sabato 31 gennaio 2009

Dove sono le donne? Non le vedo, eppure eravamo tante : la metà del cielo.

Mi chiedo come si sentano le Giovanne, le Magdalene, le tante donne che hanno subito uno stupro. Le statistiche parlano chiaro, ma soprattutto le confidenze femminili sussurrate a bassa voce, rivelano una realtà pesantissima: sono ben poche le donne che non siano state 'molestate', infastidite e, in qualche modo, oltraggiate e svilite da, più che richieste, pretese sessuali, se non ricatti indiretti, allusioni...
Lo stupro è un atto odioso che lascia segni indelebili, trasformando un'esperienza appagante e dolcissima com'è la sessualità consenziente, in una violenza che, paradossalmente, viene vissuta anche in termini colpevolizzanti dalla donna. Donna costretta a vedersi con altri occhi, quelli dello stupratore, quindi donna provocante, non vestita nel modo giusto (quale sarebbe?), non nel posto giusto (a casa a fare la calzetta? )non con l'approccio giusto, quindi in parte, almeno, colpevole. Di cosa e per cosa? Di essere femmina. Di stuzzicare gli appetiti maschili. Sembrerebbe, ma la realtà è ben più complessa.
Una lunga, interminabile storia di sottomissione femminile grava sul mondo delle donne che, profondamente diverse dagli uomini, ancora non riescono a considerare questa diversità in termini non negativi. Quanto frequente è lo scimmmiottare modi e caratteristiche maschili, da parte nostra? Anche il linguaggio ha il suo peso. Eccome! Una donna in gamba, forte e determinata è una donna con le palle. D'altro canto 'il potere' è gestito dai maschi. Su questo credo non ci siano dubbi e le eventuali eccezioni si limitano a confermare la regola generale. I 'vincenti' sono mediamente i maschi e, di conseguenza le regole che assicurano la vittoria sono stabilite da loro e adatte a loro. Le donne che volessero sfidarli nella corsa al successo dovrebbero elaborarne di proprie: autonome e legate a un retroterra diverso.
Ma che possibilità di successo avrebbero laddove tutto l'impianto delle regole fosse maschile?
Sembra che le conquiste femminili - che a mio avviso sono una realtà a macchia di leopardo - abbiano scatenato nel maschio, non in tutti, ovviamente, un'inquietudine, un'incertezza di fondo, un'insicurezza che ne avrebbe minato il senso d'identità. Ne sarebbero prova le difficoltà sessuali, in aumento nei maschi, registrate dalle statistiche. A differenza delle donne, bene allenate a reggere l'umiliazione - anche se pagandola in termini di maggiore depressione - i maschi la vivrebbero con rabbia e rancore, covando sentimenti negativi ai quali lo stupro darebbe la stura, liberandoli.
Lo stupro sembrerebbe essere frequentemente commesso ai danni di una donna conosciuta: amica, amante, collega di lavoro, moglie separata. Anche se le violenze messe in atto da un gruppo nei confronti di una sconosciuta sono plateali e hanno maggior impatto sull'opinionepubblica, lo stillicidio di violenze domestiche è ininterrotto e molto più pesante in termini numerici. Esiguo risulta, per evidenti motivi, il numero delle denunce fatte. Quindi è 'quella' donna che si vuole umiliare, non solo in quanto femmina, ma femmina che ha fatto scattare nel maschio sentimenti negativi. Lo stupro avrebbe allora poco a che fare con le sue attrattive femminili, quel suo/nostro essere fatte, anche per la Chiesa, della stessa pasta del diavolo e, come lui, tentatrici.
La risposta non può e non deve essere quella di rinchiudersi nelle proprie case, lasciando la notte agli uomini, che tra l'atro imperversano già di giorno, ma dovrebbe essere una risposta differente. E' il discorso sulla diversità, sul rispetto, sull'orgoglio di essere donne, sulla maternità - quel Giano bifronte che prima o poi, tutte dobbiamo affrontare (vuoi come rimpianto, rapporto con le madri, rapporto con le figlie e i figli) - che deve riprendere.
Con la forza, con la determinazione, con il coraggio e con quella capacità di capire con il cervello, ma anche con l'istinto, che noi donne abbiamo e di cui possiamo e dobbiamo essere fiere. Perché anche se poco visibili, come in questo momento storico, siamo comunque la metà del cielo, e un mondo che sta cambiando a velocità vertiginosa, richiede anche il nostro cambiamento e, necessariamente, anche il nostro apporto.

venerdì 30 gennaio 2009

Denuncia numero 1810.

Era scura la notte, e fredda, e silenziosa. Si guardò attorno, un guizzo di paura negli occhi chiari che scrutavano la strada diritta e vuota davanti a lei. Affrettò il passo, concentrandosi sul rumore dei tacchi che rimbombavano sull'asfalto. Sentì un fruscio alle sue spalle: il cuore accelerò il battito, il sangue le salì al cervello, mentre il passo si faceva veloce. Non osava voltarsi. Intorno a lei grigi palazzi privi di luci incombevano sinistri. Passò una macchina, veloce, preceduta da una sciabolata di luce gialla, un'ombra scura al volante più intuita che vista. Voltò la testa a destra: nulla. A sinistra, tutto tranquillo! Facendosi coraggio, si girò per controllare il marciapiedi alle sue spalle. Qualcosa si mosse nell'oscurità, mentre la notte estiva si animava di un suono lamentoso e le sue mani si stringevano a pugno. Gli occhi, spalancati, cercavano di penetrare il muro d'ombra che la circondava. "Miaooo!" Un gatto, solo un gatto, il pelo del colore della notte e gli occhi gialli e tondi che la fissavano.
Il battito del cuore si chetò, deglutì sollievo e saliva, riprendendo veloce a camminare. Ancora qualche metro: numero civico 18, poi il 20. Girato l'angolo, il portone di casa sua, debolmente illuminato dalla luce che filtrava dall'androne. Aprì la borsetta, rovistò alla ricerca delle chiavi. Dove diavolo si erano cacciate? Intorno a lei la notte sembrava animarsi di fruscii e sussurri. Sentì sotto le dita l'acciaio del portachiavi: aprì di furia, s'infilò nel portone come una ladra, chiudendoselo alle spalle.
Emise un lungo sospiro di sollievo lasciando ricadere le spalle contratte.
Era stanca: il lavoro al call-center le provocava quell'indolenzimento al collo. E, poi, scesa dall'autobus che la riportava a casa, doveva affrontare quel tratto di strada buia che la terrorizzava. Meccanicamente alzò la mano e premette il pulsante dell'ascensore: nell'attesa socchiuse gli occhi. La porta si aprì: una mano l'agguantò, un'altra le tappò la bocca.

