mercoledì 30 dicembre 2009

Racconto a puntate (La vita cambia)

Nonostante l’armistizio sancito da quel sorriso di riconoscimento le notti continuarono però a essere un incubo. Lei passeggiava avanti e indietro e pensava. Cristo santo si era sentita così sicura. Che cosa poteva essere mai un bambino? Tutte le donne li facevano. E invece era affogata nella cacca e non metaforicamente.
Le dicevano “Capirai da sola con quel misterioso sesto senso che guida le madri” e lei non capiva nulla, il sesto senso non era neanche un primo senso e gli altri cinque si erano persi per strada. Continuava a vagare per la casa con quel bambino urlante, rintronata dal sonno, senza capire perché piangesse invece di dormire, incapace di sopportare il vento in una città dove la bora la faceva da padrona.
Altro che incontri ravvicinati del terzo tipo, aveva scoperto a sue spese l’alieno che ogni bambino nasconde in sé e, come per tutti gli alieni, il loro primo incontro fu uno scontro, e senza esclusione di colpi. Col tempo avrebbe imparato a convivere con gli alieni ma, forse, disimparando a convivere con gli umani.
Era riuscita anche a laurearsi. Con il bambino sulle ginocchia aveva preparato la tesi; poi si era cercata un lavoro che le consentisse di conciliare famiglia e professione. Suo marito, pur non passando le notti a ninnare il figlio, non si era laureato e aveva trovato un lavoro che non gli permetteva di conciliare un bel niente. Quando nacque il loro secondo figlio, una bambina alla quale fu dato il nome di Lucrezia, si offrì volontario per una spedizione al Polo Nord, isole Svalbard, e lei non aveva nemmeno sentito la sua mancanza tanto inesistente era ormai diventata la sua presenza.
Come non entrare in crisi? Come non confrontare la sua vita con quella del marito? Lei amava teneramente, appassionatamente i suoi figli, ma aveva dovuto scegliere, scoprendo sulla sua pelle che ogni scelta è una lacerazione e una rinuncia a una parte di sé. E quelli erano anni in cui qualcuno scriveva “Tutto e subito” come motto di una generazione che non si limitava a volere ma pretendeva tutto e subito. Siamo figli della nostra epoca e lei fu figlia della sua. Dall’America il femminismo invadeva l’Europa e lei, prigioniera in casa, leggeva nelle sue notti solitarie, leggeva tutto ciò che trovava, per non perdere il contatto con il mondo, per sentirsi viva, per non affondare in quel letto troppo grande e troppo freddo che non divideva con nessuno. La sua casa si riempiva di libri, la sua testa di parole, la sua anima di dubbi. Affiorava il risentimento, convergevano in lei le rinunce, le umiliazioni, le fatiche non ricompensate delle donne che l’avevano preceduta: la generazione delle madri, passata attraverso il teatrino del fascismo e l’orrore della guerra. Donne che non avevano trovato le parole per dirlo, come titolò un romanzo femminista di quei tempi, ma che, nella ribellione delle figlie, che dettero finalmente voce al dolore, al desiderio e al rimpianto, avrebbero trovato il loro riscatto. (continua...)

Controllo, appartenenza e Fb

Dopo aver mosso i primi esitanti passi su MySpace e aver aperto un blog, mi sono iscritta a Fb. Sorvolando sulla difficoltà, strettamente tecnica, incontrata nell'usare questo spazio, non mi ha entusiasmato rendermi conto che la voglia di raccontarmi era stata ingabbiata in modalità e quantità prefissate. Con quale obiettivo? Quello di rendere più rapida, facile e ampia la comunicazione. Ma la comunicazione è confronto? Il confronto la presuppone ma non è scontato l'inverso. Io sul web ho cercato confronto e approfondimento ma devo precisare che, essendo una pensionata, questa mia ricerca non era finalizzata al conseguimento di un qualsivoglia tornaconto economico. Dopo una vita che, come per la maggior parte delle persone, si era snodata attraverso percorsi obbligati di orari, doveri, necessità, ora potevo concedermi il lusso di girovagare in piena libertà da un blog a un Social Network, sulla spinta unicamente della curiosità e dell'interesse a capire o approfondire un certo argomento. In tempi perigliosi come quelli che stiamo vivendo è scontato che molti frequentatori del web, tra cui molti blogger, abbiano scelto di privilegiare i Social Network per due motivi: perché consentono una comunicazione più immediata, schematica e quindi incisiva, e una diversa modalità di contatto. Non i contatti che si instaurano con i commentatori dei blog che possono apparire e scomparire come meteore, ma contatti con una "base" più ampia e costante nella sua partecipazione. La Serenissima come tastava il polso ai sudditi che popolavano le terre su cui si estendeva il suo dominio? Attraverso la figura dell'oste, che godeva di una posizione di prestigio poiché davanti al suo bancone passava un po' tutto il paese e, tra un bicchiere di vino e due chiacchiere, era possibile cogliere gli umori, individuare i disagi, prevenire le ribellioni dei sudditi, soprattutto di quelli più turbolenti. Fb è il bar dell'agorà dove si va a prendere l'aperitivo e dove, almeno di vista, ci si conosce tutti. E' il terreno di coltura dell'appartenenza, anche la più innocente. Forse per questo motivo - come, a mio avviso, molto correttamente si afferma ne Il nuovo mondo di Galatea - il ministro Schifani ha colto la pericolosità del Social Network più frequentato e per questo spazio e, non per il blog, ha invocato regole e limiti. Il blogger tradizionale non si aggrega, si isola e nel confronto con pochi la sua influenza si frantuma in scontri che non disturbano il potere.
Recentemente, combinando pasticci e ignorando le regole del "bon ton" informatico ho osato una sortita in uno spazio per me nuovo:Friend Feed e Twitter, ma ne parlerò alla prossima puntata.
Può essere utile leggere Diario semiserio di un viaggio viruale e Ancora blog

Racconto a puntate (La vita cambia)

Un pomeriggio vennero a trovarla due amiche, studentesse universitarie.
“Te lo ricordi il professore di statistica? Quello che non concedeva appelli se non in sessione d’esame? Bene, siamo riusciti a …”.
Vedendo l’espressione della sua faccia, si erano interrotte.
“Non sai niente? Non leggi i giornali?”
Giuseppe che le aveva rigurgitato sulla spalla aveva incominciato a piangere.
“Hanno occupato la facoltà di lettere… ” stavano dicendo.
“Come?”.
Giuseppe si era cagato addosso.
“Vediamo che sei occupata, ci sentiremo in un altro momento… ” e, scambiandosi un’occhiata, si erano alzate per andarsene ignorando Giuseppe.
Un po’ impacciate si erano abbracciate.
“Tornerete a trovarmi?” aveva chiesto.
“Sì, certo!” le avevano risposto, aggiungendo in fretta: “Abbiamo molto da fare: le manifestazioni, i volantini, le assemblee…”
Le aveva guardate allontanarsi dalla finestra. Ridevano fra loro. Si erano voltate, agitando scherzosamente il pugno alzato: giovani, libere di giocare alle rivoluzionarie, mentre lei affondava nella sua guerra quotidiana.




Ludovica sentiva sua madre per telefono ma tra loro le parole non dette, le situazioni non affrontate gelavano il rapporto. Super organizzata e ordinatissima, quando arrivava in visita, la nonna lasciava scivolare occhiate sbigottite sulle ceste della biancheria da stirare, sul frigorifero con la roba ammuffita, sulle mani della figlia scorticate dai detersivi e sul disordine che all’interno dell’appartamento regnava sovrano.
Lei aveva ripreso a studiare: di notte, di giorno, quando poteva e come poteva.
Anche Giovanni aveva ripreso a frequentare l’università e a volte rientrava tardi. Si giustificava dicendo che gli strilli del bambino non gli permettevano di concentrarsi. Tra la scuola dove insegnava e la biblioteca dove studiava, cercava di stare con moglie e figlio il minor tempo possibile.
Lei non era più la brillante studentessa che aveva conosciuto.
Era una madre.
Una casalinga che nei ritagli di tempo studiava.
Era triste ed era qualcosa di poco allegro che stava sognando quella notte in cui, al solito, l’urlo invase il sogno facendola sobbalzare mentre con le mani sugli orecchi tentava di sottrarsi alla lacerazione di quel grido. Guardò l’orologio: segnava le tre ed era la terza volta che la svegliava. Dalla sagoma al suo fianco giunse un borbottio: “Fallo tacere!”. Trovò una ciabatta nella quale infilò maldestramente il piede, rinunciando a cercare la compagna.
“Vengo, vengo”.
Era lì e urlava con tutte le sue forze. Allungò una mano e fece dondolare la culla mentre meccanicamente sussurrava quella nenia che lo calmava facendolo riaddormentare. A volte, ma non era la notte giusta. Lo prese in braccio e riprese a canticchiare. L’urlo si andava smorzando in un lamento monotono e angosciato.
La maternità era l’alieno che teneva tra le braccia, quello scontro senza esclusione di colpi, l’impossibilità di trovare un linguaggio per comunicare? Tra il suo, l’urlo, e quello di lei, le nenie, il vuoto. I pediatri consultati avevano allargato le braccia, suggerendo pazienza e camomilla… Le nonne la guardavano incerte, vagamente accusatorie: aveva provato a farlo mangiare di più? Non era servito. E di meno? Idem come sopra. Lo cullava nel modo giusto? E la camomilla calda? E il succhiotto? E una musica distensiva sullo sfondo. No, quella no, perché si era addormentata lei rischiando di farselo cadere dalle braccia. Era colpa sua? Sembrava decisissimo a farla impazzire. Ora dormiva? Con una leggerezza da Arsenio Lupin, trattenendo il fiato, l’aveva adagiato nella culla mentre dalla finestra filtrava il chiarore lattiginoso che annunciava l’alba. Tratteneva il fiato. Lui emise un lungo sospiro, spalancò gli occhi e la guardò. La guardò per un interminabile minuto. Sembrò soppesarla, valutarla. Non piangeva. Lei muta. Lento, quasi irreale, sulla bocca gli sbocciò un sorriso. Sdentato. Gli gorgogliò in gola mentre anche lei rideva, lo prendeva in braccio e ne coglieva il tepore, l’odore, sentendo che, nonstante il sonno, la fatica e la paura, amava quel bambino, lo amava con tutte le sue forze e non avrebbe mai smesso di amarlo.(continua...)

