martedì 30 dicembre 2008

Quest'anno non faccio bilanci

Quest'anno non faccio bilanci. Ho problemi sui criteri di valutazione. Di quanto varia la vita di una madre che ha perso un figlio? Una figlia? E' successo a un'amica, a un amico.
Quest'anno non faccio bilanci. L'anno passato non ho scritto un elenco di buoni propositi. Dopo un numero imprecisato di anni in cui l'ho fatto e i buoni propositi sono risultati essere sogni a occhi aperti - come i primi articoli della Costituzione europea - mi sono stancata di raccontare, ma soprattutto raccontarmi, frottole. So che continuerò a ingozzarmi di frutta secca e torrone nei pomeriggi bigi che gli inverni padani mi regaleranno. So che starò troppo al computer, che continuerò a farmi il fegato amaro ascoltando il telegiornale, che tremerò di paura quando la nebbia, cancellando e scolorando il paesaggio, trasformerà le strade che i miei figli percorreranno in agguati mortali.
Quest'anno non faccio bilanci: sono un po' più pesta e non saprei se mettermi tra i fondi di magazzino (valore simbolico 1 euro) oppure ai piani alti, nella scaffalatura vintage.
Quest'anno non faccio bilanci. Non quadrerebbero i conti: manca mia madre e a depennarla - per sempre - proprio non ci riesco.
Quest'anno non faccio bilanci. Avrei dovuto accendere un fondo rischi, ma ci si può cautelare contro la stupidità? Ci vorrebbe tutto l'oro del mondo e forse non basterebbe.
Quest'anno non faccio bilanci. Ho comperato troppi libri, troppe medicine, poche verdure, troppo cioccolato, pochissimo 'stira e ammira',vetri perfetti',fabuloso'e 'drago'.
Quest'anno non faccio bilanci. Ho due nuovi amici, ho scritto un altro libro. Sopravvenienze attive?
Quest'anno non faccio bilanci. Qualcuno mi diede un amore, era in lire. In euro non quadrano più i conti del cuore.
I principi contabili non funzionano per la contabilità degli affetti. Non c'è un'unità di misura dei sentimenti. Hanno tentato con il denaro. Non ha funzionato. Per questo mi accontenterò di esserci, a naso all'insù, a seguire la traiettoria dei botti, nell'ultima notte di dicembre perchè quest'anno non faccio bilanci.

sabato 27 dicembre 2008

I sommi banchieri

Quando venne introdotto l'euro e la Bce divenne la Banca dell'Unione, noi, poveri tapini,
demmo assolutamente per scontato che i sommi banchieri in questione conoscessero gli strumenti finanziari in circolazione, le loro caratteristiche, gli eventuali rischi per i risparmiatori, le banche e il sistema economico/finanziario.
E, infatti, lo sapevano perfettamente. Loro.
Noi no, ma loro si.
Perché non sono intervenuti?
Sembra non si potesse.
E noi, sempre i soliti tapini, abbiamo affidato i nostri risparmi a chi non può essere controllato e ha dimostrato di muoversi unicamente privilegiando l'obiettivo di massimizzare il profitto?
Gli stati membri hanno affidato ai banchieri della Bce il compito di guidare l'economia e i mercati creditizi, senza comunicare ai cittadini che, nel nuovo Far West, gli sceriffi avrebbero avuto le mani legate, salvo che al momento di dare l'assalto alla diligenza. Perché, in borsa basta avere qualche informazione un'ora prima dei mercati e l'assalto alla diligenza diventa un gioco da ragazzi. Si chiama 'insider trading'.
Non se n'è sentito parlare.
Con la ratifica del Trattato di Lisbona ci consegnamo nelle mani dei banchieri, sapendo però, questo è l'unico vantaggio di questa gravissima crisi finanziaria, che: o sono sceriffi che non sanno sparare, o bisogna diffidarne per non finire sotto il 'fuoco amico', o - e sarebbe l'ipotesi più inquietante - qualcuno ha cavalcato la tigre, dopo averla lasciata libera.
Ai cittadini italiani bisognosi pochi euro di carità, ma finanziamenti massicci a qualcun altro.
A chi?
Ma va? Alle banche?
Ma per metterle in condizione di non strangolare piccole imprese e privati.
Provate a chiedere a chi si rivolge alle banche per ottenere credito, che risposta ottiene?
Che uso stanno facendo le banche di questo denaro?
Chi controlla?
Nessuno.
Gli sceriffi, ormai, sono soltanto quelli che, pistola sul fianco, se ne stanno davanti alle banche, con un'aria falsamente minacciosa, non spaventando più nemmeno i rapinatori.
Gli altri, quelli preposti al controllo, a tutela dei cittadini e dei risparmiatori, se ci sono, non guardano, se guardano, non vedono.

venerdì 26 dicembre 2008

E L'Onda?

