita è come un temporale


Una donna tradita
è come un temporale,
urla
strepita
geme,
ti promette abbandoni
minacce sempre uguali

Tu
fingi di cascarci,
fai la faccia contrita
e prometti
che mai,
mai la lascerai...

Una canzone
il suo vestito scollato
la sua pellle dorata
quella calda risata

Era freddo
era inverno
...

Nella vecchia balera
quel tuo cuore gelato
lei l'aveva scaldato


Non avresti dovuto,
lo sai,
tu non sopporti
i temporali,
le vendette trasversali
la pantomima nota
che entrambi conosciamo
Rassicurante, dici?
Certo,
tanto quanto
è irritante

Ricordi la mia prima sfuriata?
Il Lexotan lasciato bene in mostra
Il tuo cuore nel petto
si fermava
tentasti di svegliarmi
io dormivo,
non morivo
dormivo

Le tragedie
(fasulle)
eran parte del gioco,
mimavano un'unione
che non c'era
la passione era altrove
...
nella vecchia balera.

martedì 19 marzo 2013

Avere settant'anni.

Oggi è il mio compleanno: compio settant'anni.
Intorno a me, vita e morte si affiancano confondendosi con una grazia impudica che mi sorprende, ma non mi angoscia, anzi quasi quasi mi rassicura. Chiocciole vuote di lumache si mescolano a fili d'erba appena spuntati. Le gemme sugli alberi gonfie, piene, sembrano ventri pronti a procreare; la primavera s'appresta a partorire rose e viole. Nella natura non ci sono ipocrisie, né falsità. né pudore: i gatti del vicinato vanno a caccia di uccelli appena nati e di gatte... Nel cortile un ciuffetto di piume testimonia un pasto sostanzioso: gli animali uccidono per mangiare, non per comperarsi una Ferrari.  E l'amore? E' istinto, non calcolo.
Noi uomini, gli animali più intelligenti e più tormentati del Creato, la morte non l'accettiamo e la vecchiaia, ombra che ne anticipa l'arrivo, la neghiamo, esorcizzandola, tenendola a distanza...
Sulla morte ironizziamo ma non ne parliamo. La natura aveva stabilito altri termini per la vita: una volta riprodotti e dopo aver allevato la prole, ce ne saremmo dovuti andare. Ma noi abbiamo voluto cambiare quei termini e così quei vecchi bavosi, tremanti, confusi che siamo soliti  depositare nelle Case di riposo - tanto  per abituarli all'eterno riposo - più che sottrarli alla  morte, li abbiamo sottratti alla vita...                           Una lunga serie di genetliaci mi si snocciola davanti, confusamente. Quella diciassettenne che ride e soffia sulla torta, era solo una ragazzina curiosa e insicura che cominciava a scoprire il mondo? Mi sembra di risentire il gusto di quella torta, un Pan di Spagna, preparato da mia nonna. E' un gusto che nella vita ho conosciuto poco: sa d'amore... Quand'è che cominciano a dirti "Sono tanti (gli anni che hai) ma" - eccola spuntare l'umana ipocrisia - "non li  dimostri!"
Ahahahahah...
E quella quarantenne, separata da pochi anni, perché si sentiva vecchia, decrepita? Perché immaginava la sua vita come una lunga linea grigia? Quarant'anni, soltanto quarant'anni... Che peccato sentirsene sulle spalle cento...
Cinquant'anni a Milano, la capitale morale era stimolante, istruttiva, stancante. E' stata la città che ho amato meno, ma che mi ha insegnato di più. In primis l'umiltà.
Sessant'anni: i figli ormai fuori casa, la prof in pensione. I disturbi di cui avevo cominciato a soffrire non erano  "sindrome da nido vuoto": era la malattia di Parkinson.
Gli ultimi dieci anni? Sono stati anni di guerra: guerra di logoramento, guerra che sono destinata a perdere, ma (come quasi sempre avviene in simili circostanze) non ho mai amato tanto la vita...
Non faccio più progetti, né programmi: vivo, amo e scrivo. 
E ogni giorno un po' muoio.
Come tutte le creature del Creato.