"Occupatene tu". Il carabiniere assentì, poi, rivolto alla donna infagottata nella giacca a vento, le braccia incrociate in un gesto contratto e inutile di difesa, chiese: "Giovanna, nome. Il cognome?" Lei mormorò qualcosa, passandosi le dita sul labbro spaccato.Il ticchettio della tastiera disegnava parole nere sul monitor, fitte come gocce di pioggia che rigassero di fango un vetro già sporco:"Denuncia numero 1810, presentata da Giovanna Ludovisi, anni 28. Reato denunciato: violenza sessuale".

mercoledì 28 gennaio 2009

Magdalena

Magdalena, rumena, venuta in Italia per lavorare, faceva le pulizie in un call-center. E lì, alle prime luci dell'alba, è stata violentata dal compagno della proprietaria.
Ha perso il lavoro e, anche se questo i giornali non lo dicono, ha perso la fiducia nel suo prossimo. In chi, come il sindaco Alemanno, le ha promesso aiuto a parole, ma si è ben guardato dal tenere fede alle promesse fatte, e negli esseri umani di sesso maschile che guarderà con altri occhi e nuove paure. E, se il suo desiderio di giustizia non venisse accolto a livello processuale con una auspicabile condanna dello stupratore, dovrebbe aggiungere al dolore la rabbia, la frustrazione di aver subito una prova durissima com'è un processo per stupro, per essere umiliata e infangata di nuovo.
Gli stupratori possono essere anche italiani: sono, spessissimo, italiani.

La strega dimenticata

La casa, piccola e ordinatissima, le procurò un senso d’angoscia che si sforzò, invano, di controllare. Poi, con un sospiro aprì uno scatolone e incominciò a avvolgere nella carta da giornale piatti e bicchieri della credenza. Sigillò il primo scatolone; ne riempì un secondo, un terzo, cercando di tenere a bada i ricordi. In quella casa era cresciuta, riconosceva quasi tutti gli oggetti che le passavano tra le mani. Sua madre, ordinata fino alla pignoleria, aveva conservato tutto. Con una certa sorpresa notò che non c’era nulla di spaiato: tutte e dodici le tazzine, tutte e dodici le posate, al gran completo il servizio di piatti.
Andò nella camera da letto. La cassapanca, con la chiave infilata nella serratura, la incuriosì. Non l’aveva mai vista aprire da sua madre e non aveva idea di cosa contenesse. Girò la chiave e sollevò, esitante, il coperchio con la sensazione di violare un luogo riservato, non suo. Sul fondo, come un papavero spezzato adagiato con cura, un vestito, il suo vestito da carnevale… E l’unica festa da ballo della sua vita le tornò alla memoria, prepotente, sensuale come quella strega rossa di riccioli e d’abito, che ballava di nuovo davanti ai suoi occhi, mentre il cielo grigio e spento di quel pomeriggio d’inverno si faceva nero e fondo, pieno di stelle, e la musica incalzava, scoppiando come fuoco d’artificio. Sfiorò la stoffa con le dita per dimenticare il profumo di quella notte, e le mani di quell’uomo, e la sua bocca.
Aprì gli occhi.
Incrociò lo sguardo di sua madre, incorniciata d’argento sullo scrittoio. Gli occhi scuri, neri come
un cielo in tempesta, avevano sfiorato l’abito sgualcito, i riccioli sfatti…gelandosi.
Seppellendo il ricordo della madre, il rancore e il suo unico amore in un gesto, abbassò il coperchio.
Lo sentì rinchiudersi con un tonfo sordo.