martedì 29 dicembre 2009

Libertà vo' cercando

Primo paragrafo dello Statuto de Il Popolo della Libertà:
"Il Popolo della Libertà è un movimento di donne e uomini che credono nella libertà e vogliono rimanere liberi, e si riconoscono nei valori del Partito dei Popoli Europei: la dignità della persona, le centralità della famiglia, la libertà e la responsabilità, l’uguaglianza, la giustizia, la legalità, la solidarietà e la sussidiarietà. Il Popolo della Libertà è nato dalla libertà, nella libertà e per la libertà, perché l’Italia, nel rispetto delle sue tradizioni di civiltà e di unità nazionale, sia sempre più moderna, libera, giusta, prospera, autenticamente solidale. "

Come commenta Galvuz la parola libertà riecheggia ben nove volte in poche righe... Libertà è una parola importante che, in un Paese come il nostro, evoca un passato doloroso. Con amarezza penso a quel popolo che riempiva, solo pochi decenni fa le piazze - anche se io ero troppo piccola per ricordarlo - sventolando i cappelli e facendo volare nell'aria i baschi all'annuncio dell'entrata in guerra. Popolo che credeva in Mussolini e quindi per consequenzialità logica non credeva nella libertà. Non sapeva nemmeno cosa fosse la libertà, come la legalità, d'altronde, spazzata via dalla scelta di assassinare un avversario politico. E la giustizia? Tutti eguali davanti alla legge? Certamente non con i Tribunali speciali. Rivedo quelle lapidi che si trovano dappertutto, nelle città, nei paesi dove sbucano come funghi, perfino lungo i viottoli che costeggiano i campi, con quei nomi contadini scelti in fretta senza fantasia, come Primo, Decimo, Quinto e quelle date che sconvolgono: venti, diciotto, diciassette anni; vite sacrificate perché la libertà non fosse solo una parola da pronunciare, ma una realtà nella quale vivere. Il Paese non ha bisogno di Forza Italia per essere più libero e più giusto. I sopravvissuti all'inferno della guerra hanno scritto la Costituzione più garantista, rispettosa e giusta d'Europa, quella Costituzione che ha consentito a Forza Italia, prima movimento e poi partito, di nascere e rafforzarsi.

Il Popolo della Libertà vuole rimanere libero? E' già libero. Allora cosa vuole: il bavaglio a Internet, il divieto di manifestare, il processo breve, il Lodo Alfano per istituzionalizzare la diversità dei cittadini davanti alla legge? Sarebbe necessario modificare organismi di controllo (come la Corte Costituzionale) o gettare all'aria il principio dell'autonomia dei poteri che reggono lo Stato. Si può fare?
"Correggendo" la Costituzione: da liberale in... un po' meno libera(le).
"Curioso" direbbe Paolini: ripetere nove volte la parola libertà per poi limitarla.
Curioso, veramente!

lunedì 28 dicembre 2009

Racconto a puntate (La vita cambia)

“Cristo, non ce la faccio più!”
Il dolore arrivava a ondate sempre più ravvicinate: partiva dalla schiena per attanagliarle i fianchi. Poi scendeva, scivolava untuoso lungo le cosce. Nemmeno nelle più nere previsioni avrebbe ipotizzato una simile sofferenza. Efficiente, un po’ distaccata, l’ostetrica la invitava a respirare come da corso preparatorio al parto.
Andò avanti ancora così per delle ore; poi finalmente arrivò un medico. “Coraggio, adesso l’aiuteremo” le disse, facendole un’iniezione. Dopo la somministrazione dell’ossitocina, il dolore diventò insostenibile, le doglie si fecero più lunghe e frequenti. Pregò di morire, annaspando tra le lenzuola inzuppate di sudore e la convinzione che non sarebbe mai riuscita a far uscire da quella fessura minuscola che le incideva il ventre il corpo del bambino.
Intorno al suo corpo martoriato si muovevano fantasmi vestiti di verde.
Qualcuno le stava dicendo: “Forza, spingi, spingi…”.
Spinse.
“Dai che ci siamo, ancora un piccolo sforzo”.
Spinse di nuovo.
Sentì un fiotto caldo tra le gambe.
Strillò. Le fece eco un altro pianto, stizzito.
“E’ un bellissimo maschietto”.
Continuò a piangere: di gioia e sfinimento.
Il ginecologo gettò il camice imbrattato di sangue e l’ostetrica le tolse la camicia madida di sudore che si era attaccata alla pelle.
Lo guardò.
Non c’eravamo ancora incontrati, ma ci conoscevamo già molto bene - gli mormorò, mentre lui, come un topino cieco, cercava il calore della sua pelle tentando di ciucciarle il braccio.
Con un sorriso, più incredulo che soddisfatto, si preparò ad affrontare i parenti.





La nascita del bambino, maschio per giunta, aveva svelenito gli animi.
Non tutti, però, e non del tutto.
Le fu imposto di dare al neonato il nome del nonno, morto durante la ritirata di Russia. Sua madre, che si era trasferita da lei nelle ultime settimane della gravidanza, dopo una breve visita all’ospedale il giorno successivo alla nascita si era dileguata. Dall’Abruzzo, circondata dalla fama di donna esperta nonché abile infermiera, giunse la suocera per occuparsi di lei e del neonato. Marias, basca per la precisione, parlava una mescolanza di spagnolo e dialetto abruzzese ma solitamente non parlava, almeno con lei.
La prima notte in cui si alzò per cambiare il pannolino a Giovanni, piombandole alle spalle come un falco, le strappò il bambino dalle braccia ingiungendole di tornarsene a letto mentre sull’onda di una nenia cantata nella sua lingua ninnava aritmicamente il nipote.
“Ma ci possiamo fidare di tua madre?” lei chiese al marito la mattina successiva.
“Stai scherzando, quello che fa mammà è ben fatto” lui le aveva risposto, seccato.
La situazione peggiorò nella settimana successiva: il bambino piangeva di giorno e di notte, quasi ininterrottamente. Lei e Marias si alzavano a turno durante la notte per tenerlo in braccio.
Il novello padre dormicchiava e imprecava.
Sulla casa sembrava essere passato un ciclone: file di ciripà sventolavano, appesi ad asciugare, e biberon di latte in polvere spuntavano come funghi da tutte le parti. Sul fuoco bollivano succhiotti e pentolini di camomilla.
Lei girava per la casa in vestaglia, ciabatte e calzettoni, rintronata dal sonno, spaventata. Aveva fantasticato un bebè da carosello e si ritrovava una creatura che non dormiva né di giorno né di notte. Angosciata chiedeva aiuto a Marias che non parlava, lanciandole oblique occhiate di disprezzo. Se apriva bocca sentenziava: “Una madre sa sempre cosa fare”.
Perentoria.
Ma lei non lo sapeva, e il suo senso d’inadeguatezza aumentava di giorno in giorno.
Dopo due settimane, stremata dall’assenza di sonno, Marias fece la valigia e se ne tornò in Abruzzo.
La casa era ormai un campo di battaglia.
Giuseppe faceva qualche sonnellino spezzettato durante il giorno e piangeva tutta la notte. Suo padre continuando a imprecare si era trasferito nella stanza degli ospiti, ma gli strilli del figlio che gli impedivano un sonno regolare lo rendevano isterico.
Lei affrontava quelle notti insonni passeggiando lungo il corridoio.
Cantava ninne nanne.
Piangeva. (continua...)

domenica 27 dicembre 2009

Scrittura e visibilità

E' stato un anno dedicato alla scrittura... A nulla è servita la laurea in Economia e Commercio, a poco i trent'anni passati a insegnare Tecnica bancaria o Economia aziendale. Le passioni possono non divampare, ma non si spengono: covano sotto la cenere e sanno attendere, pazienti. Ho rivolto spesso nel corso dell'anno la mia ansiosa domanda alla blogsfera sotto la spinta di quel rovello "scrittrice o scribacchina?" che non mi dava tregua e, poco fa, ho risposto a un aspirante scrittore che, reduce da una critica negativa sul suo romanzo, si chiedeva angosciato e arrabbiato quale scrittura potesse essere apprezzata a livello editoriale.

Penso che uno scrittore debba fare i conti prima di tutto con se stesso, debba interrogarsi, riflettere e scrivere, leggere e scrivere di nuovo, e rileggere per l'ennesima volta per scoprire se è in grado di esprimere il suo mondo interiore con la stessa appassionata valenza con cui lo vive.