lunedì 11 marzo 2013

Finzione e verità a Venezia

Esalando nebbia e decadenza, Venezia imprigionava forestieri ammutoliti, incantati, in strette vie dove il passo risuonava e l'acqua cantava. Ad ogni angolo la città regalava gatti sonnolenti, intonaci ammuffiti e squarci di mare.
Lei apparteneva a quel luogo come una conchiglia al mare; ne parlava la lingua, conosceva il contorto intreccio delle sue calli, il respiro dei campielli, la protezione dei sotoporteghi, il colore del cielo intravisto attraverso la nebbia e i nomi delle vie, quei nomi  che della città tradivano, a volte, i segreti e i vizi. Gatti, sirene, gondolieri, giovanotti e tose sguinzagliati lungo le calli l'affiancavano per un istante, prima di sparire inghiottiti dall'oscurità e da quel fiume di maschere che scorreva, quasi avesse, e in tutta fretta, una meta da raggiungere,
La città che vibrava di suoni sembrava sussurrare promesse.
E se fosse stata solo un'illusione? Ma c'è un confine tra sogno e illusione o è solo nebbia che si sfalda al vento? Sapeva quello che era venuta a cercare? O si era inventata un bisogno per mettere a tacere un desiderio? La finzione, che razionalmente odiava, sussurrava al suo orecchio parole di miele.
Era  arrivata quel giorno, in mattinata, la pelliccia lunga fino ai piedi, calda e avvolgente. Non aveva bagagli, nemmeno uno spazzolino da denti. Sulle sue gracili spalle portava il peso del mondo, tutto il suo mondo, nell'anima il mare in burrasca dei sentimenti.
In Piazza San Marco crollò, esausta, sulla sedia del primo caffè che le si parò davanti. Pochi minuti dopo ordinava champagne.
"Marca" chiese il cameriere.
"Veuve Clicquot" rispose ma solo perché lo zio Remo, viveur incallito, raccontava sempre, fino alla noia, di quell'avventura vissuta con la vedova Clicquot a Parigi, ai tempi della sua gioventù.
Alla terza coppa, bevuta a digiuno, si sentì leggera e intontita. Piacevolmente intontita. Il tempo passava, la piazza si andava svuotando, i caffè chiudevano uno dopo l'altro. Fu in quel momento che lo vide. Anche lui  solo, abito grigio, camicia che al mattino, appena indossata, doveva essere stata perfetta, ma che ora, sotto la cravatta allentata, appariva sgualcita... Belle scarpe ma impolverate, belle mani, una abbandonata in grembo, l'altra che giocherellava con l'accendisigari, ma ripetendo monotona, come un giocattolo inceppato, lo stesso gesto: accensione e spegnimento... Fissava quella fiammella che appariva e spariva come se vi si fosse aggrappato, come se intorno a lui nient'altro esistesse  e la sua vita dipendesse solo da quel segnale intermittente, regolare come il battito di un cuore, e altrettanto importante.
Il cameriere smosse una seggiola, il rumore, uno stridio acuto, spiacevole, sembrò risvegliare l'uomo da quella fissità attonita: alzò gli occhi, il cameriere si raschiò la gola, emettendo un finto colpo di tosse.
"Ah, il conto... " mormorò l'uomo estraendo il portafogli dalla valigetta che fino a quel momento aveva tenuto sulle ginocchia. Pagato il conto, si alzò. Lentamente.
Anche lei fece un cenno al cameriere, come se fosse sua intenzione pagare e andarsene e quando se lo vide davanti, impettito e silenzioso, in attesa, si decise, solo allora, a sbrciare il conto. La sua risata esplose come un petardo, rimbalzando sui marmi, sugli ori, sulla porta nera della notte, invadendo calli e campielli. Per un istante sembrò ridere tutta la città...
"Non ho  soldi, né bancomat e tanto meno carta di credito" lei disse, gettando la testa indietro prima di alzarsi e, altera come una regina, infilarsi nell'intreccio dei tavolini.
"Chiamo i carabinieri... " le sputò addosso il cameriere seguendola stizzito. La superò, le si parò davanti  "Brutta bal.... " tentò di dire ma l'ingiuria gli morì sulle labbra. "Pago io, lei non chiamerà nessuno... Quanto?" L'uomo in grigio aveva già il portafogli in mano... Un'autorevolezza che veniva da lontano, che era pelle della sua pelle, che gli  apparteneva come il colore degli occhi, gli induriva lo sguardo tendendogli  le labbra.
"Ladri" borbottò lei sentendo la somma richiesta; poi sembrò crollare. Il cameriere si era allontanato borbottando.
Lui la sollevò quasi di peso, mormorando: "Ha un po' esagerato!"
Lei oscillò,  gli cadde addosso. Lui  la strinse per sorreggerla. Lei, più piccola, alzò gli occhi e incrociò il suo sguardo. Scuri come la notte, come i capelli tagliati tanto corti da farla sembrare un ragazzo, i suoi occhi riflettevano le stelle. Non ebbero bisogno di parole: la paura, lo sgomento, il dolore, l'incredulità si riconobbero, si fusero, si abbracciarono. Come fratelli, come amanti.
"Quanto tempo hai" lui le chiese.
"Tre, quattro mesi, forse sei... E tu?"
"Più o meno... "
"Andiamo" le disse e la prese per mano.
Passò una maschera: nera e bianca, la falce in mano...
"Sei in anticipo, dobbiamo festeggiare il carnevale e travestirci... Prima..." disse lei.
"Non abbiamo ancora deciso il costume da indossare".
La Morte sorrise e disse:
"Voi siete già mascherati e da tempo... "
Fatto un inchino, la Morte scomparve nella nebbia, la lama della falce che mandava bagliori d'argento. Passò una nuvola e oscurò la luna; quando riapparve illuminò per un istante un canale; sull'acqua galleggiavano, seguendo il filo della corrente, un abito grigio e una pelliccia... Intrecciati.