Amore folle

Giovanna era lì, davanti a lei, più che seduta, afflosciata sulla seggiola. Lo sguardo, opaco, che si perdeva nel vuoto.
L’amica le porse la tazza di tè. “Hai voglia di parlarne?” le chiese. L’altra la guardò, muta.
“Ha perso di nuovo il lavoro?” disse Anna.
L’amica sembrò scuotersi per un breve istante dal suo torpore.
“ Non è colpa sua, è difficilissimo trovare lavoro in questo periodo…”
L’altra la interruppe. “ Stai a vedere che è colpa tua” . “Beh, se io…”. “Se tu cosa? Lui perde un lavoro, il suo lavoro, e la colpa è tua?”
Anna si sedette e afferrò le mani di Giovanna.
“ Vi state distruggendo a vicenda, lo capisci? E’ da due anni che siete insieme: lui era problematico già prima d’incontrarti e nemmeno tu eri messa bene. Avete unito non le vostre forze, ma i vostri problemi e lui è riuscito a farti sentire responsabile anche di tutto ciò che di negativo gli sta succedendo”.
“ Ma se cambiasse, se..”replicò l’amica.
“ Non puoi metterti con un uomo per cambiarlo, per trasformarlo nella persona che andrebbe bene a te. E' impossibile, una battaglia inutile. Ti passerebbe per la testa di cambiare il colore degli occhi di qualcuno?"
“ Se riuscissi a fargli capire che sta sbagliando, che potrebbe e dovrebbe cambiare. Io non mi comporto nel modo giusto: è per questo motivo che lui non cambia” .
La voce di Giovanna era monotona e la sofferenza le scavava il volto minuto.
“ Non possiamo imporre a un’altra persona cambiamenti nei nostri modi e con i nostri tempi. E sentirci frustrate e cariche di sensi di colpa per errori che non sono nostri. E' il modo migliore per imboccare la strada della distimia. Stai spostando l’attenzione da te a lui. E’apparentemente meno rischioso, come continuare a drogarsi, per fare un esempio estremo, ma significativo. Può dare un’illusione di benessere perché non si va incontro a una crisi d’astinenza nell’immediato, ma in un ottica, appena più dilatata, si muore”. “Si muore!” E Anna, accalorandosi le chiese: “Sei tu in un momento difficilissimo della tua vita, sei tu che non hai un lavoro, hai problemi familiari, sei sola, non stai bene…Pensi di essere in grado di occuparti, fino allo sfinimento, dei problemi di un altro? E’ funzionale ai tuoi bisogni, ti consente di non affrontare i tuoi demoni, ma” e Anna concluse, alzando la voce, “ ognuno può affrontare soltanto il suo passato e lottare unicamente per il suo futuro”. “L’equilibrio, la maturità che cerchi di far acquisire al tuo compagno sei sicura di possederli? Prima si fa pulizia in casa propria, dovresti spostare l’attenzione su di te. Lui non è un bambino da seguire e controllare. Non puoi controllare nulla di lui, puoi sapere e modificare tutto di te. E quando tu sarai riuscita a essere più forte, equilibrata , conscia dei tuoi problemi, allora, ti potrai "scegliere" un compagno sulla base di reali affinità e che il suo amore lo dimostri con la voglia e la capacità di farti stare meglio, di rasserenarti, di gratificarti accettandoti per quella che sei. Chi ti vuole cambiare non ti ama, vuole una persona diversa, ma te ne rendi conto? Perché farsi fagocitare dai bisogni quando potremmo aspirare ai desideri? Ma sceglie chi è libero dentro e tu non lo sei.”
Giovanna l’ascoltava, un po’ più attenta, mentre una ruga dritta le si disegnava sulla fronte.
“ Lui mi ama…a modo suo” .
“ La misura di un amore è data dalla sofferenza che provoca?” la incalzò Anna, aggiungendo “ Rispondimi sì e non aggiungerò altro”
Giovanna scosse la testa. Anna aggiunse:” La sofferenza misura una malattia, lo vedi che stai entrando in una fase di negazione della realtà, altro elemento che caratterizza un amour fou, una dipendenza affettiva. Tu non sei innamorata, sei malata d’amore!”
Giovanna la guardò, incerta, poi le chiese:" Ammettendo che tu avessi ragione, come potrei uscirne?"
" La prima cosa da fare è chiedere aiuto, la seconda.."
Giovanna la interruppe "Dammi il tempo di riflettere. Ci penserò"
Le due amiche si abbracciarono.
Sul portone Giovanna si voltò indietro chiedendole "Com'è che hai le idee così chiare su questo argomento?"
Anna assunse un'espressione pensosa e negli occhi le affiorò la traccia di un dolore antico, superato ma consapevole. "Ci sono passata", le rispose, aggiungendo "Si può uscirne, ma prendendo atto della propria realtà".
Si sorrisero.
"Ci vediamo domani"dise Anna.
Il sole tramontava su Milano traendo riflessi d'argento dal serpentone ingolfato di macchine che invadeva il viale. L'aria era aspra di smog, l'inquinamento dava all'aria un sapore metallico. Anna risalì in casa pensando "Ci fossero soltanto i veleni dell'aria...E i miasmi dell'anima?"

martedì 27 gennaio 2009

Amour fou

E' arrivata in una giornata di pioggia, infreddolita. Solo occhi, quei suoi occhi da gazzella inseguita, che spuntavano da sotto il berretto. Le prime parole, con al fondo un tremolio di gola, tradivano il nervosismo e la tensione che le sigarette aspirate in fretta, una dopo l'altra, non sarebbero riuscite a contenere. Un'amica. Ammalata d'amore, d'amor fou. Non capirò mai l'alchimia misteriosa di questo sentimento, la sua forza e la sua contemporanea inconsistenza. Mi resterà misterioso quel suo calarsi, con l'avidità fulminea di un falco, sulla preda arpionandola e trascinarla verso il cielo, inerme e rassegnata al proprio destino. Spesso è "colpo di fulmine" , come viene chiamata questa attrazione, spesso fatale, che sembrerebbe incastrare tra loro, in un abbraccio indissolubile, più vulnerabilità freudianamente intuite che affinità elettive. Ciechi come gattini appena nati e sordi a qualunque argomentazione diversa dal canto di sirene omeriche che soltanto l'altro sa evocare, perdiamo le coordinate abituali dell'andare.
Parlare, spiegare, argomentare dall'esterno: tutto tempo perso, perchè l'unico tempo valido sarà quello che una mattina, improvvisamente, riporterà alla data segnata sul calendario, al mese riportato sull'agenda... alla vita di tutti i giorni. Alla fine dell'incantesimo che, come tutte le malie, ha in sè un fondo di dolore, di tirrania, di crudeltà che in qualche amore prende il sapravvento, trasformando il rapporto in un gioco al massacro. E l'interminabile elenco delle donne (perché sono soprattutto donne le vittime) uccise "per amore" testimonia la forza distruttiva, l'uso che di questo sentimento può essere fatto.
Ancora oggi, oggi che le donne dovrebbero essere più colte, preparate, critiche? Perché? Una domanda alla quale posso solamente tentare di dare qualche risposta, facendo delle ipotesi. Forse nell'incontro con un uomo riemergono dolori antichi, vuoti affettivi mai superati che - così ci dicono - risalirebbero all'infanzia. Ora, adulte, vorremmo saldare finalmente quei conti in sospeso, liberarci da situazioni familiari difficili che ci hanno fornito modelli di riferimento, sia maschili che femminili, distorti e problematici.
Da un punto fermo dovremmo partire: la differenza tra i bisogni e i desideri.
Il bisogno è una catena, un laccio al collo, è un uomo che non ci piace, non stimiamo, che legge solamente fumetti mentre noi siamo topi di biblioteca, affoga in mille parole di cui noi consideriamo superflua la metà, adora il calcio che noi non tolleriamo, passerebbe la vita al mare e a noi - pelle da protezione cinquanta - il mare dà l'angoscia.
Cosa ci unisce? Boh, non lo sappiamo, ma sappiamo che non "possiamo" stare senza quell'uomo. Più corretto sarebbe dire che non possiamo fare a meno del clima da guerriglia urbana in cui ci fa vivere. Non ho detto non vogliamo, ho detto non possiamo. Come alcoolisti obbligati a tragugiare anche alcool denaturato per soddisfare i loro bisogni, instauriamo una "dipendenza affettiva" all'interno della quale non saremo più un uomo e una donna, ma una vittima e un carnefice. A questo punto si arriva allo scontro frontale, senza esclusione di colpi, al "J'accuse" interminabile, condito di pianti e promesse finali di cambiamento, alle nottate di insulti e recriminazioni protratte fino alle prime luci dell'alba che si alzeranno a illminare livide lo sfacelo: questo inferno che abbiamo messo in piedi e che chiamano amore. Poi ci saranno i tentativi di lasciarsi, ripetuti, monotonamente uguali nella loro ripetitività: uno che se ne va, l'altro che lo segue. Qualche volta si resiste per una settimana o giù di lì, poi, si torna comunque a casa mentre si fa strada la sensazione di aver fatto l'ennesimo errore. La vita diventa una prigione nella quale ci si rinchiude volontariamente, attaccate alle sbarre e guardare, disperate, le vite degli altri. Vite normali che a noi sono precluse
perché noi non siamo libere. Dentro. La vera gabbia che ci racchiude è in noi, relegata in luoghi reconditi della memoria. Sono ricordi che lasciano tracce di sé nei sogni, nei lapsus, nel dolore di vite che ci obbligano a scavare, a cercare il bandolo di una matassa arruffata che prima o poi, se vogliamo "scegliere" nella vita, dovremo dipanare. Perché soltanto la libertà interiore, che l'aver guardato in faccia i propri demoni - meglio se con l'aiuto di uno psicologo - permette di conquistare, ci consentirà di scegliere un uomo sulla base, questa volta, di motivazioni valide nel determinare comportamenti e scelte, come l'affinità o il rispetto della diversità.