Perché si scrive? Perché non si può non farlo, perché scrivere diventa naturale come respirare e soltanto dopo, successivamente, se ciò che scriviamo ci soddisferà, lo daremo da leggere, lo consegneremo al lettore, perché è la parola scritta il trait d'union dello scrittore con la realtà e la vita che lo circonda, indipendentemente dal parere positivo o negativo di un editore, che riguarda la pubblicazione, non la scrittura in sé.
Chi scrive fissa lo sguardo sulla realtà: la osserva, la interroga, la volta e rivolta analizzandone tutte le pieghe, aspirandone profumo e tanfo, gli occhi spalancati sulle sue brutture o stupiti dalla sua bellezza, sedotto, irretito dal fascino che esercita su tutti, ma che allo scrittore serve per inventarsene un'altra, verosimilmente valida a cui regalare le sue emozioni, dopo averle depurate della sua storia personale, per metterle al servizio dei personaggi che la sua fervida fantasia ha creato dal nulla, estraendoli, perfetti come i conigli di un prestigiatore, dal suo cilindro di cantastorie.

Poi sarà l'esterno (lettori, editore, critici) a valutare lo scrittore riconoscendogli maggiore o minore visibilità. Se mai riuscirà a pubblicare.

Musica nuova

E anche questo 2009 si appresta a scivolare nel vasto mare dei ricordi... Avanza il Nuovo. Ci lasciamo alle spalle la crisi finanziaria più grave dopo quella di Wall Street del '29. Allora l'America ne uscì grazie alla guerra. E ora? Cosa succederà quando, per le modalità matematico/tecniche con cui vengono determinati i piani di rimborso dei mutui, i proprietari di appartamenti si renderanno conto di dover corrispondere alle banche un debito residuo superiore al valore di mercato dei loro immobili? Se a questo aggiungiamo la Cassa Integrazione, per i pochi fortunati nella condizione di usufruirne, forse ci risulta più comprensibile la "generosità" delle banche che hanno varato un provvedimento di dilazione di un anno dei mutui con pagamento di rate ridotte per lo stesso periodo. Infatti, recuperare i crediti da parte delle banche mettendo all'asta gli immobili (sui quali hanno acceso ipoteca) farebbe scoppiare, come negli Usa, la bolla immobiliare. E' una responsabilità che il sistema bancario non intende assumersi, poiché ne potrebbe ricavare soltanto un danno.

Cosa dicono gli economisti? Finalmente qualcuno, reso prudente dagli errori commessi negli ultimi anni, borbotta che la crisi non ha precedenti e che gli scenari ipotizzabili sono suscettibili di cambiamenti impensabili. Poche le certezze e quasi tutte di segno negativo. Il nostro Paese importa lavoratori poco qualificati ed esporta "cervelli", la disoccupazione aumenta, il Paese s'impoverisce, la borsa non riprende, il malcontento serpeggia e, forse, siamo di fronte a un cambiamento epocale. Forse.

L'Occidente si lascia alle spalle "l'età dell'oro" e i nostri figli si apprestano a diventare una generazione destinata a galleggiare nel mare della più totale incertezza: lavorativa, quindi economica e di conseguenza personale e sociale, perché scelte e comportamenti dei quali noi sessantenni ci eravamo fatti portatori come di certezze assolute sono crollati come birilli: il valore della laurea, soprattutto di alcune, l'indebitamento finalizzato all'acquisto di una casa, la pratica del risparmio o la superiortà nel lungo termine dell'investimento azionario, tanto per indicarne soltanto alcuni.

Quale società si sta delineando? Penso si possa già affermare che sarà una società basata sull'incertezza e quindi sulla mancanza di progettualità. Sarà richiesta una notevole elasticità per passare da un lavoro a un altro. Cambierà, è già cambiata, la scuola. I miei nipotini non sanno cosa sia un tema... ma spaziano dall'inglese all'informatica passando per l'ora di musica e molteplici attività sportive. Il sapere dilaga in orizzontale ma non viene approfondito. Bandito l'apprendimento mnemonico anche se, a volte, ho il sospetto che sia l'apprendimento, tout court, a essere bandito. La memoria, data la mole di ciò che si dovrebbe ricordare, è quella del computer. Quindi non sarà necessario sapere, ma saper cercare.

Il computer verrà regalato per la Prima Comunione al posto dell'orologio per i maschi e... per le femmine? Quali doti consentiranno alle future donne un destino migliore? La bellezza, rigidamente ancorata a ben precisi canoni estetici, resta per l'universo femminile un requisito essenziale che può spalancare le porte del mondo dello spettacolo, televisione in testa. E, per chi non ne faccia una questione di moralità, ben altre porte.

Tutti i confini sfumano, anche quelli tra il femminile e il maschile e tra i maschi e le femmine s'inseriscono i transessuali. In una società multietnica convivono usi, credenze e costumi diversi e, pur con tensioni, il nuovo che avanza è sempre più diversificato. E Obama, il primo presidente di colore alla Casa Bianca, è il simbolo di questo cambiamento.

Un'ultima cosa mi sento di poter dire: da questo impasse non usciremo ricalcando schemi vecchi, noti e stantii, ma facendo scelte totalmente innovative. Quali non so, ma nel cervello e nell'anima dei nostri ragazzi qualcosa sta prendendo forma anche se per il momento è alla caduta rovinosa del vecchio mondo che stiamo assistendo. Cessato il tonfo della caduta aguzziamo la vista e ascoltiamo:
forse sentiremo una musica nuova.

venerdì 25 dicembre 2009

Racconto a puntate (La vita cambia)

Il mattino seguente si svegliarono, tra briciole e forcine. Una pioggia umida cadeva sul Canal Grande dando la sensazione che tutta la città fosse sprofondata sott’acqua in un grigiore indistinto e scivoloso.
Giovanni, che aveva bevuto troppo, aveva mal di testa e lei affrontava le consuete nausee del risveglio.
Rientrarono in fretta da quel viaggio di nozze lampo che entrambi sentivano, un po’ come il matrimonio appena celebrato, più un atto formale in ossequio ai desideri dei parenti che una loro scelta. Avrebbero preferito conoscersi meglio, vivere insieme approfondendo il loro rapporto. Tutto era avvenuto troppo in fretta e Ludovica avrebbe voluto parlarne con sua madre, ma non aveva osato. Sentendosi giudicata, respinta, si era chiusa a riccio piena di rancore, simulando una sicurezza che non provava.
Non telefonò mai alla madre, non le comunicò le sue paure.
Parlava con quel bambino che le cresceva dentro arrotondando il suo corpo sottile, parlava con quel bambino fantasticato. Di notte, quando il vento ululava facendo tremare le imposte della sua stanza, gli cantava le canzoni che conosceva per fargli e farsi coraggio.
Comperò per lui un paio di scarpine rosse, il colore della ribellione che sentiva dentro e che stava infiammando l’università, il colore delle bandiere che sfilavano nei cortei che lei guardava passare curiosa, ritrovando gli slogan che avevano ritmato il tempo della sua infanzia.
La protesta giovanile scuoteva l’università avanzando inarrestabile in una selva di pugni alzati, di volantini che il vento faceva volare come rondini nel cielo della città.
Ma Ludovica, come il suo compagno, era stanca di guerra.
Lei era cresciuta con un padre comunista, lui in una famiglia di destra che aveva aderito con entusiasmo al fascismo di cui aveva condiviso i fasti, ma anche la fine tragica. La morte del padre, disperso in Russia, aveva lasciato sua madre senza mezzi con i figli piccolissimi a fare i conti con le sorelle del marito.
Entrambi erano in aperta ribellione con le famiglie d’origine schiacciati dal peso di scelte ideologiche che, segnando la vita dei genitori, avevano inciso anche sulle loro vite. Sopraffatti dai bisogni li avevano scambiati per desideri.
Quando si erano conosciuti in quell’estate triestina battuta dal vento, avevano dato fondo ai loro risparmi comprando un Topolino decappottabile con cui avevano scorazzato in lungo e in largo, in assoluta libertà. Abbandonati i libri di scuola e le dispense nella macchina, dimenticate le lezioni, in quelle giornate estive che morivano in tramonti rossi come il suo bikini minuscolo che in mare sembrava un inascoltato segnale di pericolo, avevano pensato solo ad amarsi e, nelle doline ombreggiate dai lecci, avevano inciso i loro nomi sulle cortecce degli alberi e le pietre del Carso. All’ombra della luna d’agosto, sotto stelle che scoppiavano nel cielo come fuochi d’artificio, Ludovica aveva incenerito, in un bagliore breve e intenso, anche la sua giovinezza.
Per sempre. (continua...)

giovedì 24 dicembre 2009

Auguri a tutti e gesti scaramantici per un anno che si annuncia difficile...

martedì 22 dicembre 2009

I poeti sono tristi

I poeti sono tristi
il dolore ha mille sguardi
infinite storie
...
spersi nei labirinti dell'anima
tra sterpi
e sassi
dove le vipere
aspettano
sotto il sole
che la polvere si sollevi
a indicarne il passo
...
i poeti
vagano

lunedì 21 dicembre 2009

Racconto a puntate (La vita cambia)