Suonava il telefono, insistente,petulante.
"Sì?"
"Ciao, sono Giorgio...Ti ricordi di me?"
Quel nome mi frullò nella memoria senza riuscire a collegarsi a un volto.
Breve impacciata pausa di silenzio che la comunicazione telefonica non consente. Poi, all'unisono, io" Non ricordo", lui "Trieste,l'università..."
"Non abito più a Trieste da trent'anni" e il rimpianto già mordeva.
"Nemmeno io, abito a Roma" .
Altra pausa di silenzio mentre dalla memoria spuntava un ragazzo magro, i capelli lunghi e ricci, l'eskimo e le clark.
"Ti ho vista su MySpace, una delle fotografie dell'album te la feci io. Ricordi?"
E ora i ricordi arrivavano come un fiume in piena. Nella testa mi esplose Trieste, azzurra di cielo e mare, malandrina di vento. Vento e giovinezza, che per me sono sinonimi, vento che mi faceva volare e ridere, quando ogni giorno era un'avventura per il solo fatto d'esistere, e la notte si aveva l'impressione che cedere al sonno significasse gettare via il tempo. E allora, nel collegio di monache dove avevo trovato alloggio con una decina di studentesse, bevendo caffè forte e nero, ce la raccontavamo fino alle prime luci dell'alba.
Eravamo tutte innamorate di qualcuno, io di Giorgio. Giorgio era uno dei capetti della contestazione che aveva contagiato anche l'università di Trieste. Io, venendo da una famiglia di sinistra, ero vaccinata contro gli slogan che mi arrivavano all'orecchio. Osservavo ciò che stava avvenendo abbastanza freddamente, seccata soprattutto di essere collocata sistematicamente in secondo piano rispetto alle contestazione e ai mille impegni che comportava. Qualche anno dopo avrei aderito con ben diversa partecipazione al femminismo dopo aver provato l'emarginazione femminile sulla mia pelle, passando anche attraverso l'esperienza insostituibile della maternità. Ma, in quegli anni universitari, la vita era solo promesse e progetti e speranze.
E, soprattutto, per me era libertà. Gli anni più belli della mia vita, in quella città dove essere donne ti dava una marcia in più.
" Giorgio?" mormorai, aggiungendo" Ora ricordo"
Lui rise. " Ne hai messo di tempo" aggiunse.
Altra lunga pausa di silenzio.
Entrambi persi dietro ai ricordi, con quel retrogusto di malinconia che i ricordi lasciano, soprattutto a Natale.
" Di te so molte cose perché leggo il tuo blog..." e poi in fretta, quasi a giustificarsi, "Sei sempre la stessa"
" Anche tu" pensai, ma senza dirlo.
" Beh, tanti auguri" lui concluse.
" Anche a te"
" Ci sentiamo?"
" Perché dovremmo?" pensai di nuovo, mentre rispondevo banalmente" E' possibile"
Poi il tu, tu della cornetta abbassata.
" Sei sempre la stessa?"
Non cambia la struttura portante della personalità ma, se trent'anni di vita se non ti hanno cambiata nemmeno un po', cosa diavolo li hai vissuti a fare? Per carità di patria non gli ho chiesto cosa facesse, cosa fosse diventato. Non me la sono sentita di fare domande per paura di doverlo annoverare tra i molti contestatori da strapazzo che vissero la contestazione come un gioco, e, poi, si accaparrarono saldamente le loro poltrone alle quali sono ancora tenacemente avvinghiati.
A volte basta una frase per capire.
Una frase soltanto.
Mi lasciò per una morettina adorante che lo seguiva come un'ombra, pendendo dalle sue labbra.
E ci feci pure una mezza malattia...
Io lo contestavo duramente, lui non ammetteva di essere contraddetto.
Diceva che le donne sono illogiche, poco razionali, possessive...
Lui: il contestatore che avrebbe dovuto cambiare il mondo!
E l'Onda? Si è già smorzata trascinando con sé soltanto una manciata di conchglie?