domenica 25 gennaio 2009

Che fine ha fatto la passione?

Ci propinano dosi quotidiane, via via crescenti, di orrore che noi, accendendo il televisore, ingoiamo: orrore omogeneizzato, che scivola lungo la gola senza creare problemi, se non quello di darci assuefazione.
Assuefazione?
Sì, a convivere con la/le guerre, che dell'orrore sono l'apoteosi, con l'ingiustizia, la violenza, la fame nel mondo. Giù, giù fino alla maleducazione spicciola, alla volgarità, all'insensibilità e al degrado.
Ci offrono, abili, anche l'antidoto: denaro e divertimento.
Denaro facile, per morali elastiche, e divertimento spicciolo.
Obnubilati, non creiamo problemi al/ai manovratori.
Che fine ha fatto la passione? Dove sono i suoi fratelli:la rabbia e il furore?
E l'indignazione?
E' arrivato il momento di cambiare: non canale! Approccio alla vita, alla nostra vita di tutti i giorni che qualcuno sta tentando di scipparci. E' arrivato il momento di spegnere il televisore e accendere il computer e, già che ci siamo, collegarlo al cervello e ritrovare il gusto della protesta. Vibrante, accesa, capace di infiammare gli animi e penetrare la corazza dell'indifferenza. Non dimentichiamo che non può esserci protesta, non può esserci cambiamento, non può prendere forma un progetto alternativo, se viene a mancare la passione.

giovedì 22 gennaio 2009

Lettura e scrittura

Oggi su aNobii la discussione verteva sulla lettura/scrittura. Perché si legge?
Per gli stessi motivi per cui si scrive? Non credo perché, mentre chi scrive è quasi sempre accanito lettore, chi legge è soltanto raramente uno scrittore. La lettura è passiva, la scrittura attiva. Il lettore non sceglie la storia, il suo svolgimento, la scrittura usata e la conclusione. Dà una sbirciata alla copertina, facendosi un'idea dal sunto riportato sul retro, e sceglie uno scrittore.
A lui, alla sua capacità inventiva, poi, soggiace.
Il lettore è femmina, forse? Lo scrittore o la scrittrice scelgono storia, scrittura, conclusioni con cui invadono o tentano di invadere l'altro, ammaliandolo, inchiodandolo al libro dopo averne catturato l'attenzione.
Possiedono il lettore.
Lo scrittore è psicologicamente maschio? Qui mi dovrebbe aiutare qualcuno, ma ho la sensazione che leggano di più le donne. Gli scrittori? Scrivono maschi e femmine, ma pubblicano di più i maschi. Scrittori famosi? Maschi, decisamente. Hanno più tempo libero rispetto alle donne, sono meno impacciati quando affrontano una scena di sesso e, ma questa è una mia ipotesi, vivono la paternità come arricchimento. La cura materiale dei figli ricade raramente sul padre e la tempesta ormonale-emotiva che investe la madre non li riguarda.
A ben pensarci molte scrittrici di successo non hanno avuto figli.
Scrivere un libro è parlare di sé, delle proprie emozioni, ma dopo averle vissute, digerite, ridotte a qualcosa di oggettivo, emozione allo stato puro all'interno della quale ognuno si riconosca. Quasi tutti, analizzando le motivazioni che spingono alla lettura, insistono sull'arricchimento culturale. Il libro dà: nozioni, capacità espositiva, ricchezza lessicale.
E' vero, ma rende anche più forti di fronte alle difficoltà?
Io non credo sia così automatico e consequenziale.
La lettura di 'Una donna spezzata' di Simone de Beauvoir consentirebbe a una donna di affrontare meglio l'eventuale tradimento del proprio compagno?
Non sempre.
Di una storia letta può essere fatto l'uso che più ci aggrada. Si può ad esempio mettere da parte un libro perché non avalla le nostre scelte, oppure dare di quella storia una nostra personale interpretazione. La lettura è proficua? Se diverte è una gran bella cosa. Se insegna a usare con sapienza le parole rende un bel servizio. Quando consente di isolarsi dal mondo per un pomeriggio, trascinandoci affascinati in altri luoghi, altri tempi, allentando il morso del dolore, dell'angoscia o della paura, è preferibile a un antidepressivo.
Con il libro, in questa attrazione che è in tutto e per tutto una passione, si deve lottare per mantenere le proprie idee e filtrare ciò che si legge attraverso una inesausta capacità critica.
E allora il pericolo qual è? Lo scollamento dalla realtà, così difficile, faticosa, inquietante, con il rischio della fuga verso un mondo immaginario: soldatini di piombo al posto di veri soldati e principesse anziché donne reali. Credendo che un principe lo si possa trovare sempre: con il suo bel mantello azzurro e il cavallo bianco e, alle spalle, il reame in festa, pronto a accogliere la sua principessa.
Il rischio è che il tuo collega, con gli occhiali e il golf grigio nonché una leggera stempiatura sulle tempie, te lo lasci scappare perché alle sue spalle c'è soltanto il grafico in salita del fatturato del'azienda.
E il reame?
Soltanto nella fantasia di chi ha scritto.

