lunedì 21 gennaio 2013

Politica

Non c'è più nulla da capire
basta guardare... 
per inorridire.

Storie vere e verosimili


Guardò l’orologio: il tempo era passato in fretta. Aveva avuto la sensazione di ricordare qualcosa, come se… mah! Era stralunata! Probabilmente aveva soltanto bevuto troppa birra. Ma quelle sensazioni così violente le aveva scritte sul retro di una busta che aveva trovato sul tavolino del salotto. Quelle birre bevute in rapida successione avevano allentato l’abituale controllo che aveva su se stessa facendo emergere sensazioni dimenticate ma anche questo prepotente desiderio di scrittura. Rileggendo ebbe la sensazione netta di essere riuscita a comunicare esattamente quello che aveva dentro. Non doveva aver paura, né dei ricordi, né delle parole per descriverli. Si chinò su quella bambina, si chinò a guardarla. Le sorrise, le chiese spazio, mentre le dilagava dentro una felicità nuova, così perfetta da lasciarla incredula. Ebbe la sensazione di aver camminato per anni su una bomba, conscia della sua presenza ma incapace sia di farla esplodere che di disinnescarla. Il botto l’aveva sentito soltanto lei ed era volata come il Barone di Minhausen in quella Terra lontana che i suoi passi avevano cercato instancabili, quella terra lastricata di parole dove il tempo scorreva misurato dalle pagine sfogliate.
Capì, e fu per sempre, che il suo mondo, ignorato e negato per la paura di riportare a galla ricordi dolorosi, era la scrittura, passione che le scorreva nelle vene, sangue del suo sangue. Si rivide nella cucina della zia Maria.. il vento che ululava: i cugini e sua sorella che la chiamavano a giocare rincorrendosi lungo il corridoio, lei che non rispondeva, intenta ad ascoltare, presa da quella malia della parola che avrebbe cercato per sempre nei libri di cui avrebbe riempito le pareti delle sue case. Collezionista di parole, anche quelle inusuali, dimenticate, quelle inventate, che a scuola le cancellavano con la matita blu anche se lei continuava a usarle cocciuta... Ne aveva fatto pugnali per difendersi, tane per ripararsi, maschere per celarsi, ma ora erano lì, tutte in fila ai suoi ordini come soldati sull’attenti davanti al loro comandante. Era arrivato il momento di sguinzagliarle in giro per il mondo, quel mondo di fantasia che aveva bussato per anni alla sua porta e che lei aveva ignorato, ma al quale apparteneva, come la zia Maria cantastorie nata. Le sembrò di vederle volare quelle parole insieme alla farina, mentre pasta e storia prendevano forma, la farina che diventava neve e cipria di donna che si fa bella, e zucchero candito di principessa golosa, nella cucina che sapeva di rosmarino, di caffellatte caldo e strudel di mele morbido come un abbraccio.
Si alzò dal divano e sembrava danzasse. Canticchiando bagnò le piante. Oh mio Dio, il rosmarino stava morendo. Si sentì in colpa, ma la domenica precedente era andata al mare, poi c’era stato il lavoro che l’aveva impegnata e poi, poi non c’era con la testa. Aveva - oppure no! - il diritto di non esserci anche lei con la testa? Pensava a un uomo? Pensava a se stessa? Be’, non aveva novant’anni, ne aveva soltanto quaranta. Sua nonna alla stessa età aveva fatto follie per amore. Raddrizzò le spalle con un gesto deciso, afferrò la borsetta e uscì dall’appartamento. Il caldo era ancora soffocante, ma lei di buon passo si diresse verso la stazione ferroviaria. La gente usciva dagli uffici, l’aria stanca, la giacca sulla spalla, le camicie slacciate sul collo. Passò un uomo giovane, abbronzato. La guardò e lei accennò un sorriso, vago, appena abbozzato. L’uomo sorrise a sua volta. Quando con la coda dell’occhio notò che si era fermato affrettò il passo ridacchiando. Aveva deciso di non tirarsi indietro: la sua vita era stata troppo difficile e si sentiva in credito verso il destino. Si rese conto che provava qualcosa che non osava nemmeno definire, a cui non aveva il coraggio di dare un nome, sensazioni che accendevano le sue giornate. Da quanto tempo viveva immersa soltanto nei bisogni? Un alito di vento le fece turbinare la gonna scoprendo le gambe lunghe e snelle.
Si sarebbe comperata sandaletti legati alla caviglia e abiti scollati e pacchi di fogli e cartellette e non si sarebbe tirata indietro. Aveva una storia da vivere e una da raccontare: una vera e una verosimile. Affrettò il passo dirigendosi verso la stazione. Sulla sua testa stridevano – ubriache di sole - le rondini, piombando in caduta libera nel cielo che le prime ombre della sera consegnavano alla notte estiva.

A chi, a che servono le storie?

La neve contribuisce, e non poco, a conferire irrealtà al paesaggio - penso, mentre appena sveglia lascio scorrere lo sguardo... E' quel momento della giornata in cui i due duellanti, il giorno e la notte, non si scontrano, nemici, ma s'incontrano e s' abbracciano e, come due amanti, si baciano, si stringono uno addosso all'altro, giurandosi eterno amore... E' questo il tempo in cui tutto può accadere: possono fiorire i peschi sotto la neve, si può credere di morire, forse si può morire davvero, si può tornare giovani e diventare vecchi... , perché è questo, non la notte, il tempo della fantasia. La notte è il luogo/tempo dei sogni, sui quali comanda trasformandoli, a suo piacere, in incubi, penetrando nell'inconscio  e saccheggiandolo o lenendo i nostri dolori con illusorie bugie. La notte è teatro, melodramma, commedia, il giorno è verità, realtà, concretezza. Ma è solo quando vero e falso s'incontrano che nasce il verosimile, la materia prima dello scrittore... Strana creatura, confinata a vivere in un tempo/spazio che non gli appartiene (si può afferrare il vento? Cavalcare tra le nuvole?), ma che può  evocare, lo scrittore confeziona "storie". 
A che, a chi servono le storie che inventa?