Il lavoro rende liberi e la carità riconoscenti.


Buon Natale a tutti e auguriamoci un anno migliore.
A Babbo Natale non chiedo nulla, tanto ho capito che lassù, nella sua casetta nel Paese di Ghiaccio, quest'anno ha avuto a che fare con problemi di concorrenza sleale. Berlusconi ha distribuito tessere di povertà e sua Eminenza Tettamanzi, il cardinale, ha donato una lauta somma, anche a titolo personale (da dove verranno tutti quei soldi?) ragione per la quale il vecchietto vestito di rosso è ripartito con la slitta piena e la testa carica di dubbi. Perchè i regali li porta ai bambini, lui, ma li addebita sui conti correnti dei genitori.

Morale: davanti a due uomini potenti, vestiti di abiti un po' fantasiosi e rossi, scegliere, prima di tutto, l'uomo di chiesa anche se mi chiedo: a chi saranno elargiti i fondi? Con quali criteri? Perchè tanta generosità?

La nostra Costituzione dichiara, se non vado errata, che l'Italia è fondata sul lavoro, non sulla carità. Sarà perchè il lavoro rende liberi e la carità riconoscenti?

martedì 23 dicembre 2008

Terremotando

Stavo parlando al telefono con un'amica quando ho visto il gatto diventare una palla di pelo irta dalla paura, mentre un rumore sordo e un tintinnare di vetri si accompagnava a qualcosa di assolutamente insolito. Ero Pollicino che cercava di stare in piedi mentre qualcuno sbatteva il palazzo condominiale come se fosse un uovo di Pasqua. Per fortuna dura poco: pochi secondi. Altrimenti si morirebbe. Di paura. Nulla come il terremoto dà la sensazione dei tapini che siamo, della casualità dell'esistenza. Ricordo il terremoto del Friuli: abitavo a Trieste. Stavo scodellando la minestra: era maggio, il caldo era stato quasi estivo, soffocante per tutto il giorno, con un'aria ferma, quasi fosse in attesa. Era sera, l'ora in cui ci si siede a tavola. Mia figlia era dai nonni, a Udine. Mio marito stava tornando a casa: gli avevo comunicato che ero incinta.
Lo stavo aspettando quando sentii quel rumore sordo aumentare d'intensità, gonfiarsi..Pensai venisse dal mare. Corsi sul terrazzo e mi appoggiai alla balaustra. Cominciò a oscillare e con lei tutta la casa. Il boato cresceva d'intensità: con mio figlio in braccio volai fino alla porta d'ingresso, la spalancai. L'inquilino dell'appartamento di fronte al mio aprì la bocca per parlare, ma notai che muoveva soltanto le labbra. Forse pregava.
"Le scale sono le prime a crollare" pensai resistendo alla paura che mi avrebbe indotta a scendere in giardino, a scappare dalla casa che si sarebbe potuta tramutare in un groviglio di cemento frantumato e contorto.
Noi fummo fortunati: l'onda sismica si smorzò nel sottosuolo carsico, irto di grotte e doline, mentre Gemona - epicentro del sisma - crollava su se stessa, insieme a mezzo Friuli. Tanti morti, troppe case mal costuite in una zona sismica. Case tirate su con lo sputo.
Per fortuna - teniamo le dita incrociate - qui le case le hanno costruite con altri criteri.
Nonostante quello scricchiolio di ossa rotte non ho trovato una crepa. E' andata bene!.

Sei Laura o Falilulela?