lunedì 19 gennaio 2009

Guerra

Ebrei e Palestinesi.
Mi dicono che devo schierarmi.
Cosa significa?
Devo dire chi ha ragione e chi ha torto.
A che pro?
Si può commettere un errore, avendo ragione e viceversa.
Non si possono uccidere donne e bambini.
In guerra?
Sì, ma non...troppi.
Quanti sono 'troppi'?
Ma, soprattutto, chi si schiera - se lo fa a favore dei palestinesi - non vuole correre il rischio di passare per antisemita.
E' un rischio modesto, non credete?
Eppure già vi disturba, appanna la vostra immagine.
Perché la shoah non la neghereste mai.
Voi.
Loro, gli ebrei, se la portano nei cromosomi, nel sangue, nel cervello e nell'anima.
E hanno paura che si ripeta.
Non è per mania di persecuzione.
Non hanno paura di quattro ragazzi di destra che non sanno nulla di loro e che prenderebbero a manganellate le loro schiene come le vetrine di un negozio.
Furia fine a se stessa.
Hanno paura degli arabi che li circondano, a migliaia, e che, pur di ucciderli, sarebbero disposti a farsi saltare per aria.
E che, appena possono, lo fanno.
E allora io non posso schierarmi, perché torti e ragioni dell'una e dell'altra parte sono un groviglio inestricabile che io, colpevolmente, non sono in grado di dipanare.
Ma, a coloro che decidono di farlo,
( come l'apprezzabilissimo Leonardo, nel suo ultimo post )
dico: accettate il rischio di passare per antisemiti!
Rispetto a quello di saltare per aria sotto le bombe degli israeliani o di essere ridotti in polpette, su un autobus per mano di un kamikaze palestinese, cosa volete che sia?
La guerra a cui stiamo assistendo non è con i soldatini di piombo.
E' vera, e delle guerre vere ha tutte le tragiche regole.
E l'orrore. Purtroppo.

domenica 18 gennaio 2009

Nostalgia

Era una giornata d'inverno. L'aria, tersa come cristallo, aveva già in sé, appena percettibile, sentore di primavera, di viole sbocciate sui bordi dei fossi. Noi ragazze, ospiti del collegio di monache abbarbicato alla collina, la sentivamo sulla pelle, ci scorreva già nel sangue, dandoci un'eccitazione che ci impediva di dormire.
Scendevamo alla sera nel giardino del collegio, gettavamo sull'erba una coperta, poi, lente, venivano a galla le confidenze, le storie di famiglia che s'intrecciavano con i progetti, le speranze e i problemi. Ci portavamo il thermos del caffè, si fumava una sigaretta, perfino io che ho sempre odiato farlo, tiravo una boccata.
Non avevamo mai sonno.
Al mattino a turno, una di noi si alzava e preparava la moka. Il caffè era forte e amarissimo per obbligarci a saltare giù dal letto e studiare. Le stanze al nostro piano si animavano. Svolazzavano, bianche e nere come rondini, le monache. Una di loro, una suorina giovanissima, saliva, invitandoci al silenzio. Sulla porta delle stanze frusciava quel suo 'sst, sst' che noi ignoravamo.
Avevamo tutto in comune: il rossetto, i maglioni, i primi jeans - che ci infilavamo stendendoci sul letto perché li portavamo aderentissimi, quasi fossero una seconda pelle - gli amori che, spesso, erano non corrisposti o furiosi. Eravamo giovanissime e intatte, belle di quella bellezza che dura un soffio, inconsapevole e, quasi un presagio di sventura a venire, venata di malinconia.
A volte scoppiavano liti feroci che facevano emergere rivalità sotterranee. La più bella, la più intelligente doveva fare i conti con l'invidia femminile che già segnava caratterialità che si andavano definendo. La ribellione generazionale che montava nell'aria, animando le discussioni, contagiava anche noi ragazze del collegio. Si cominciava a parlare di politica.
Una sera, in giardino, una di noi iniziò a canticchiare una nuova canzone.
" Re Carlo tornava dalla guerra; lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor...".
Incerte, cercammo di seguirla.
" Ho un disco di De André. Le sue canzoni sono bellissime..."
L'aria che si faceva fredda ci fece rientrare.
Al mattino, quel mattino di cristallo che ci portava in dono la primavera, la mia compagna di stanza accese il giradischi.
" Questa di Marinella è la storia vera..." e lei, anticipando le parole " che scivolò nel fiume a primavera, ma il vento..."
La suorina si stagliò nel vano della porta con il dito sulla bocca.
Esitò, incerta.
Io feci sst al posto suo.
Lei tacque, contagiata dall'incanto di quel cantautore sconosciuto.
Era un mattino di marzo del millenovecentosessantasette.
Nessuno fiatava nella stanza piena di sole e disordine.
De Andrè cantava.
Non sarei stata, mai più, così felice.

Burka all'italiana

Nei commenti al post "Il quesito con la Susi" su Lipperatura colgo questa chicca che copio-incollo:"Con una battuta, potrei dire che la nudità pubblicitario-televisiva è il burka all’italiana." (Mario De Santis)

giovedì 15 gennaio 2009

Lacrime false

Urlano i bambini palestinesi della Striscia di Gaza, come avranno urlato i bambini ebrei saltati in aria sugli autobus che li portavano a scuola. Piangono i bambini che i genitori separati usano come pedine nei giochi al massacro di una separazione. Chiedono aiuto i bambini violati, usati per attrarre laidi turisti del sesso. Non hanno più voce i bambini che frugano nell'immondizia per sfamarsi, quelli che gli adulti derubano dell'età dei giochi...

