lunedì 11 marzo 2013

Finzione e verità a Venezia

Esalando nebbia e decadenza, Venezia imprigionava forestieri ammutoliti, incantati, in strette vie dove il passo risuonava e l'acqua cantava. Ad ogni angolo la città regalava gatti sonnolenti, intonaci ammuffiti e squarci di mare.
Lei apparteneva a quel luogo come una conchiglia al mare; ne parlava la lingua, conosceva il contorto intreccio delle sue calli, il respiro dei campielli, la protezione dei sotoporteghi, il colore del cielo intravisto attraverso la nebbia e i nomi delle vie, quei nomi  che della città tradivano, a volte, i segreti e i vizi. Gatti, sirene, gondolieri, giovanotti e tose sguinzagliati lungo le calli l'affiancavano per un istante, prima di sparire inghiottiti dall'oscurità e da quel fiume di maschere che scorreva, quasi avesse, e in tutta fretta, una meta da raggiungere,
La città che vibrava di suoni sembrava sussurrare promesse.
E se fosse stata solo un'illusione? Ma c'è un confine tra sogno e illusione o è solo nebbia che si sfalda al vento? Sapeva quello che era venuta a cercare? O si era inventata un bisogno per mettere a tacere un desiderio? La finzione, che razionalmente odiava, sussurrava al suo orecchio parole di miele.
Era  arrivata quel giorno, in mattinata, la pelliccia lunga fino ai piedi, calda e avvolgente. Non aveva bagagli, nemmeno uno spazzolino da denti. Sulle sue gracili spalle portava il peso del mondo, tutto il suo mondo, nell'anima il mare in burrasca dei sentimenti.
In Piazza San Marco crollò, esausta, sulla sedia del primo caffè che le si parò davanti. Pochi minuti dopo ordinava champagne.
"Marca" chiese il cameriere.
"Veuve Clicquot" rispose ma solo perché lo zio Remo, viveur incallito, raccontava sempre, fino alla noia, di quell'avventura vissuta con la vedova Clicquot a Parigi, ai tempi della sua gioventù.
Alla terza coppa, bevuta a digiuno, si sentì leggera e intontita. Piacevolmente intontita. Il tempo passava, la piazza si andava svuotando, i caffè chiudevano uno dopo l'altro. Fu in quel momento che lo vide. Anche lui  solo, abito grigio, camicia che al mattino, appena indossata, doveva essere stata perfetta, ma che ora, sotto la cravatta allentata, appariva sgualcita... Belle scarpe ma impolverate, belle mani, una abbandonata in grembo, l'altra che giocherellava con l'accendisigari, ma ripetendo monotona, come un giocattolo inceppato, lo stesso gesto: accensione e spegnimento... Fissava quella fiammella che appariva e spariva come se vi si fosse aggrappato, come se intorno a lui nient'altro esistesse  e la sua vita dipendesse solo da quel segnale intermittente, regolare come il battito di un cuore, e altrettanto importante.
Il cameriere smosse una seggiola, il rumore, uno stridio acuto, spiacevole, sembrò risvegliare l'uomo da quella fissità attonita: alzò gli occhi, il cameriere si raschiò la gola, emettendo un finto colpo di tosse.
"Ah, il conto... " mormorò l'uomo estraendo il portafogli dalla valigetta che fino a quel momento aveva tenuto sulle ginocchia. Pagato il conto, si alzò. Lentamente.
Anche lei fece un cenno al cameriere, come se fosse sua intenzione pagare e andarsene e quando se lo vide davanti, impettito e silenzioso, in attesa, si decise, solo allora, a sbrciare il conto. La sua risata esplose come un petardo, rimbalzando sui marmi, sugli ori, sulla porta nera della notte, invadendo calli e campielli. Per un istante sembrò ridere tutta la città...
"Non ho  soldi, né bancomat e tanto meno carta di credito" lei disse, gettando la testa indietro prima di alzarsi e, altera come una regina, infilarsi nell'intreccio dei tavolini.
"Chiamo i carabinieri... " le sputò addosso il cameriere seguendola stizzito. La superò, le si parò davanti  "Brutta bal.... " tentò di dire ma l'ingiuria gli morì sulle labbra. "Pago io, lei non chiamerà nessuno... Quanto?" L'uomo in grigio aveva già il portafogli in mano... Un'autorevolezza che veniva da lontano, che era pelle della sua pelle, che gli  apparteneva come il colore degli occhi, gli induriva lo sguardo tendendogli  le labbra.
"Ladri" borbottò lei sentendo la somma richiesta; poi sembrò crollare. Il cameriere si era allontanato borbottando.
Lui la sollevò quasi di peso, mormorando: "Ha un po' esagerato!"
Lei oscillò,  gli cadde addosso. Lui  la strinse per sorreggerla. Lei, più piccola, alzò gli occhi e incrociò il suo sguardo. Scuri come la notte, come i capelli tagliati tanto corti da farla sembrare un ragazzo, i suoi occhi riflettevano le stelle. Non ebbero bisogno di parole: la paura, lo sgomento, il dolore, l'incredulità si riconobbero, si fusero, si abbracciarono. Come fratelli, come amanti.
"Quanto tempo hai" lui le chiese.
"Tre, quattro mesi, forse sei... E tu?"
"Più o meno... "
"Andiamo" le disse e la prese per mano.
Passò una maschera: nera e bianca, la falce in mano...
"Sei in anticipo, dobbiamo festeggiare il carnevale e travestirci... Prima..." disse lei.
"Non abbiamo ancora deciso il costume da indossare".
La Morte sorrise e disse:
"Voi siete già mascherati e da tempo... "
Fatto un inchino, la Morte scomparve nella nebbia, la lama della falce che mandava bagliori d'argento. Passò una nuvola e oscurò la luna; quando riapparve illuminò per un istante un canale; sull'acqua galleggiavano, seguendo il filo della corrente, un abito grigio e una pelliccia... Intrecciati.

Nessun commento:

Posta un commento