domenica 21 febbraio 2010

Creatura d'acqua (racconto a puntate)

Si sedette, molesti i pensieri le ronzavano in testa. Poi si avvicinò allo specchio dell'armadio: una donna giovane, un po' scialba, magra, curva quasi la vita fosse stato troppo pesante da reggere per lei. I seni piccoli e le gambe snelle di sua madre. Una donna. Come tante altre. In quello stesso specchio si era vista una mattina... Quanti anni erano passati? Com'era, come si vedeva e come la vedevano gli altri? Aspetti, forme diverse che le restituivano di sé un'immagine frammentata. Lei che si era aspettata una coda luccicante si era trovata davanti a quel corpo di donna che sanguinava e cambiava, imponendo compostezza e modestia e sguardi bassi... E le corse per le calli con i compagni di giochi, la raccolta di conchiglie, il sole sulla pelle giocando in riva al mare? Finito!Tutto finito.
Avevano parlato lei e il medico di questo suo rifiuto di crescere, della rabbia che sua madre metteva in quella parola "donna" che le schiumava sulla bocca come la bava di un moribondo. "Bella disgrazia nascere femmine..." E lo sguardo, come la nebbia quando cala fitta, alzava un muro. Respingendola.
La nonna era morta, portandosi nella tomba la coda da sirena e le carezze, e tutto era ridiventato reale, piatto: l'odore di marcio dei canali, i muri scrostati dalla salsedine, l'umidità che penetrava nelle ossa, i bambini con cui aveva giocato che ora si mettevano la brillantina nei capelli e allungavano le mani sotto la sua gonna.
Le parole del medico veneziano le erano scivolate dentro placando la paura e, pian piano, le aveva collezionate come le conchiglie che riempivano le tasche dei suoi grembiuli da bambina. Aveva comnciato a pettinarsi con un po' di cura, un'infermiera le aveva portato un rossetto e a Natale, quando al manicomio c'era stata la festa - anche per i matti esiste, deve esistere il Natale, aveva detto il direttore - se l'era passato sulle labbra. E le matte avevano ballato, e Lorenzo, che ogni tanto dava in escandescenze con la faccia contratta dai tic nervosi, le aveva detto tartagliando: "Sei bebebella..." e l'aveva baciata dietro all'orecchio. Sua madre pensava che i matti fossero anche scemi, ma la pazzia è spesso soltanto il prezzo che si paga per aver visto in faccia l'orrore, l'ultimo rifugio in cui rinchiudersi negando una realtà diventata intollerabile.
E lei, creatura in lotta tra la concretezza della terra e la sconfinata libertà del mare, aveva ripreso contatto con la realtà occupandosi dell'orto del manicomio.
Aveva in tasca l'indirizzo di una comunità che a Mestre avrebbe potuto accoglierla.
Negli occhi di sua madre, ora che glielo aveva detto, sollievo per questa sua scelta, nella sua testa parole - ad alzare paratie per difenderla dalla certezza di non essere stata amata né oggi, né mai - le parole che le ripeteva "el dotor": "Il mondo è pieno d'amore, vai a cercarlo altrove, Gisa. Vai a cercarlo altrove".
(continua... ).