Rido di sollievo ragazzi. Che fifa nera il terremoto!

lunedì 22 dicembre 2008

sabato 20 dicembre 2008

La neve danza


Si era alzata presto e aveva, per prima cosa, sbirciato oltre il vetro della finestra. Il bianco assoluto del paesaggio, coperto dalla neve, le aveva rimandato una sensazione di estraneità. Non una macchina aveva osato avventurarsi sulla strada e anche sul marciapide non doveva essere passato ancora nessuno. I fiocchi continuavano, incessanti, a scendere, sfarfalleggiando lievi.
Odiava la neve: la faceva sentire in trappola, segregata tra le quattro pareti del suo appartamento. Roteando le braccia a mulinello per riscaldarsi, andò in cucina, accese il riscaldamento e mise sul fuoco la moka. Qualcuno si muoveva nell'appartamento sopra al suo, ma la neve ottundeva i rumori, impadronendosi non soltanto delle cose, che riserrava nel proprio abbraccio gelato, ma anche dei rumori.
Comandava, spadroneggiava e, se fosse scesa la temperatura, avrebbe cristallizzato il paesaggio in un'istantanea di gelo. Allora sì, sarebbe stato un bel problema.
Il caffé borbottò, schiumando. Il calore dalla tazza si propagò allo stomaco, ma la sensazione di ottusimento mattutino permase. Ebbe la sensazione di essere osservata. Con la coda dell'occhio avvertì un movimento, quasi un guizzo, oltre il vetro della finestra.
Si voltò; sui vetri scivolava solo la neve, placida.
Si avvicinò alla finestra che il cortile del palazzo separava dalla strada. Piccole orme scure indicavano un passaggio: qualcuno aveva attraversato il cortile, giungendo fino sotto alla sua finestra, ma chi? Le orme erano minuscole, anche se sagomate in modo da non lasciare dubbi. Sembravano orme di bambino. Di nuovo ebbe la sensazione che qualcuno la guardasse e, per la seconda volta il cortile sembrò animarsi, quasi un bisbiglìo salisse dai tronchi, propagandosi alle siepi e ai roseti genuflessi sotto il peso della neve.
Aprì la finesta e si sporse, sospettosa. Tutto taceva e la neve, che continuava, incessante, a cadere, già ricopriva le piccolissime impronte.
Tintinnò, o fu soltanto una sua impressione?, un suono di campanelli.
" Manca soltanto che mi suonino Jngle bells..." pensò, richiudendo la finestra, mentre lo sguardo le cadeva sul davanzale dove un pettirosso intirizzito la fissava, apparentemente senza temerla. Immobile. Quando lo raccolse si rese conto che il gelo l'aveva ucciso. Era bellissimo, perfetto nella sua immobilità. Il vetro le rimandò la sua immagine: biondi capelli di grano incorniciavano il volto piccolo, dagli zigomi pronunciati. Negli occhi, chiarissimi, il gelo dell'inverno.
Rimase immobile, impietrita.
Si infilò il pettirosso sotto al maglione, vicino al cuore, e rimase in attesa.
Il frullo d'ali fu più lieve di un sospiro, ma lo gnomo lo percepì.
Lei sobbalzò e i campanelli tintinnarono festosi nella sua testa. Guardò fuori dalla finestra
e sentì sussurrare la neve, perchè, voi bambini ben lo sapete, la neve sussurra. E canta. Canta.
E, sempre - è inutile che ve lo ripeta - scendendo, danza.
Sussurra, canta e danza per la felicità dei bambini e di chi conserva, nell'anima, una traccia d'infanzia.

Viaggio di cuore

Ho letto un libro che mi è piaciuto molto. L'autrice, Marilena Monti, incentra la storia del protagonista, il poetico, incantato e fragile Ugo, professore di lettere in un liceo, sullo scontro/incontro del protagonista con sé stesso e sulla descrizione del viaggio, che quasi tutti, prima o poi, siamo costretti a fare alla ricerca di noi stessi. La motivazione dell'angoscia che deborda, travalicando i limiti della sostenibilità e obbligando il protagonista a escogitare ogni possibile tecnica di sopravvivenza, é un trapianto di cuore che, se inizialmente consente la creazione di un alibi, subito dopo non permette che a quell'alibi ci si aggrappi, facendolo a pezzi, scardinandone le fondamenta e travolgendo in questa furia anche il protagonista. Muri di parole, aspre e forti, si ergono a inutile difesa di una parvenza di vita ferita da dolori antichi e rancori incancreniti, mentre il viaggio diventa fuga e ricerca di un oblio irraggiungibile. La scrittura calda e piena, ricca fino all'opulenza, della scrittrice si fa serrata e incalzante, svelando non soltanto angoli di Sicilia ubriachi di sole, ma anche scelte e sentimenti, sprofondati a viva forza nel buio della dimenticanza che, riemergendo, a spizzichi e bocconi, di luogo in luogo, di ricordo in ricordo...
Non vi anticipo il finale. Imprevedibile!

venerdì 19 dicembre 2008

Quanto riserbo sul Trattato di Lisbona.

