sabato 8 ottobre 2011

Ancora sui confini, immaginari o meno

Scarna , scheletrita, privata di ogni fronzolo, resa dura ma splendente come un diamante illuminato dalla luna in una notte solitaria, la scrittura  di Cormac Mc Carthy mi prende alla gola in Città della pianura, romanzo che conclude la "trilogia della frontiera".
E così il tema del confne - che mi porto dentro da sempre, che mi sorregge e mi schianta - ritorna. Torna una divisione che non può separare la terra, i suoi fiumi, gli alberi, la sabbia - e il vento che la solleva e la pioggia che la bagna e il sole che la fa ardere - ma può dare l'illusione di una diversità così profonda da diventare identità. Nel romanzo un fiume divide - come una ferita - una terra dall'altra, il Texas dal Messico.
Due lingue che si confondono, due culture che s'incontrano scontrandosi, gelose di un'identità in cui, più che mai, la geografia dei luoghi ne determina la Storia. Nei ranch, spersi nella polvere, uomini e cavalli stringono non solo alleanze di necessità, ma amicizie che intiepidiscono le notti passate sotto le stelle, quando si dorme avvolti in una coperta, la sella per cuscino, i lupi che ululano, i serpenti che strisciano... e il calore è solo quello del fuoco che si sta spegnendo e del cavallo che respira - o sospira? - battendo gli zoccoli sulla terra dura e secca per rassicurarti e rassicurarsi. In quelle solitudini di cieli sconfinati e bui e di terre inospitali e solitarie, vivono i cowboy... e lì nascono le loro storie, esplodono le passioni, affiora la saggezza della vita e l'incapacità di accettarne i limiti, la noia del vero e il bisogno di mistero, il mistero che ti rende vivo solo per dilazionare la tua morte fino al momento della comprensione perché "chi sa... muore". Altrimenti che senso avrebbe vivere?