venerdì 8 marzo 2013

Una storia da raccontare

Era vissuta in un mondo di donne; uomini pochi, pochissimi e... trasparenti. La nonna le aveva lasciato in eredità il coraggio. Ricordava i suoi occhi azzurri dove mai aveva visto la paura, l'affetto ruvido che era solita addolcire con quelle torte che profumavano di dolci appena sfornati la cucina e quello sguardo con cui era solita incenerire suo padre. Donna del fare, le mani nodose sempre in movimento e lo stupore, misto a soddisfazione, nello sguardo che si posava, orgoglioso, sulle figlie. Si era sempre chiesta, fin da bambina, come da lei, piccola, magrissima, non bella, fossero nate quelle due meraviglie: sua madre e sua zia. Belle e... infelici, ossessionate dalla paura di perdere con l'età quella bellezza che faceva voltare gli uomini al loro passaggio. Una generazione dopo l'altra, sempre a partorire femmine, inchiodate alla bellezza e alla malinconia come cristi alla croce. 
"Chi è la più bella del reame?", perché una donna deve essere bella. E poi? E poi niente, niente di di nuovo: un marito, una casa, figli; quello  che fanno tutte. Ordinatissime, profumate, impeccabili, lo sguardo reso miope dal fascismo avevano dovuto passare attraverso l'atrocità di una guerra per permettersi i primi dubbi, per scoprire la gratificazione e la paura di un assaggio di autonomia, per svegliare quei loro cervelli intorpiditi ai quali nessuno aveva chiesto di pensare. Per subire non occorre pensare, anzi meno si pensa, meglio si sopporta.
La pace non portò pace nelle loro anime, cominciarono a guardare gli uomini, anche i loro, con altri occhi. Disincantati, attenti. 
Cosa insegnarono alle figlie? Poco di nuovo: le certezze spazzate via dalla guerra, fecero crescere le loro bambine (come avrebbe raccontato Jacqueline Kennedy) facendole "studiare per mogli", ma soprattutto  dicendo una cosa e pensandone un'altra... 
Le figlie intuirono, espressero dubbi, chiesero di studiare seriamente: ancora poche e, soprattutto, non più solo le "brutte o bruttine". Pure quelle carine e qualche bella. Ancora con i tacchi a spillo e i capelli con la permanente, ma sotto i ricci nono solo capricci!
Le madri annasparono tra l'orgoglio, la paura (i cambiamenti fanno sempre paura) e un pizzico d'invidia per quelle giovani donne che non ponevano più solo domande, cominciavano a dare loro risposte, a fare progetti, non solo figli. 
Maternità e lavoro? Impensabile, ma fattibile. Il prezzo? Fatica e qualche senso di colpa.
"Soffriranno, mamma, i bambini senza di me?"
"Penso di sì, forse... io..."
"Tu? A casa ma profndamente infelice; io lo sentivo, mamma, il gusto amaro della tua infelicità".
"E il gusto della tua stanchezza non è altrettanto amaro? Lavori il doppio, è questa la tua rivoluzione?"
"Scelgo". Lapidaria, aggressiva.
Aveva cercato conferme dalla madre: inutilmente. Le aveva trovate nelle donne della sua generazione, Quante notti passate a chiacchierare con le amiche. E i mariti? Lontani, a fare carriera, soldi e forse qualcosa d'altro. Meglio non indagare. Ma l'orgoglio dove lo metti?
Lei, come molte  altre, portava ormai quasi sempre pantaloni e scarpe basse. Se un uomo ti ama...
"Gli uomini come sono? Come sono mamma?!"
"Sono com'erano, come sono sempre stati".
"Alcuni, mamma alcuni. Non condivido il tuo rancore, l'astio... "
"Tuo marito?"
Silenzio, dubbi, ribellione, orgoglio  ferito.
Mamma e zia si erano lamentate in cucina, tra vasi di erbe aromatiche, dei loro uomini, ma lasciarli  era sempre stata una minaccia buttata lì, come un maglione gettato su una sedia alla sera che al mattino si ripone nell'armadio. In ordine, al suo posto.
Poi le madri erano dventate vecchie: ora anche lei era nonna. Di nuovo una bambina, un'altra futura donna.
Nella sua cucina ormai non veniva più nessuno, o quasi. Lei  non aveva più consigli da dare... soltanto un storia da raccontare.