Non mi sento tranquilla. A Lisbona - in sordina - nasce un trattato, che assomiglia molto a una Costituzione di cui sembrerebbe costituire la premessa, e nessuno ne parla? Un territorio sempre più vasto da governare di cui si stanno decidendo le regole di governo, e nessuno che apra un dibattito?
A chi spetterà il potere decisionale?
Mi informo e scopro che ci saranno 27 Commissari, il Consiglio europeo e - volevi? - la Bce.
Scopro anche che i 27 in questione, per il momento uno per ogni nazione, diventeranno ancora meno, a partire da 2014. Dal che deduco che non tutti i paesi saranno eguali. Non saranno nemmeno necessariamente eletti dal popolo.
Saranno pochi, lontani e ...potenti.
E se a noi, poveri ma numerosissimi tapini (5oo milioni per l'esattezza), non dovessero andare bene?
Scopro che con un rimando ad altro documento si parla anche della pena di morte. La pena di morte! E, oltre alle missioni di pace, si prevedono missioni offensive. Ah, dimenticavo, approvato il "Trattato" di Lisbona sarà illegale manifestare contro l'Unione europea. Inoltre quanto stabilito a Lisbona potrà subire modifihe soltanto su parere unanime degli stati partecipanti.
La Francia e l'Olanda hanno bocciato con referendum popolare la Costituzione europea, ma i rispettivi governi hanno ratificato il Trattato di Lisbona che ne ricalca l'impostazione.
Secondo voi, un trattato, che stabilisce la prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale, per quale motivo nasce circondato dal riserbo? Stanno cambiando le regole del gioco, approfittando della situazione attuale? Chiedono più ampi poteri per noi o per "loro"?
Non sarebbe il caso di saperne un po' di più?

Trattato di Lisbona- testo integrale
Trattato sul funzionamento della U.E. testo integrale

lunedì 15 dicembre 2008

Ci fecero credere che...

Ci fecero credere che saremmo entrati, calzati e vestiti, in una nuova età dell'oro. Dissero che ci sarebbe stata una moneta, l'euro, indenne da svalutazioni striscianti e men che meno selvagge. Aggiunsero che saremmo stati tutti eguali in un' Europa senza più guerre, senza inquinamento, senza disoccupazione.

Ci fecero credere che, come alternativa all'Europa, avremmo avuto il disastro, la balcanizzazione del Paese, miseria, inflazione e l'uscita dal consesso dei paesi più industrializzati.

Il mercato, per voce dei suoi sacerdoti (economisti e banchieri), tuonò e sussurrò, snocciolando numeri e elaborando rapporti. Il mondo dell'economia fu ancorato a terra da rigidi parametri che avrebbero assicurato il conseguimento di tutti gli obiettivi prefissati.
La nuova Bibbia venne redatta a Maastricht. E se qualcuno avesse osato "sforare" uno dei parametri? Come un angelo ribelle, sarebbe stato colpito da pesantissime sanzioni pecuniarie, prima, e allontanato dal Paradiso, poi e per sempre.

Non scesero nei particolari, troppo tecnici per il popolino, premurandosi però di far rientrare i trattati attinenti all'Unione Europea nell'ambito della politica estera, sottratta, in base alla Costituzione, alla volontà dei cittadini.

Abilissimi, fecero leva sull'immaginario collettivo richiedendo ai cittadini europei di mettersi in marcia, di andare, di affrontare i sacrifici e le fatiche del viaggio, facendoci sentire come i coloni americani in cammino verse il lontano West, alla conquista di verdi pascoli incontaminati.