Il marito accanto a lei allungò una mano ad accarezzarle la guancia, distogliendola dai suoi pensieri. “Siamo quasi arrivati. Sei stanca?” le chiese.
Ludovica non rispose, intenta com’era a ricordare.
Intorno a loro il paesaggio era cambiato, mutato in quello tipico lagunare. Gabbiani si alzavano in volo, stridendo. Dopo aver lasciato la macchina nel parcheggio alle porte della città, in pochi minuti si ritrovarono nelle vie strette di quella Venezia che tanto le ricordava la geometria del ghetto che a Trieste da bambina era solita attraversare per arrivare alla casa di sua nonna. Identica la mancanza di luce, l’arcobaleno dei panni stesi ad asciugare, le rachitiche piante sugli stretti davanzali. Percorsero le calli incrociando canali che esibivano casa ferite dall’acqua, macchiate di muffa verdastra che intaccando l’intonaco ne facevano affiorare l’ossatura in pietra o mattoni. Come i santi portati a spalla tra i fumi d’incenso di una processione, la città le ondeggiava davanti agli occhi, avvolta nella nebbia che ne sfumava i contorni mentre quel frangersi leggero dell’onda, a scardinare cocciuta qualsiasi cosa ferma, vibrava nell’aria, confondendosi con la parlata molle, strascicata, rigorosamente dialettale dei suoi abitanti, quasi a voler rivendicare quel passato da gran dama che può ancora imporre le sue debolezze come scelte. Perché se l’acqua che cingeva Trieste, la sua città, era ampiezza, respiro, promessa di avventura e di fuga, a Venezia, umida e stantia, l’acqua assediava e non incorniciava, città nella città colmava i suoi canali, circondava, mormorando e sussurrando, le sue fondamenta. In quell’acqua di laguna stantia, la città si specchiava, riflettendosi con i suoi eccessi di ori, smalti, e pallidi marmi traforati come pizzi. Splendida e decadente, fondale perfetto per il gioco delle maschere e per quella cerimonia degli addii che in quella notte avrebbe sancito la sua rinuncia ai grandi spazi e la sottomissione al ruolo di moglie e madre in cambio di serenità e sicurezza.
Nell’albergo vicino al Ponte di Rialto, in quella stanza che si affacciava sul Canal Grande, togliendosi lentamente le forcine dai capelli, la gola piena di colomba che si rovesciava all’indietro sotto il peso dei capelli mentre il marito impaziente le slacciava i bottoncini dell’abito, Ludovica, inconsciamente seduttiva, si sottrasse al suo abbraccio ridendo, ma quasi cercando rassicurazioni su quel suo corpo di donna che la maternità già espropriava del suo ancora incredulo potere di seduzione.
Dopo, nella stanza in penombra, appena rischiarata dalle luci che rimbalzando sull’acqua schizzavano colori illuminando la notte, gli sussurrò: “Vieni, vieni qui…”
Lui, intento a sollevare i coperchi della cena che si erano fatti servire in camera, annusando i vapori che salivano dai piatti, le chiese “Hai fame?”.
“No, sono solo stanca” rispose Ludovica, socchiudendo gli occhi mentre, sollevato il coperchio della zuppiera, lui affondava il cucchiaio nella zuppa di funghi. Attraverso le palpebre socchiuse l’osservò vuotare un piatto dietro l’altro.
Fuori, nell’oscurità tiepida dei canali, le sagome delle gondole danzavano sull’acqua, curvilinee come fianchi di donne. Intorno a loro la città degli amanti esalava sospiri e desideri.
Era quello l’amore coniugale? (continua...)

sabato 19 dicembre 2009

Corpo malato

Era sottile ma elastico, le gambe nervose con quei piedi che tu una volta, ridendo, avevi definito "da santa" e io da quel momento non li aveva più odiati, quei miei piedi nervosi, sempre pronti alla fuga, che mal sopportavano quelle mie pause, accartocciata e quasi fatta su nella coperta a leggere. Era schivo, non amava la luce bianca dell'estate, nemmeno quella fasulla della lampada che sembrava svelare tutto di lui, ogni rossore, ogni traccia di stanchezza, l'impronta che ogni anno il tempo lasciava sulla pelle, all'inizio un'ombra appena, poi una ruga, quindi un marchio a fuoco per farlo scomparire, oh non dal mondo, dai tuoi occhi che solo quel marchio avvertivano dell'ectoplasma trasparente che l'aveva ingoiato.
Era però ancora forte: un po più lento, più paziente nell'attesa, meno insofferente alle regole e più attento, capace di sguardi obliqui, diretti, lunghi e capaci di cogliere il particolare, di soppesarlo, indifferente alla corsa degli altri intorno a lui. Più autonomo nelle scelte. Quando ancora poteva scegliere, lui, di tenere testa alla vita. Era. Era tutto ciò che più non è. Lui.

Racconto a puntate (La vita cambia)

Tra abbracci e manate sulla schiena erano partiti, in un sussurrio di 'auguri' e 'fate i bravi' nonché un 'Dio vi benedica' sentito prima di scomparire nella macchina del marito.
Ludovica sfiorò la fede all’anulare e, dopo essersi massaggiata le caviglie indolenzite, si rilassò pensando che quel loro osteggiato matrimonio finalmente era stato celebrato. Lo ricordava bene il giorno in cui sua madre l’aveva convocata per risolvere il pasticcio che aveva combinato, l’imbarazzo per quel bambino che era ormai una certezza e, di fronte al suo rifiuto di abortire, quella frase “Qui non ti voglio” e i suoi occhi mentre aggiungeva “La gente… ” senza nemmeno darsi la pena di chiederle come stesse. Ricordava anche il silenzio di suo padre, per una volta stranamente d’accordo con la moglie e la porta d’ingresso che si era chiusa alle loro spalle con un rumore secco. Tra le due famiglie era intercorso un tacito accordo: tagliare prima di tutto i viveri ai due ragazzi, ma Giovanni era riuscito a ottenere una supplenza annuale e il parentado era stato costretto a rassegnarsi a quel matrimonio. Quando Giovanni l’aveva portata a conoscere la sua famiglia, lei era piombata in un mondo fuori dal tempo in quel paese sperduto tra le montagne, tra cimeli fascisti, parenti nobili assai e contadine ossequiose che la chiamavano con riverenza donna Ludovica facendola scoppiare in risate che risuonavano moltiplicandosi nei saloni polverosi del vecchio palazzo. La famiglia del marito aveva esibito una presunta nobiltà, aprendo i saloni del maniero – la casa dalle cento stanze, come veniva chiamata nel paese - e indicandole nei quadri alle pareti ammiragli, alti prelati, nobili di campagna e, per ultimo, meraviglia delle meraviglie, perfino un papa. Lei, studentessa triestina figlia di un comunista, nemmeno cresimata e pure incinta, piombata in famiglia con il chiaro intento, secondo loro, di accalappiare il futuro marito per entrare a far parte di prepotenza di un mondo che non le spettava, era stata considerata una vera iattura. Pur intimidita da tanto splendore, non aveva potuto fare a meno però di notare che il palazzo crollava a pezzi, sopraffatto dalle macchie di umidità nonché dalla necessità di urgentissimi lavori di restauro.
Avevano cercato di educarla quanto più rapidamente fosse possibile: a non alzarsi quando una donna anziana ma a lei socialmente inferiore entrava nel salotto per conoscerla, a non mettersi lo smalto sulle unghie, nemmeno quello rosa naturale, a non presentarsi, come aveva fatto precipitando nel più nero imbarazzo i presenti, nelle “cantine” dove gli uomini bevevano e chiacchieravano, quasi si trattasse di una pasticceria per signore. Le avevano anche raccomandato di non uscire a vagabondare per il paese e soprattutto di non fermarsi a chiacchierare da sola con uomini.
Il giorno in cui senza curarsi dei consigli ricevuti l’aveva fatto, al suo ritorno aveva trovato la suocera in lacrime attorniata dalle zie stupefatte per il suo comportamento.
Giovanni era sgattaiolato sottraendosi allo scontro lungo la scala che portava alla cantina e quando lei aveva cercato di seguirlo si era trovata davanti la zia del marito a sbarrarle la strada, la schiena sulla porta e le braccia allargate a impedirle di mettere a repentaglio la sua reputazione seguendolo nella cantina dove lo aspettavano gli amici. Non aveva dato eccessivo peso a ciò che aveva visto, limitandosi a sorridere, seccata soltanto per la scarsa attenzione che il promesso sposo le riservava, impegnato com’era a passare le serate e le giornate in compagnia dei ragazzi del luogo con i quali era cresciuto condividendone la passione per la caccia, le nuotate nel fiume e le serate di bisboccia che si protraevano fino all’alba.

mercoledì 16 dicembre 2009

Pinocchio insegna

Il pino, solitario 007 di guardia davanti mia alla finestra, è bianco di neve e la gatta esita sul davanzale, prima di rientrare e accoccolarsi sulla stampante, gli occhi gialli spiritati che cercano conforto, o forse riflettono soltanto il mio bisogno di conforto. E' passata la Finanziaria, gli evasori fiscali hanno ricevuto il cadeau natalizio dal governo Berlusconi: i proventi d'impresa sottratti al Fisco potranno rientrare, pagare una miseria, e essere spesi allegramente o investiti. Tutto ciò mentre l'imposizione fiscale sui redditi da lavoro rende necessariamente virtuosi, tramite il marchingegno della ritenuta alla fonte da parte del datore di lavoro, operai e impiegati, infischiandosene del principio di eguaglianza del dettato costituzionale che non prevede certo che i cittadini siano diversi davanti al fisco. Il Ministro dell'Economia Tremonti ha spiegato che lo Scudo Fiscale favorirà la ripresa dei consumi, degli investimenti nonché l'afflusso di risparmio alle banche.
Inutile rilevare che, per incrementare la liquidità sul mercato, sarebbe stato sufficiente ridurre le aliquote Irpef delle tredicesime, ripristinando almeno parzialmente un'equa tassazione fiscale. Il nostro Tremonti si è preoccupato degli imprenditori e delle banche, alle quali il boccone dei prodotti derivati è andato per traverso, causando perdite di bilancio e difficoltà di raccolta fondi che il ministro ha ritenuto prioritarie rispetto ai problemi di chi ha perso il posto di lavoro o del rispetto del dettato costituzionale.
Inutile rilevare che la legge è passata con il voto di fiducia.
Inutile sottolineare che l'opposizione viene attaccata - (quella poca che non accorre al capezzale dell'Infortunato) come responsabile del clima di violenza che ha portato come conseguenza all'aggressione del Presidente del Consiglio - e zittita.
Inutile rilevare che mentre il Paese va in malora i telegiornali parlano del naso di Berlusconi. Forse perché continua a crescere nonostante la frattura, come Pinocchio insegna?