Otto marzo in tempo di crisi


La rabbia delle donne è ingabbiata dalla malinconia, troppe risate in giro che hanno il suono amaro di un singhiozzo... Vi hanno fregato di nuovo, ragazze di belle speranze. Avevate pensato di avere il mondo in mano e l'avete visto scoppiare come un palloncino colorato a una festa di compleanno. Noi, le madri vi capiamo: ci siamo già passate (e non tanto tempo fa). Hanno nomi diversi le prigioni delle donne ma sbarre eguali. Siete di nuovo in gabbia: questa volta a causa di una delle crisi cicliche del capitalismo, ma voi siete sufficientemente acculturate per non cascarci e avete già capito che la crisi è strutturale non congiunturale.
Cambierà, ha già cambiato, il mondo: quello degli uomini, ma soprattutto il vostro, il vostro mondo di donne. Noi, le madri, che abbiamo passato la giovinezza lottando per l'autonomia, per strappare a famigliari perplessi il diritto allo studio (riconosciuto ai maschi, ma non a noi femmine), per imporre la nostra libertà sessuale, per far vedere alle vostre nonne che un figlio si poteva crescere anche lavorando e un marito (o moroso) lasciarlo, anche amandolo ancora per ritrovare il rispetto di se stesse, vi guardiamo. E tremiamo...
Avevate trovato la pappa pronta: divorzio, aborto, revisione della normativa sul diritto di famiglia. Trepide (noi madre) avevamo pensato che avreste potuto lottare per l'impossibile: la conquista della felicità.
Quando vi concessero di accedere al mondo del potere fu solo per fare di voi l'eccezione che confermava la regola. Quale? Quella che vede il potere  saldamente ancorato nelle mani dei maschi. Marchingegni finanziari, denaro scritturale, ricchezza fasulla hanno oscurato i vostri cieli (come i bombardieri che, in guerra, avevano fatto tremare le vostre nonne e gli steccati che avevano ingabbiato le vostre madri), rendendo le vostre sudate lauree carta straccia, mentre il mondo del lavoro vi rispediva a casa. Per prime e in maggior numero (per quelle di voi che ancora avevano una casa) a curarvi dei bambini. Per quelle di voi che li avevano già fatti nascere. E le altre? Stop! Ai sogni che diventano progetti, a vite che si e vi realizzano. Stop.
La crisi durissima per tutti è ancora e come sempre più dura per le donne: le segna, le ferisce più a fondo, le castra nel desiderio/bisogno di maternità, fa aumentare i femminicidi...
Forse per questo motivo qualcuna nemmeno si muove, tanto domani è il nove.
Auguri a nonna Ina, a mia madre, alla zia Maria, a mia sorella, a mie figlie, a Giuditta, a Martina e al variegato, irrinunciabile mondo delle amiche...