venerdì 29 maggio 2009

Speranza e utopia

Questo dell’appartenenza non è un problema di poco conto. Io, da triestina, ho visto nascere il “Melone” , una lista civica che, in aperta contestazione con i partiti «tradizionali» (soprattutto DC e PCI) proponeva un programma basato sull’autonomia della città dalla Regione Friuli-Venezia Giulia. Nel 1978, alle elezioni comunali, la lista ottenne la maggioranza dei seggi (18 con il 27,4% dei voti) consentendo a Manlio Cecovini, uno dei suoi fondatori, di assumere la carica di sindaco. Se a Trieste una lista civica poteva essere giustificata dallo scontento conseguente al Trattato di Osimo, quindi da una realtà tutta particolare, come giustificare la nascita della Lega in Lombardia? Secondo me per lo stesso motivo di fondo, al di là delle motivazioni contingenti, che aveva portato, in quegli anni, alla nascita e, soprattutto, all’affermazione dei sindacati autonomi di categoria. Perché venne a mancare la conquista di una “fraternité”, perché ognuno decise di fare per sé.
E prevalse, come principio, “Iddu per iddu”.
In linea di massima non ci si oppone: a una centrale nucleare, alla Tav, a un inceneritore. A patto che si faccia lontano da casa nostra. Fino a quando non si supererà questo provincialismo becero, sostituendolo con un’idea di rispetto delle regole e interesse comune, cioè con quel valore di fraternité che la Rivoluzione francese ci ha lasciato in eredità, fino a quando, anche se portatori di una cultura diversa, non saremo in grado di convivere con altre culture, capendo che la diversità è un valore, una ricchezza da proteggere e rispettare non da eliminare, l’Europa sarà soltanto un acronimo e non una patria.
Se ci sarà da tirare la cinghia (più che un’ipotesi è una certezza) dovremo tirarla tutti, non gli italiani sì perché sono il ventre molle dell’Europa e i tedeschi no, perche hanno maggior forza contrattuale; e i ferrovieri come i dipendenti dei supermercato, e non soltanto questi ultimi, perché i primi possono, con i sindacati di categoria, mettere in ginocchio il Paese, bloccando i trasporti, e quindi fare man bassa di tutte le risorse disponibili. E’ una scelta che a lungo andare non paga. Ghandi disse “Occhio per occhio, il mondo resta cieco”. E fino a quando penseremo che questa è un’utopia, non andremo da nessuna parte, perché non è un’utopia: è una speranza, l’unica che abbiamo e quindi l’unica che dobbiamo impegnarci a realizzare. Ciò che vediamo: la politica spettacolo, corrotta, stantia e priva di ideali potrebbe, ma non deve indurci al cinismo, barattandolo da realismo. Se gli americani avessero fatto spallucce davanti al “We can “ di Obama oggi, alla Casa Bianca, avrebbero un degno seguace di Bush. Se una volta Milano sui suoi muri scrisse “Di Pietro facci sognare” e quel sogno di moralizzazione non si realizzò, questo non significa che non possa realizzarsi. Ora. Perché no? Perché Di Pietro non è Obama? Ma i vincenti si rivelano all’arrivo. Chi era Obama ai nastri di partenza? Un avvocaticchio di colore che aveva qualcosa d’imponderabile che gli altri avevano perduto: la speranza di poter cambiare. Il mondo.
E allora io dico, di nuovo:" Di Pietro facci sognare..."

Elezioni europee

La complessa realtà dell’Europa che si sta realizzando potrebbe essere forse più facilmente comprensibile se la paragonassimo per un istante alla realtà del nostro Paese sostituendo alle regioni gli stati. Tra un triestino e un napoletano non c’è forse la stessa diversità che tra un romano e un londinese considerando l’aspetto fisico, quella variante della lingua che è il dialetto, la storia a monte, la realtà economica etc.?
Questa ‘diversità’ , non dimentichiamolo, fino a pochi decenni fa era vissuta, all’interno del nostro Paese, con notevole intolleranza. Chi di noi non ricorda i cartelli – nella ‘civilissima’ Torino che aveva bisogno di operai per la Fiat in espansione – con la scritta “Non si affitta ai meridionali”?
Poi nacquero i figli di questi emigranti, e i figli dei loro figli, e faticosamente s’integrarono, al punto che soltanto i loro vecchi avrebbero voluto tornare, magari soltanto a morire, dov’erano nati. Loro, i giovani, si sentivano ormai milanesi o torinesi e a stento si adattavano a passarci le ferie estive, al paesello. Mi sono chiesta spesso se si sentissero torinesi o italiani, scoprendo, con ironica sorpresa, negli anni da me vissuti a Milano, che molti di loro erano diventati leghisti.
Ho la sensazione che siano ancora ben pochi a sentirsi europei tra i cittadini dell’Unione, mentre credo che ogni cittadino degli States, ad esempio, si senta americano.
Questo dell’appartenenza è un primo, grave problema che questa Europa in divenire deve affrontare.
Dai sondaggi fatti in vista delle elezioni di giugno, le previsioni sull’affluenza risultano bassissime e questo mi fa pensare che non si sia ben capita la portata di ciò che bolle in pentola. L’Europa sembra lontana, i problemi sono qui, è il posto di lavoro nella fabbrica dietro l’angolo che si sta rischiando di perdere, è alla Asl di zona che dobbiamo aspettare sei mesi per fare un’ecografia, è la filiale locale di una certa banca che non ci concede un mutuo perché non offriamo sufficienti garanzie. Ma in tema di politica occupazionale, di concessione del credito, di assistenza sanitaria nell’ambito del Welfare, è previsto – e già tutto scritto, nero su bianco – che gli Stati membri rinunceranno alla loro sovranità a favore di quell’Europa il cui Parlamento varerà le leggi che renderanno operativo il Trattato di Lisbona. Sarà il Parlamento che scaturirà da queste elezioni a proseguire su questa strada, primo per portare a termine un’armonizzazione - che le Direttive comunitarie non hanno ancora consentito – e poi per governare, a tutti gli effetti, l’Europa.
Ho la sensazione che non tutti abbiano capito quel che sta succedendo.
(continua…)