Il tempo è fatto d'immagini

Una vita, in fondo, si compone di momenti, scaturiti da scelte, imposte o subite, che determinano la qualità di quella vita perché la quantità è data soltanto dallo scorrere dei giorni che collegano, in fila come soldatini tutti eguali, un momento all'altro. Un collage d'immagini fissate nella memoria a perenne ricordo di emozioni profonde in cui, per evitare di esserne travolti, l'attenzione si concentra su particolari apparentemente irrilevanti che per tutta la vita attraverso un suono, un profumo, un sapore ci riporteranno di colpo a quel momento.

Quella tonalità di luce, che pervade l'aria di languore e annuncia l'autunno, sapeva di libri freschi di stampa e quaderni nuovi e, tiepida e raccolta, filtrava attraverso le tapparelle danzando sulla parete. Alla mia sinistra il grembiule, il fiocco e la cartella. Tutto nuovo, lustro per quel mio primo giorno di scuola. E, annidata dentro, la paura di un cambiamento che mi avrebbe strappato all'asilo delle suore, ai compagni che conoscevo, ai giochi sotto il sole nel cortile che lasciva intravedere l'ossatura di due case bombardate.
E' odore di scuola quello dei libri che annuso nello sfarfallio delle pagine fresche di stampa che sfoglio... La scuola, fondale privilegiato di tanta parte della mia vita, con il suo rituale di campanelle che squillano a sancirne la cadenza dei tempi e la polvere di gesso che ti entra nelle narici . L'ho lasciata così come si lascia un amore, conservando sulla pelle l'estraeità di quell'ultimo sguardo che ci scivola addosso e che ci riconsegna all'anonimato della folla. Con dolore, ma anche rabbia. Profonda e mai più tirata fuori.

La guerra è invece una madonna di coccio. Scheggiata. Attirava la mia attenzione, facendomi sospendere il gioco nel cortile delle monache, all'asilo. E io, che ero già allora una bambina pensosa persa in un suo mondo fantastico, ricordo che mi fissavo spesso su quello che restava di una camera da letto dipinta d'azzurro che sembrava un riquadro di cielo in quella casa bombardata che vedevo oltre la recinzione del cortile. Nessuno l'aveva staccata dalla parete, lasciandola lì a custodia delle rovine e nella mia memoria a ricordo incancellabile della guerra.

La strada sotto casa era piena d'ombra e io la percorrevo in fretta, i tacchi che picchiavano sull'asfalto. Anche il cuore picchiava contro le costole. La luce del lampione spioveva dall'alto come una corolla e lui, il mio primo ragazzo, le mani in tasca, i capelli biondi e chiari come quelli di un bambino, aspettava... Protetti dall'ombra della sera, ci baciammo contro il muretto di un giardino. Il suo maglione rosso accendeva la sera, aspra di vento e umidità. Mi avrebbe lasciata dopo pochi anni, gli occhi azzurri taglienti che mi fissavano come se non mi avessero mai vista. La camicia sudata che mi rimandava l'odore della sua pelle che intravedevo tra bottone e bottone, mentre lui mi diceva che si era innamorato di un'altra e le primule sul bordo del fosso erano gialle come la rabbia in quella primavera lontana in cui scoprivo il tormento della gelosia e la stupidità del possesso.

Tulipani di nuovo gialli e rose bianche che il vento scuoteva infrangendosi sui vetri della sala parto... A Trieste i neonati li porta il vento che ti tiene sveglia a sentirne il respiro aspettando l'alba.

E altre immagini si aggiungono a infittire i ricordi, mentre il tempo se ne va e la memoria del presente si fa labile, un po' imprecisa e il passato sembra più ricco, vivido, bello ma è soltanto che siamo passati dal tempo del fare a quello del ricordare. Dalla giovinezza alla vecchiaia, dal vento alla nebbia spessa e umida che tutto ingrigisce della Padania.
“Racconti dal sottobosco” di Silva Ganzitti è un libro per bambini che mi è piaciuto molto. Anche per offrire qualcosa di alternativo ai cartoni animati che imperversano in tv, ho pensato fosse arrivato il momento di mettere in mano ai miei nipoti un libro di favole: ben scritto, per affinare il gusto del bello, con un pizzico di mistero, per renderlo accattivante e illustrato, in omaggio a questa civiltà dell'immagine in cui vivono immersi.
Una ragazzina lungo un sentiero di campagna si ferma a osservare curiosa la vita che scorre davanti ai suoi occhi e diventa la spettatrice privilegiata di tre storie di animali, quelli che che abitualmente animano il sottobosco... e, tra un filo d'erba che il vento piega e una margherita che ondeggia, coglie, in quel microcosmo minuscolo, tratteggiato con fantasia ma anche con precisione dall'autrice, la cattiveria, la paura ma anche l'audacia e il coraggio, tutta la gamma dei sentmenti e delle emozioni che animano il mondo e che il bambino, vivendole , è perfettamento in grado di cogliere, leggendone però una rappresentazione fantastica. Bello!

Racconto a puntate (La vita cambia)

Su Trieste soffiava il vento. A folate, portava l’odore del mare fin lassù, sul sagrato della chiesa medioevale che si stagliava, con il campanile a lato, contro l’azzurro del cielo, quel cielo lustro e terso che solo le città ripulite dalla bora conoscono.
Nell’aria voci si rincorrevano, qualche risata volava via, perdendosi tra le lapidi del cimitero che s’intravedeva oltre la chiesetta.
Lo sposo attendeva, l’abito scuro troppo nuovo e la cravatta color grigio argento che gli dava una sensazione di soffocamento.
Rideva spesso, troppo.
All’interno della chiesa, l’organista provava la marcia nuziale, spaventando i colombi che si aggiravano sul sagrato snidando chicchi di riso sfuggiti alla scopa della perpetua nel matrimonio precedente.
La sposa tardava.
Qualcuno guardava l’orologio.
Una linea invisibile separava gli uni dagli altri: due gruppi si distanziavano, diversi nell’aspetto fisico, nella parlata, nell’atteggiamento. Gente di mare, da una parte: alta, chiara di occhi e di capelli, il dialetto molle, privo di doppie e strascicato, che lasciava traccia di sé anche nell’italiano che affiorava quando si rivolgevano a persone dell’altro gruppo.
Gente di terra gli altri, discendenti di razze montanare, la corporatura solida che negli anni s’inquarta. Scuri di occhi e capelli, bruni di pelle. La parlata meridionale, il tono della voce più alto, un’arroganza nei gesti che ne tradiva l’appartenenza sociale. Impellicciate le donne, i cappelli trattenuti a stento con la mano per evitare che il vento li strappasse facendoli volare nel cielo come aquiloni.
“Eccola!”.
Una macchina, sbucata da dietro l’angolo della stradina che a tornanti saliva dal mare fino alla chiesa, si avvicinava lentamente.
Le ruote, frenando, emisero uno stridio che si confuse con i versi rochi dei gabbiani, mentre la sposa allungava il piede fuori dalla macchina.
Alta e bionda, indossava un cappotto a ruota che non riusciva a nascondere una rotondità sospetta. Tra le mani roselline; sui capelli, annodati e ricascanti a boccoli sulla fronte, una trina preziosa incorniciava il volto giovane, intatto.
Il padre della sposa si avvicinò per darle il braccio, mentre l’organista attaccava con la marcia nuziale.
La sposa, impaziente e poco ligia al cerimoniale, avanzò lungo la breve navata ridacchiando.
Le fotografie, scattate durante la cerimonia, l’avrebbero immortalata in bisbigli, risatine trattenute a stento e stupore. Negli occhi, passeggero come un lampo estivo, lo sconcerto che solo un osservatore molto attento avrebbe potuto scorgere.
“Finché morte non vi separi” tuonò lo zio prete che dal pulpito officiava il rito, lo sguardo che scivolava collerico e indagatore sulla sposa.
Un raggio di sole s’insinuò dalla vetrata trafiggendo la sposa e illuminando il cristo dolente davanti a lei.
Un brivido la scosse.
Si voltò a cercare sua madre con gli occhi incrociandone lo sguardo, ma senza esserne rassicurata.
“Così sia”.
Baci, abbracci, mani sudaticce.
Profumo di tuberose. Sfatte.
L’odore di un matrimonio è quello di un funerale. (continua...)

lunedì 14 dicembre 2009

Il corpo non può mentire

Il folletto sempre in movimento, mai stanco, sempre ilare a snocciolare la barzelletta di rito, il potente a cui s'inchina servile il codazzo dei "suoi", è un uomo come tutti gli altri. Nonstante gli 007 che lo circondavano fiutando l'aria, nervosi come cani da caccia sulle tracce della preda, un uomo qualunque, psichicamente instabile, armata solo quindi della sua rabbia e della sua follia, ha dimostrato a coloro che ritengono il leader un concentrato di carne e potere, capaci entrambi di sfidare il tempo, che di un uomo, fatto di carne come tutti gli altri, si tratta. Ogni settimana negli stadi si assiste al lancio di oggetti contundenti: é doloroso ma abituale. I giornalisti non ne parlano più perché è banale. Un gesto da stadio nelle premesse e nell'esecuzione, ma non nelle conseguenze L'uomo che non può "perdere tempo", nemmeno due ore per rispondere alle domande di un giudice, messo fuori uso, ridotto ferito e spaventato in una camera d'ospedale, con questa facilità?
L'avessero aggredito a parole non avrebbe avuto problemi, sarebbe stato sufficiente negare o mentire, ma l'aggressione al corpo non può esssere negata. Il corpo non può mentire, il corpo cede, collassa, sanguina e con lui collassa non il potere di Berlusconi ma l'immagine che del potere lui ci ha dato.
Sarà difficile scordare quello sguardo di uomo ferito, quel volto sbiancato che né fard né trucchi hanno "preparato" per la folla, per quel voyeurismo che ha tanto contribuito a scatenare e che oggi gli si rivolta, drammaticamente, contro.