I bambini non votano, non protestano, non fanno paura.
Indifesi, devono subire. Anche finte lacrime di dolore,anche questo insulto.

I bambini devono soltanto sperare di diventare grandi il più rapidamente possibile.
Se noi adulti glielo consentiremo.

domenica 11 gennaio 2009

La libertà si paga!

La ribellione, il rifiuto a piegarsi, a essere umiliate, usate, trattate senza il minimo rispetto, quanto costa alle donne? Bisognerebbe chiederlo alle interessate, bisognerebbe raccogliere testimonianze sussurrate, confidenze strappate all'anima prima che alle labbra.
Oggi le donne sono tutelate dalla legge: divorzio e aborto sono scelte che il nostro ordinamento giuridico prevede, ma... Ma poco o nulla la legge può fare quando un uomo si mette di buzzo buono per farla pagare a una compagna che, secondo lui, lo ha umiliato rifiutandolo.
In questi casi, più della legge varrebbero educazione, cultura, sensibilità, caratteristiche alle quali il diritto cerca di sopperire, intervenendo quando la loro mancanza provoca disastri.
La legge ha liberato le donne da quel terribile "finché morte non vi divida" (preso alla lettera da troppi uomini che hanno effettivamente tranciato, oltre al vincolo matrimoniale, anche la gola delle consorti) stabilendo modalità e regole per i coniugi separati, ma...Il marito che ti aspetta sotto casa e ti dà una scarica di botte, oppure quello che non paga gli alimenti o quell'altro che il divorzio lo vive a 360 gradi e quindi divorzia anche dai figli, chi lo controlla, chi lo mette in sicurezza?
Nessuno.
Te la devi cavare da sola e non è facile perché la tua vita è già durissima.
Hai già "contro" la tua famiglia e quella del marito, perché le madri ti invitano a riflettere e pazientare e i padri non sopportano l'idea che tu possa uscire di nuovo con un uomo, e senza che si possa metterci il naso. La società, poi, ti sbatte ai margini perché sei come un servizio di piatti spaiato: non presentabile! Gli uomini effettivamente ci provano, tanto una separata è terra di nessuno, le amiche sposate ti tengono alla larga dai loro consorti, ché la prudenza non è mai troppa.
Normalmente hai un reddito basso, i figli sul groppone, passi squallide domeniche facendo il bucato e sfregando le piastrelle del bagno, ma... Ma le donne continuano a separarsi: pronte a qualunque sacrificio, correndo anche il rischio di essere prese per il collo e uccise, continuano a andarsene, lasciando uomini della stessa pasta di quelli che le loro madri e nonne sono state costrette a sopportare per un'intera vita, liberate soltanto da un ictus o un infarto provvidenziali.
Perché? Chiedetelo a queste donne. Ascoltate le loro risposte. Gli uomini che si lasciano alle spalle non sono certo i migliori sulla piazza. Soprattutto donne che hanno avuto figli non fanno scelte così dolorose e faticose senza motivazioni più che valide. E se non divulgano ai quattro venti i motivi della loro scelta è, spesso, soltanto per salvare l'immagine del marito agli occhi dei figli, anche se quasi sempre chi è pessimo marito, raramente sarà ottimo padre.
Mi sono sempre chiesta perché una vedova goda della stima della gente e una separata no!
Entrambe affrontano la vita da sole..con notevoli difficoltà. Eppure!
Ci sarà anche qualche donna che divorzia con leggerezza, ma non credo siano molte. Nella graduatoria delle esperienze scioccanti il divorzio è collocato subito dopo la morte del coniuge.
Chi ha fatto questa scelta conosce lo strazio, il senso di fallimento, la paura di affrontare qualsiasi difficoltà senza condividerla con nessuno. Chi ha scelto di andarsene conosce il dolore di rispondere alle domande dei figli, la difficoltà di spiegare senza ferire, il disagio di presentare ai propri bambini e ragazzini adolescenti un compagno, perigliosamente incontrato, spiegando che non prenderà il posto del babbo e che non ruberà l'affetto della madre. Ma diventare autonome, poter decidere della propria vita ricompenserà di qualunque fatica, di ogni difficoltà e disagio.
Io credo che il coraggio che ci vuole per fare simili scelte non sia giustamente riconosciuto. Tanto meno apprezzato. Forse, qualche volta, è addirittura invidiato. E la cosa più assurda è che venga a mancare soprattutto la solidarietà femminile, anche se può sembrare incredibile.
Su questo punto, penso, ci sarebbe, veramente, da discutere.

martedì 6 gennaio 2009

Il cambiamento s'impone?