La vita cambia

Ho sempre odiato le case ordinate, le trovo agghiaccianti, pervase da un rigor mortis che ai miei occhi, le rende cimiteriali. Case che sanno di deodorante per ambienti, con le finestre ben serrate, le tende che cadono a piombo. I mobili lucidi, senza un granello di polvere.
Qualche pianta, ma poche. Sporcano. Sono vive.
Profumo di cibo? Non sia mai.
Sfidano i rigori dell’inverno le vestali di questi templi: cucinano in cappotto, a finestre spalancate in locali asettici come gabinetti dentistici, circondate da pentole tirate a lucido, cappe aspiranti, trita rifiuti e altre diavolerie che non usano quasi mai: potrebbero sporcarsi, appannarsi, perdere di lucentezza.
Sono case, queste, nelle quali non si oserebbe mai chiedere l’accesso al bagno.
L’idea di lordarlo con quanto di più abominevole l’uomo produce non vi sfiorerebbe neanche lontanamente.
Da queste case ci si accomiata in tutta fretta, chiudendosi alle spalle la porta d’ingresso e, rituffandosi, con un sospiro di sollievo, in strade sporche di polvere e di vita.
Sì, la vita sporca.
La vita cambia. A ogni istante che passa, modifica. Noi e l’ambiente che ci ospita.
Il nostro volto. La nostra anima. Lo sguardo dei nostri occhi.
E’ in una casa come questa che io sono vissuta.
E’ da una casa come questa che io sono fuggita.
Si scappa nella notte, in silenzio, come i ladri, con il timore di essere scoperti. Fermati.
La fuga segna in modo indelebile, perché è un tradimento.
Si pensa di scegliere e invece si fugge.
Ci sono tanti modi di scappare. Le donne, spesso, ne privilegiano uno: il matrimonio.
(continua...)

domenica 13 dicembre 2009

Ancora blog

Cos'è stato il blog per me, nata in guerra, una giovinezza vissuta strappando a un padre autoritario briciole d'indipendenza che sarebbero diventate autonomia reale e mentale soltanto con la scoperta del femminismo? E' stato un tuffo dove l'acqua è più blu, un tuffo nella libertà. Penso che, qualora si coniughi con il rispetto delle regole (altrimenti sarebbe anarchia), la libertà sia la porta d'accesso alla creatività e alla realizzazione degli obiettivi più ambiziosi. Libertà significa spazio da esplorare per verificare, anche attraverso gli errori, ciò che siamo: i nostri limiti e le nostre potenzialità. Premetto che i blog ai quali mi riferisco non hanno una valenza professionale e non nascono con l'intento di far conoscere o pubblicizzare un certo prodotto.

Ho già scritto che quel monitor e quel mouse mi fecero sentire a casa fin dal primo istante e che, dopo aver tanto letto, iniziare a scrivere  fu come dare la stura a un recipiente in ebollizione. Racconti, filastrocche, favole, il romanzo a puntate e, a coronamento del tutto ma ancora non sul blog, l'altro romanzo, quello buttato giù in pochi mesi, inondarono il mio spazio e... cambiarono la mia vita.

Andavo a zonzo per la blogosfera, osservavo, leggevo, confrontavo la mia con altre scritture, cogliendo analogie e diversità. Il blog aveva le sue regole, i suoi tempi e una scrittura che lo caratterizzava, al di là delle singole individualità, per renderlo fruibile al meglio da parte di quei curiosi, veloci, impazienti, supertecnologici e fantasiosi individui che spesso, anche se non sempre, i blogger sono. Quello stile asciutto, incisivo e diretto che privilegiava la sintesi e amava l'ironia era il loro lessico.

C'era non tutto ma di tutto in queste finestre che accendevano lo spazio scuro della blogosfera come le luci dei grattacieli una notte metropolitana. Intuivo un sostrato di speranza, rabbia, sapere, indignazione, curiosità e, soprattutto, voglia di comunicare e desiderio di condivisione dei propri sentimenti, perché il bipede digitale si sentiva, ancora e come sempre, solo, e in quello spazio al quale il pc gli dava accesso cercava il confronto e il conforto di altre voci.

Ricordo l'emozione quando trovai i primi commenti e l'impaccio di lasciarne su altri blog, sempre con il timore di dire delle sciocchezze o di entrare, non invitata, in un club privato. Molti infatti non rispondono ai singoli commenti, altri sembrano privilegiare nel confronto un ristretto gruppo al quale li collega un intreccio di link che raramente si allarga a sconosciuti.

Frequentando la blogosfera ho cominciato a coglierne anche le chiusure, i paletti e i divieti d'accesso che, forse perché sono diventata un po' più esperta, mi sembrano - come l'aggressività becera con cui si esprime il proprio dissenso - in netto aumento. Arriva in Rete l'eco disturbante dell'involgarimento del Paese? Credo sia inevitabile anche se non auspicabile e purtroppo non è l'unico pericolo. Se, come credo, la Rete avrà un ruolo importante nell'informazione, perché la Rete è informazione, "qualcuno" tenterà di controllarla e imbavagliarla, altri di sfruttarla e usarla a proprio beneficio.

Non occorre possedere antenne troppo sensibili per cogliere le manovre in atto che lasciano già intravedere il volto di nuovi poteri, che si stanno sviluppando su appartenenze intorno alle quali si coagulano intressi comuni che hanno il solito stantio puzzo di denaro.
Per questo ben vengano i cani sciolti, un po' rumorosi, qualche volta fastidiosi, che al potere hanno preferito la libertà e che nel blog hanno trovato ciò che cercavano. Una cuccia? Confortevole e soprattutto calda? Ben altro, direi, ben altro.
(continua...)

Vi invito a gettare un occhio sul blog di Marco Freccero e su Eretici digitali che a me hanno insegnato molto.

sabato 12 dicembre 2009

Diario semiserio di un viaggio virtuale

Non ho mai amato l'appartenenza. Perché? E' forse una questione di indole? O è legata alle prime esperienze formative del bambino? Un'ipotesi non esclude l'altra e di conseguenza sono venuta al mondo con questo gusto/passione della libertà che, in seguito crescendo, è diventato scelta dopo aver passato l'infanzia e l'adolescenza in una famiglia chiusa e controllata. Nel mio immaginario la Rete era uno spazio illimitato e libero da condizionamenti, una specie di Far West virtuale che dell'America, la sua culla, aveva preso il meglio: il coraggio, lo spirito d'avventura, la voglia di libertà dei pionieri. E fu con questo retroterra reale e immaginario che mi accostai al computer. Ho iniziato tardi, con grande difficoltà pratica, senza avere mai usato nemmeno una macchina da scrivere e non mi vergogno a confessare di avere imprecato e pianto, ma la percezione che il digitale fosse il futuro, la cocciutaggine e il tempo a disposizione (esaurito quello degli impegni familiari e professionali) riuscirono ad aver ragione anche del computer.
Mi ritagliai uno spazio su MySpace e incominciai ad annusare l'aria, arredando il mio salotto virtuale. Mi si chiedeva di tratteggiare un profilo, di condensare ciò che sono, di rendere note le mie passioni in un paio di righe. Potevo essere ma avrei potuto anche inventarmi creandomi una vita alternativa: immaginaria o falsa ma spendibile solo sul web. Una vita virtuale. Chi sarebbe mai andato a verificare i miei dati, le informazioni che avevo fornito? Nessuno. Capii allora che la Rete mi avrebbe richiesto un supplemento di capacità critica e la necessità di andare alla fonte dell'informazione, una miriade d'informazioni da utilizzare previa verifica senza darne per scontata la veridicità. Cominciarono a fioccare le richieste di amicizia e in brevissimo tempo mi ritrovai a intrattenere rapporti con decine di amici. Virtuali come i rapporti, che si esaurirono in auguri natalizi, pasquali, di compleanno...un tourbillon di auguri ai quali la tecnologia digitale forniva font e altre diavolerie che rendevano il tutto molto gradevole esteticamente ma privo di consistenza. Sono passati tre anni da quando ho iniziato ad andare in Rete e ho instaurato un rapporto autentico, di amicizia, con tre persone soltanto. Si profila all'orizzonte la possibilità di crearne un altro. E il resto? Stereotipato, ingabbiato e scontato.Ma questo non è ancora il problema più serio. A quel punto, dopo aver girovagato per mesi su blog altrui ne aprii uno mio. Sempre salotto era, ma questa volta spazio autentico di libertà, tanto che il mio primo post lo intitolai "La mia stanza virtuale" parafrasando la ben nota Virginia e la sua, questa sì identica alla mia, fame di libertà.
Il blog mi ha dato tanto, tantissimo, ma questo è un discorso a parte che merita un post a sé. Ci risentiamo. (continua...)

venerdì 11 dicembre 2009

Presnitz, putizza e gubana

Cosa starà facendo la Signora delle steppe? Ululando rabbiosa mentre plana sul mare azzuffandosi in un urlio di onde infuriate e sibili che evocano i misteri degli abissi? O se ne starà rintanata, immersa nella noia che le rimanda quella città così sfacciatamente bella da sembrarle finta? Trieste si starà addobbando di luce chiara per rendere il mare uno specchio scintillante? E il Carso sarà ancora lì a sfidare il vento, bianco di rocce e di gabbiani, con le sue osterie a offrire asilo a chi si alcolizza sfornando vitz a getto continuo mentre riemergono i ricordi dell'antico splendore?
A Natale noi cugini mangiavamo pupazzetti di marzapane mentre le donne affogavano nella preparazione del presnitz, della putizza, della gubana... Il capretto arrostiva e nella cucina azzurra il nervosismo per la preparazione del cenone natalizio s'infrangeva, esplodendo in sgridare aspre, sui nostri capricci. Qualche scappellotto finiva sulle nostre mani di bambini che quatte, quatte si allungavano sulla pasta appena tirata o arraffavano mandorle tritate e uvetta.
Le donne giovani ridacchiavano tra loro strizzandoci un occhio mentre le vecchie, il grebiule di grisaglia legato stretto, tramandavano i segreti di famiglia che davano come risultato quei dolci pastosi, ricchi e speziati che scatenavano i complimenti dei maschi, facendole arrossire di piacere, gli occhi che brillavano dietro agli occhiali che conservavano una traccia di farina.
Fuori calava bianca la neve, in cucina sfarfalleggiava la farina e le confidenze volteggiavano nell'aria. Mia madre, a volte, piangeva e zia Maria sospirava allungandole mandorle e zibibbo. Scuoteva la testa e mi mandava a giocare con i cugini. Andavo in salotto, dove gli uomini discutevano e, quando le voci si alzavano di tono, quella di mio padre le sovrastava tutte. Questo significava che aveva cominciato a parlare di politica e che, accendendosi una sigaretta dietro l'altra, avrebbe cominciato a camminare avanti e indietro lungo il salotto della nonna, mentre le facce degli zii si sarebbero fatte tese denotando una crescente irritazione.
Da lì venivo spedita di nuovo a giocare con i cugini mentre una sensazione di disagio mi saliva dentro. Afferravo al volo quelle frasi sussurrate "La politica, la politica... quasi quasi el perdeva el posto co l'ultimo sciopero! El ga le mule de far cresser" e poi "No bastava comunista" diceva zia e l'altra sorella concludeva "Anca sindacalista e noi qua con Tito drio l'angolo..."
La zia Eugenia a tavola, mentre lui le parlava di marxismo, raddrizzandosi sulla seggiola, compunta diceva "Io sono per il Re!" aggiungendo "E' inutile, noi abbiamo respirato se non l'aria il ricordo dell'Impero" e zia Maria, spazzolando l'arrosto di capretto, lei che L'Impero l'aveva visto aggiungeva "Si mangiava cinque volte al giorno con Francesco Giuseppe" e quamdo io petulante chiedevo "Chi era Francesco Giuseppe?" mi mettevano in mano un dolce e mi mandavano fuori dalla stanza. Ovviamente a giocare con i cugini, mentre la bora s'infilava, incurante dei doppi vetri, a riaffermare la sua signoria sulla città sorridendo di quei mille anni di storia, per lei solo uno stormir di fronde, dell'Impero.

giovedì 10 dicembre 2009

Lettera di licenziamento per Babbo Natale.

L'avevano licenziato con una lettera secca, una frase buttata là e quella parola esubero che lo assimilava a qualcosa che deborda, trabocca... infastidisce. Aveva infastidito anche Mariuccia che l'aveva lasciato. Da quel giorno stava al bar, come si conviene a un esubero. A disturbare la gente, con qualche bicchiere di troppo in corpo tanto per illudersi che potesse essere anche divertente veder scivolare i giorni dietro il vetro sporco del bar e capire che era tornata l'estate, solo perché il barista al tè aggiungeva il ghiaccio, senza che lui lo chiedesse.
Quella mattina il bar lo aveva accolto bardato di luminarie: in un angolo un pino di plastica dalla luce intermittente e festoni sbilenchi a sottolinearne lo squallore.
"Dato che sei qui a non far nulla, ti vestiresti da Babbo Natale? Ne cercano uno al supermercato all'angolo... Devi stare lì, sorridere e raccogliere le lettere dei bambini. Magari qualcuno ti allunga pure qualcosa".
Accettò più per noia che per bisogno.
Due ore dopo raccoglieva letterine, strizzando l'occhio ai bambini e, già che c'era, pure alle madri, mentre la gente passava e spesso nemmeno si accorgeva della sua presenza, strattonando i bambini che invece lo notavano subito.
Il giorno dopo stessa storia, ma la cosa più incredibile fu ricevere un compenso per il "lavoro" svolto e, in aggiunta, un cestino in omaggio.
Quando uscì dal supermercato, faceva freddo. Era la vigilia di Natale e lungo la via si abbassavano le serrande dei negozi. Incrociò un collega, bardato rigorosamente di rosso, che batteva i piedi sul selciato per riscaldarsi. Era vecchio e grasso; in mano teneva una frusta. "E' per le renne, non sono abituate al traffico... ma ci sei già tu. Me ne torno a casa, ormai sono un esubero! Mi hanno licenziato" gli disse, mentre lui lo guardava interdetto. "Cristo, devo aver bevuto troppo" pensò, l'occhio sulle renne che scalpitavano, infastidite dalle macchine che strombazzavano aggirandole.

Lo ritrovarono il mattino seguente, togliendo gli addobbi che incorniciavano l'ingresso del supermercato: morto di freddo, un panettone accanto e la bottiglia di spumante da poco prezzo vuota sull'asfalto. Tonin, accorso dal bar vicino, scuotendo il capo disse: "Da quando aveva perso il lavoro si era messo a bere e era andato giù di testa. Diceva che avrebbe dovuto togliersi dai piedi, perché per lui non c'era posto. Era di troppo: era un esubero"

mercoledì 9 dicembre 2009

Tutti colpevoli, nessun colpevole

Monsieur le Président c'è una generazione, quella dei trentenni, che stretta tra illusione e delusione, impotente, sta invecchiando. Un lavoro, un figlio, una casa nascono nell'immaginario come sogni: se sono realizzabili diventano progetti, altrimenti... illusioni, chimere nelle quali ci si perde e sperde.
A vent'anni, si sogna, Monsieur le Président, a trenta si progetta e realizza.
A questi ragazzi qualcuno ha scippato i progetti, li ha, come "La Bella Addormentata nel Bosco" immobiizzati, bloccati in una gabbia laboritiana senza via d'uscita. Chi risponderà di questa strage? Chi salirà sul banco degli imputati a rispondere di questo massacro? La colpa è della globalizzazione che ha dirottato il lavoro nei Paesi dove salari e stipendi sono più bassi? Oppure è delle banche e delle società finanziarie che hanno introdotto i prodotti derivati innescando una crisi finanziaria senza precedenti? Ma non potrebbe essere addebitata ai governi dei Paesi occidentali che hanno smantellato la normativa di controllo dell'attività bancaria? Oppure, in ultima analisi, è del mercato e della sua ingordigia e... La colpa si spalma su un numero di soggetti sempre più ampio e immateriale: tutti colpevoli, nessun colpevole. E' un discorso che non le suona nuovo, Monsieur le Président, vero?
Lasciamo stare i colpevoli, urge pensare ai colpiti? Benissimo, qual è la ricetta sua e del suo governo per uscire dalla crisi? Lo Scudo Fiscale? Il Ponte sullo Stretto appaltato alla stessa società che ha costruito l'Ospedale de L'Aquila? Con la considerazione che si ricomincia a considerare i colpevoli, ma per premiarli. Chiudo! Con grande preoccupazione e tanta amarezza!

Monsieur le Président

Caro Presidente,
l'aria sa di neve e il cielo si prepara a dare una pennellata bianca a questo Paese, lercio come una casa da imbiancare. Ho visto i ragazzi, i quarantenni e i cinquantenni, e anche qualche vecchietto come me, sfilare e ho pensato alla primavera, ai bordi dei fossi orlati di viola. Avrei voluto essere a Roma a sentire quell'aria che pur non sapendo ancora di nuovo aveva già il profumo della speranza e il colpo d'ali della fantasia. Sarebbe troppo facile che lei, Presidente, se ne andasse con il suo codazzo portando con sé il berlusconismo, sarebbe troppo bello e troppo facile.
L'eredità che ci lascerà andandosene, perché comunque vadano le cose sono la Vita e la Storia che l'hanno superata lasciandola indietro ad arrancare, sarà come la mela avvelenata di Biancaneve: rossa e lustra verrà ancora morsa da molti... Ripristinare il rigore, la correttezza, isolare i furbetti, ridare lustro a una democrazia appannata e umiliata, ricominciare a informare potenziando i media e rispettandone le funzioni richiederà tempo e il ripristino di una scuola che ritrovi la sua anima e quindi la sua vocazione educativa perché non si forma senza educare. E già che ci siamo, cominciamo a scegliere programmi televisivi che abbiano anche una valenza culturale e che rispettino le donne ridando loro voce in tv, perché troppi hanno dimenticati in questi anni che le donne possiedono un cervello.
La manifestazione appena svolta mi ha dato un senso di appartenenza che oggi si nutre anche di speranza e progetti.
Questi ragazzi non sanno di stantio Monsieur le Président perché sono il Futuro e... fermarli sarà quindi impossibile. Tempo sprecato, Presidente.