Nevica, quasi il cielo stanco della terra e dei suoi abitanti si fosse deciso a cancellarla, rendendola come un foglio bianco, pronto per essere riscritto. Qualche macchina passa impacciata dalle catene, o, esitando su pneumatici capaci di arpionarsi al terreno, scivola lasciando un'ombra fugace sui vetri della mia finestra Cielo e paesaggio si uniformano, ma non come a Trieste, la città che ho nel cuore, nelle tonalità squillanti dell'azzurro, bensì rendendo incerti i miei e gli altrui contorni.
Nebbia e neve mi deprimono.
L'anno nuovo cerca, senza riuscirci, di scrollarsi dal groppone annosi problemi. Mai come quest'anno la Befana è una vecchia oscena, con le calze - bucate - piene di carbone: lettere di licenziamento, debiti deflazione, recessione. Altro che balocchi e regali.
Perché la globalizzazione funziona a senso unico, propagando nel pianeta, a velocità supersonica, soltanto problemi, sfiducia e guai? Perché i comportamenti virtuosi sono così riservati, contenuti e poco inclini all'amicizia? Grandi, grandissimi snob. Elitari, si danno a piccole dosi.
Le disgrazie , oltre a essere sguaiate di per sé, si attaccano come le zecche e sono più infettive dall'aviaria.
Ho la netta sensazione che sarà necessario rimboccarsi le maniche e dare un colpo d'ala alla fantasia. In qualche modo si dovrà uscire dalla crisi? O siamo agli ultimi sussulti di un Occidente alle corde? Abbiamo pochi giovani, un tantino stantii, demotivati oppure no?
La mia generazione, che è venuta al mondo sotto le bombe, che è cresciuta succhiando il latte, avvelenato dalla paura delle madri, nei rifugi, è, comunque, venuta al mondo. Non ha dato grande prova di sé: tormentata, contestataria e ribelle, insofferente a limiti e steccati, ha contestato tutto per cambiare poco o nulla, confermando che viviamo nella terra dei gattopardi e che la rivoluzione, in questo paese, finisce sempre a tarallucci e vino.
E' stato un grande fuoco di paglia che ha lasciato braci sotto la cenere che si sono spente una a una. Si sono date per scontate troppe cose: i diritti delle donne, le sicurezze sindacali, la crescita intesa come sviluppo, sempre e comunque compatibile. Con un ambiente in grado di auto rigenerarsi, di rifornirci di energia a getto continuo.
E ora?
Ora si dovrà ricominciare: a chiedere un pubblico dibattito sull'Europa e a prendere posizione.
Sulla politica, sull'economia, sull'istruzione, sul lavoro, sulla giustizia. Su tutto! Stabilendo delle priorità.
Abbiamo la Costituzione più avanzata d'Europa, o, comunque, una delle più avanzate, scritta da uomini che affrontarono l'esilio e la prigionia per affermare le proprie idee e non rinunciare ai propri ideali.
Cerchiamo di evitare, come primo passo, che ci venga scippata e cerchiamo di capire in quale direzione stia andando la Costituzione europea. Impegno non da poco, soprattutto perché, su questo argomento perfino sul Web, si trova pochissimo.
Chiediamoci perché?
Buona Befana e buon lavoro a tutti.

lunedì 5 gennaio 2009

Effetti collaterali

Quale situazione, quale scenario dà anche a te, piccolo uomo banale, che se comandi sul gatto di casa è già tanto, il diritto/potere di trasgredire?
La guerra, soltanto la guerra, stila un anti decalogo dei Comandamenti: odia il prossimo tuo, uccidi, saccheggia, ruba, non rispettare la donna d'altri, bestemmia consentendo alla belva che hai sempre tenuto celata d'inebriarsi del potere di quel fucile che, per la prima volta, finalmente, ti fa sentire, piccolo uomo fragile e codardo, invincibile.
In un attimo educazione, morale, idee, inculcate con tenacia, fatica e pazienza per farti persona e non bestia, saranno spazzate via.
Se riporterai a casa la pelle, sarà pelle di bestia con la quale dovrai, da quel momento, rassegnarti a convivere.
Per sempre!

domenica 4 gennaio 2009

Ancora guerra...

" Il sogno più dolce " di Doris Lessing è stato il libro che ho letto dopo " Sappiano le mie parole di sangue" di Babsi Jones. I sogni che l'una, anche se infranti, ha avuto la fortuna di concedersi, si contrappongono agli incubi, grondanti lacrime e sangue, dell'altra.
La protagonista del libro della Lessing è ancora, come molte donne della sua generazione( e forse anche parecchie di quella attuale)condizionata dal rapporto avuto con l'ex marito, il compagno Jonny, l'affascinante contestatore targato anni '70, che, inossidabile, approda alla vecchiaia scaricando sulla ex moglie figli, nuove compagne fattesi petulanti e astiose, e altri rampolli aggiunti dal seguito di nuovi amori.
Jonny, pugno alzato e sorriso che sottolinea gli applausi sistematicamente seguiti alle sue parole, osserva tutto dall'alto della sua ideologia, troppo impegnato a parlare di rivoluzioni fatte o da fare per potersi accollare i piccoli, banali problemi del quotidiano.
Lo sguardo di lui che spazia sul mondo a trecentosessanta gradi non può incontrare quello di lei, la moglie del compagno, che, appena nati i figli, non varca i limiti del loro appartamento.
Pure lei lavora - Jonny è, a tempo pieno, al servizio della rivoluzione - ma anche legge e studia , e, tra un pranzo da preparare e una cesta di biancheria da stirare, scrive. E pensa, anche se, a differenza del compagno Jonny, pensa parecchio, ma parla poco.
E' una donna generosa, che dà e si dà, relegando per anni all'ultimo posto della graduatoria i suoi bisogni e i suoi desideri, subendo le aggressioni dei figli che , come saggiamente ma dolorosamente intuisce, non possono che prendersela con il genitore presente.
Accanto a lei la madre del marito, ancorata ad una concezione borghese, più formale che sostanziale, della vita, ma capace di adattarsi a un mondo diverso che soltanto la sua umanità, che i problemi e le delusioni non sono riusciti a indebolire, riesce a farle accettare razionalmente.
La Lessing delinea due figure femminili comunque forti nella loro deblezza, anche perchè inserite in un contesto socio-culturale privilegiato.
Poi le vicende del libro seguono uno dei personaggi, non di rilievo fino a quel momento, nel continente africano, quasi a contrapporre ai fiumi di parole, interessate e ambigue, dell'Occidente la fame e la disperazione dei Paesi sottosviluppati.
L'autrice sembra dire che quando lo stomaco è vuoto i pensieri ruotano unicamente intorno a questo bisogno essenziale. E' necessario avere lo stomaco ben pasciuto per concedersi il lusso di arzigogolare sui massimi sistemi, e qui si delineano le insormontabili divisioni: tra paesi, persone, appartenenze di genere..
Divisioni che accennano a contrasti essenzialmente verbali e, se sono guerre vengono combattute in silenzio, bandendo la violenza anche dal linguaggio usato.
E, a mio avviso, la parte meno convincente del libro, perchè il self-control inglese dell'autrice mal si adatta alla descrizione del disastro africano.
La Jones si cala invece, calzata e vestita, nell'orrore, nel massacro, nella distruzione della guerra: il corpo, in sintonia con il sangue dei vinti e dei vincitori, che sanguina e soffre. Tutto è rosso, sporco, infangato, infranto: tanto gli oggetti del vivere, o non vivere quotidiano, quanto le speranze, le ideologie, i sentimenti.
E il linguaggio è al servizio di questa furia.
La Lessing si muove in case inglesi, sullo sfondo di pareti tapezzate di libri e sete a fiori e uccelli,e - se qualche lacrima cola - è sugli arrosti e nelle teiere, riscaldate per il té alle cinque del pomeriggio, mentre l'ironia stempera il dolore, e la delusione immalinconisce, ma non divora e men che meno devasta.
Nella realtà del conflitto o dei conflitti all'interno dalla ex Jugoslavia, la Jones, spersa in un condominio semidistrutto, circondata da presenze spettrali e dolenti, rese folli o immemori dalla violenza di una guerra che si scontra con la presenza di aiuti umanitari, altrettando violenti nella loro tipologia predatoria, non filtra nulla, non nasconde niente, vomita l'indigeribile e lo vomita addosso al lettore.
La misura dell'una, che esamina, soppesa e stacca da sè, prendendo le distanze per autoconservarsi, per mantenere intatta l'immagine di sè che lei e gli altri hanno,
è l'opposta dell'irruenza dell'altra, che cerca l'inferno non per evitarlo ma per immergervisi. La debolezza di un mondo vecchio, stantio ma comodo e comunque rassicurante, che secerne apparente saggezza e accettazione e pazienza, forse perchè altro non potrebbe permettersi, contrapposta alla forza vitalistica di chi ha perso tutto e sfida la morte per una radio rotta o per lasciare un fiore su una tomba.
La Jones scardina un modo di scrivere, ne sovverte le regole, mescola i generi, forza, esasperandoli, i concetti: è un fiume in piena che porta ad un altrove che, personalmente, avevo solo intuito.
Vi consiglio la lettura di entrambi i libri, anche se diversissimi.
Forse in quelle cucine, in quei salotti, davanti a quelle ricche biblioteche troppi hanno abdicato ai propri principi,hanno finto di non sapere, o non capire.
Troppi, forse, hanno taciuto.

sabato 3 gennaio 2009

Perchè fumi?

" Quando cominciò a fumare capì il valore di quella favilla perpetua davanti agli occhi e di quel fumo azzurrino che solleticava gli occhi e la gola, consentendo di versare una lacrima senza piangere, di aspirare profondamente l'aria e di espirarla senza che questo si chiami sospiro. Da allora, per anni, quel fuoco gli brillò davanti agli occhi o gli si consumò tra le dita. Quel fumo, sempre uguale e sempre diverso, distoglieva il suo pensiero da ciò che temeva e nei momenti eccezionalmente felici lo conduceva nell'incoscienza completa e nell'oblio; lo nutriva come il pane e lo consolava come un compagno...insieme con il fumo invisibile, poteva spingere via il fardello della sua anima inquieta. "
Io non fumo, ma per chi fosse tormentato dall'altrui, ripetuta, domanda:" Perchè fumi?" quale risposta migliore di quella del mio amato Ivo Andric?

venerdì 2 gennaio 2009

Cambiamento

E'possibile cambiare? Non le abitudini che, pur ritmando le giornate e dando un'illusoria sensazione di sicurezza, sono soltanto modalità comportamentali ripetute, in quanto comode. No, mi riferisco proprio alla struttura portante della personalità, a quei comportamenti che nascono da ciò che siamo nel profondo, là dove i cromosomi dettano legge, i traumi si sono depositati e le bugie che ci raccontiamo per salvarci hanno avvolto il tutto in una inviolabile tela di ragno.
Credo sia possibile anche se estremamente difficile. La condizione - in matematica si direbbe necessaria, ma non sufficiente - di partenza dovrebbe essere la disponibilità a mettersi in discussione, a riesamire, con una certa freddezza prendendone le distanze, le proprie scelte di vita analizzandone presupposti e conseguenze. Si richiedono coraggio e...fantasia. In questi casi è quasi inevitabile che si sia toccato il fondo o quello che noi riteniamo essere il massimo del dolore sopportabile.
E' in questi momenti che la tentazione della fuga si fa certezza. Se si fugge non si sceglie. Se la fuga si definisce scelta ci si preclude ulteriormente la possibilità di uscire da una situazione di crisi. Penso a quante donne, ma anche uomini, affrontino il matrimonio, o la convivenza, per uscire da situazioni di malessere, convinti di scegliere il partner, mentre scelgono soltanto di non rompere il velo omertoso delle bugie con se stessi. Tra l'altro non è facile capire a priori se si sceglie o si fugge. A posteriori però, l'aggravarsi dei nostri problemi connoterà, inequivocabilmente, l'apparente scelta come fuga. E' quella situazione che i nostri vecchi sintetizzavano nella frase "Cadere dalla padella nella brace".
Di positivo c'è soltanto che di errore in errore ci si avvicina alla salvezza perchè, e di nuovo le scienze esatte ci sorreggono, quando si tocca il fondo per legge fisica si risale.E' in quel momento che - privati come topini di Laboritt - di qualunque possibilità di fuga decidiamo di andare alla ricerca di un modo alternativo di vivere? Forse sì, semplicemente perché stiamo morendo: di dolore e disperazione.
E' l'errore madornale che socchiude la porta della salvezza, consentendo comunque ai più coraggiosi di salvarsi, perché i più pavidi si precludono fughe e scelte, privilegiando un fumoso immobilismo che, preservandoli da danni maggiori li relegherà, però, ai margini della vita. Senza un amore, senza figli, senza un lavoro stimolante, senza desideri né rimpianti, vivacchieranno alla giornata e moriranno senza aver provato il gusto dell'esistenza.
Il cambiamento presuppone il movimento: in avanti, all'indietro, da una parte o dall'altra. Un movimento che ci consenta un cambio di prospettiva, una visuale diversa che ci faccia scoprire qualcosa che non avevamo visto.
Il cambiamento presuppone una morte, la morte del pre-esistente e una ri-nascita.
Condensa quindi, in un istante, i momenti salienti dell'esistenza: nascita e morte. Potrebbe non spaventare? E' addirittura terrorizzante ma, di tutti i viaggi che potremmo fare, è il più entusiasmante, quello che solo ci può portare a esplorare il territorio incontaminato, la terra mai violata: noi stessi, dalla pelle fino al profondo dell'anima.