martedì 8 dicembre 2009

Blog mon amour

Com'è strana la vita. Ti affanni su un problema, dai fondo a tutte le tue capacità, non dormi di notte, ti scanni... Poi una mattina il problema sul quale hai concentrato le tue forze senza nemmeno scalfirlo, ti mostra, se non la soluzione, tutta la complessa alchimia che lo sorregge. Mi ronzava insistente da un po' nella testa questa domanda: "Perché un blog?" alla quale ogni tanto come la o di un sos o un intercalare ripetititvo si affiancava un "Perché non un blog?"
Cercherò di esser sincera nella ricerca delle risposte.
Qual è la prima opportunità che il blog mi ha offerto? Uno schermo bianco e un mouse, l'equivalente tecnologico di un foglio e una penna. Per farci che cosa? Per scrivere quando l'attività dello scrivere era ancora per me un hobby, una piccola mania, un vezzo, ma dentro la voglia di misurarmi con la scrittura avanzava come uno tsunami, un'onda anomale irrefrenabile e decisa. C'era stato un terremoto sottomarino - di cui nessuno aveva percepito né la violenza né la presenza - e quella passione era salita tra lapilli e fumo a incendiare il mare. Ma era appunto lava, magma. Era una scrittura giovane che eruttava da un corpo e una cultura profondamente segnati dal tempo. E da un sapere che si era alimentato di altri studi, temi diversi, riflessioni che di fantasioso non avevano nulla o quasi. Avevo letto libri di narrativa ma rubando spazio ai miei impegni familiari e professionali. Sapevo molto sulla Legge bancaria ma strutturare un racconto sarebbe stata un'esperienza assolutamente nuova.
La passione non si era andata potenziando in me parallelamente a una tecnica narrativa pronta a incorniciarla. Io mi diversificavo in un Giano bifronte che sapeva acquisendo competenze su argomenti che lo annoiavano, e si appassionava, inventandosi una tecnica che affondava ancora come i ricordi nei dialetti che li animavano, alle storie che io aveva appena cominciava a raccontare. Capivo che questo era il terreno che miei passi riconoscevano dopo tanto camminare e tanti paesaggi che avevo sempre sentiti estranei. Se a questo aggiungiamo la difficoltà che le donne spesso avvertono nell'afferrare i pezzi che le compongono, vivendo l'essere madri in modo alternativo e non complementare all'essere donne o professioniste, risulta facile capire la mia difficoltà nell'individuazione di un carattere specifico che mi consentisse di incasellare il mio blog. Ma se il riconoscimento della mia fantasia, della voglia di raccontare era la grande sorpresa che la vita mi aveva riservato quando rischiavo di scivolare ormai definitivamente nel dejà vu, valeva la pena di darsi tanto affanno ad analizzarla, quasi si trattasse di una tecnica gestionale da approfondire? E cogliere invece questa opportunità ulteriore che il blog dava di misurarmi in ambiti diversi da sottoporre all'altrui giudizio per poter riconoscere imiei talenti? E, con nuove chance in saccoccia, partire, zaino in spalla, per terre sconosciute da esplorare e vivere?

venerdì 4 dicembre 2009

La tempesta è passata

Veniva giù con l'abituale leggerezza già da qualche ora, profilando di bianco i rami del pino che come una sentinella montava la guardia alla sua finestra. Si meravigliò pensando fosse una nevicata troppo abbondante per un inizio d'autunno. Da quando usava il bastone e i suoi passi si erano fatti cauti, la temeva, lei che aveva sempre accolto la neve con gioia e con la stupita meraviglia di una bambina.
Con i suoi lenti fiocchi scendevano su di lei anche i ricordi, o meglio salivano riportadole alle narici l'odore della legna che in quell'inverno lontano, nella casa piena di gente, parenti e bambini, ardeva nel caminetto, mescolandosi al profumo aspro di pece che l'albero di Natale, in un brillio di luci e addobbi d'argento, diffondeva nella stanza. Lei, l'onda chiara dei capelli che le scendeva sul viso a celare lo sguardo che tradiva l'eccitazione e la paura, con la mano nella tasca tastava quella lettera stropicciata ributtando indietro, ingoiando quelle poche parole che cercavano l'aria, crescendo dentro di lei con il passare delle ore e invadendo ogni angolo del suo corpo, ogni centimetro della sua pelle, incontenibili e ribelli.
Anche gli occhi dei bambini brillavano, mentre in cucina le nonne litigavano sul grado di cottura del cappone guardandosi in cagnesco... Lei si era avvicinata alla finestra e la pennellata bianca sul davanzale l'aveva raggelata. Nevicava fitto e alzando gli occhi verso il cielo un turbinio chiaro le aveva fatto capire che entro poche ore le strade sarebbero state impercorribili. Si era sentita in gabbia, prigioniera. Voltandosi, angosciata, aveva mormorato "Nevica che Dio la manda!" mentre le si piegavano le spalle, quasi quella nevicata, per uno strano scherzo di natura, avesse deciso di concentrarsi su di lei. Sua madre, tutta allegra, aveva commentato: "Abbiamo cucinato tanta di quella roba che potremmo restare qui a mangiare per una settimana" mentre i bambini, accompagnati dalla zia, scendevano in cantina a cercare lo slittino. I nonni si erano messi a rivangare le memorie del Trenta, quell'anno terribile, dopo la crisi di Wall Street, in cui l'inverno aveva dato con freddo e nevicate eccezionali il colpo di grazia a chi non aveva il lavoro e men che meno i soldi per la legna. Quando a mezzanotte, travestito da Babbo Natale, suo marito le aveva consegnato il pacchetto lei, scusandosi, aveva incolpato il cappone del suo mal di testa e, con il regalo in mano che appariva incartato alla meglio, si era ritirata nella sua camera.
Si era seduta sul letto. Sulla prima pagina del libro, nella scrittura nervosa e elegante del marito, una dedica "A te che vuoi volare... via?, cosa posso offrire per indurti a restare?"
Era nevicato per tre giorni e tre notti incessantemente: il cielo aveva stretto con suo marito un patto d'acciaio. Avevano finito le provviste. Nel camino, acceso giorno e notte, avevano bruciato quasi tutta la legna che stava in cantina e i bambini per divertirsi avevano fatto pallottole di carta con l'imballo dei regali, facendo a gara per gettarle nel fuoco. Lei, trascinata a giocare, aveva messo la mano in tasca e aveva appallottolato la lettera. Mentre il fuoco avvolgendo la carta inceneriva progetti e parole in una spruzzata di scintille che il camino ingoiava, il marito alla finestra aveva mormorato: "Ha smesso di nevicare, ragazzi". Poi, fissandola, aveva aggiunto "La tempesta è passata".
Era morto due mesi prima. La vita è strana, lei pensò, e l'ultima tempesta era stata quella. Questa era solo una nevicata.

mercoledì 2 dicembre 2009

Il futuro è giovane

Se il futuro è giovane cosa lo caratterizza? Due solidi sostegni: scuola e lavoro che consentono la dignità. L'anima, sono ragazzi, fatta di sana arroganza si esprime in orgoglio e voglia di misurarsi. Non manca un pizzico di fantasia: il mondo che hanno alle spalle è il nostro, dei vecchi come noi, e di noi (vecchi) porta l'impronta. E' giusto e auspicabile, direi normale, che vogliano cambiarlo. La testa coordina il tutto.
Questo è il futuro: senza l'attenzione alla cultura, senza la scuola il futuro è azzoppato. Se il titolo di studio c'è, ma non è viatico per il lavoro, il futuro non ha gambe. Si affloscia. Privato del lavoro, non autosufficiente il futuro perde la dignità. Paralizzato, piegato, smette di sognare. Non immaginare il futuro significa farlo morire. La testa va in confusione e la razionalità si avvita su se stessa in caduta libera.
I vecchi ghignano e si voltano ad ammirare l'unica realtà per loro significativa: il Passato. Il mondo balugina, la luce si spegne: li abbiamo messi al mondo e come le gatte che partoriscono alle soglie dell'inverno, li abbiamo uccisi?
Come loro li abbiamo divorati: i nostri figli, il nostro futuro?
Vi consiglio questo post di Lipperatura.

martedì 1 dicembre 2009

Un certo Montesquieu

Fini interviene in difesa della Magistratura e, con eleganza, zittisce Bondi che smarrito sembra chiedersi: "Ma cosa sta succedendo?" Ministro Bondi le hanno soltanto rinfrescato la memoria su un principio fondamentale che caratterizza la democrazia: anche chi è stato eletto dal popolo e ha quindi il diritto/dovere di governare deve soggiacere a un limite: la legge. E' eletto al di sopra del popolo per conto del quale agisce, ma non al di sopra della legge. Perché il potere corrompe e può indurre in tentazione e per questo la nostra Costituzione, che non è un Libro dei sogni ma è un sogno di Libro prevede che i tre poteri (normativo, esecutivo e giudiziario) siano autonomi nel loro ambito, ma si controllino l'un l'altro, come dei mastini. A chi s'ispira? A un certo Montesquieu... Se lo faccia regalare per Natale, ministro Bondi!

Sconfitti e perdenti

Anch'io, come tanti genitori italiani, ho visto partire mio figlio. Non ho scritto lettere ai giornali, ho capito che qui, nel suo Paese, non avrebbe avuto un futuro. Non avendo scelto la connivenza ho lottato per un Paese diverso, con tutte le mie forze. Oggi lei, dottor Pier Luigi Celli, dichiarandosi un perdente, mi ha fatto capire che io sono solamente una sconfitta. Se partissimo da questa considerazione, forse si potrebbe ricominciare. Perlomeno a sperare.