Quando, alla prima sosta del nostro andare, ci fermammo a fare i conti fummo in grado di quantificare il costo dell'operazione. Salari e stipendi avevano dimezzato il loro potere d'acquisto, a vantaggio dei beni il cui valore, in euro, risultò raddoppiato.

Ma come? E l'Europa degli eguali? Questa Europa che si andava delineando ampliava, istituzionalizzandolo, il solco tra ricchi e poveri. Un brivido di paura serpeggiò lungo la schiena di molti dei 500 milioni di cittadini dell'Unione.
Ma era soltanto l'inizio.

I capi (pochi, sconosciuti e lontani), assisi a Bruxelles, cominciarono a emanare Direttive comuni. In tutti i campi si cercò di uniformare le regole, ma ogni Paese aveva la sua storia, le sue leggi, la sua lingua e le Direttive venivano recepite con difficoltà e attuate con Regolamenti difformi. Turbinarono nei cieli europei migliaia di documenti, mentre i parlamentari con le loro corti variegate di figli degli amici e mogli dei fratelli (emblematico il caso Bossi: figlio del senatur, respinto per la terza volta all'esame di maturità, ma ritenuto professionalmente e politicamente idoneo) dilapidavano patrimoni in trasferte e recuperi spese.

L'Unione Europea si realizzava compiutamente soltanto a livello monetario e finanziario-creditizio. Leggi e regolamenti, ispirati al principio della prudenza, venivano sostituita da un quadro normativo che consentiva alle banche un'operatività a ampio raggio, molto più redditizia ma estrememamente rischiosa. Il controllo sulle operazioni di borsa e sull'attività delle banche e delle società finanziarie diventava facilmente eludibile mentre nuovi e complessi strumenti venivano introdotti sul mercato a rivoluzionarne l'operatività. Oggi ci chiediamo perché. Forse perché chi aveva voluto l'Unione Europea non desiderava lacci e lacciuoli in campo finanziario? Forse perché era diventata la finanza il settore più redditizio e l'economia di carta il paese di Bengodi?

I problemi legati agli altri settori si liquidarono ricorrendo a una formula a effetto che accontentò tutti: era nata "l'Europa unita nella diversità".
In occasione della gravissima crisi finanziaria, abbattutasi prima sugli Usa e poi sull'Unione Europea, assistendo a summit dispendiosi - al termine dei quali è echeggiato soltanto il grido "Si salvi chi può" - abbiamo preso atto dell'inesistenza di un'Europa politica e della impossibilità, per alcuni stati membri (tra cui l'Italia), di rispettare i parametri di Maastricht.

E ora? Ora, abbiamo capito che il Trattato sull'Unione Europea è stato un libro dei sogni, che noi cittadini siamo stati ingannati e depredati per dare vita a un Far West finanziario, all'interno del quale siamo stati - nuovamente! - spennati come polli natalizi, da quelle stesse banche che, con tanta prosopopea, avevano sciorinato professionalità e lungimirante competenza.

Nel Paese, governato da una casta di burocrati ottusi, parassitari e avidi, una middle class impoverita, arrabbiata e priva di prospettive per i propri figli, esige delle spiegazoni.

Erano questi i verdi pascoli incontaminati?
Qualcuno ha barato al gioco. Pesantemente.
Coloro che hanno distrutto il futuro di una generazione, dovranno risponderne?
Oppure no?

venerdì 12 dicembre 2008

Precarietà sotto l'albero di Natale

Mamma smettila! E dai, finiscila!" La voce di mio figlio trasudava fastidio e irritazione.
"Tutto ciò che non riconquistiamo ogni giorno, ogni giorno lo perdiamo. Guarda cosa sta succedendo a livello sindacale. Stanno restituendo le tessere in massa e non capiscono che è un errore" risposi, didattica per deformazione professionale, continuando a stirare.
Uscì, sbattendo la porta.

Ripiegai la camicia. Nel mondo della scuola il sindacato CGIL non aveva mai avuto molto seguito ma, ora, da quando erano stati istituiti i Cobas, sindacati autonomi di categoria, e l'aggravio di ore di lavoro e di adempimenti si era fatto imponente, le tensioni si erano fatte palpabili. Ma erano stati i famigerati “accordi di Luglio”, con i quali CGIL, CISL e UIL avevano accettato, nel 1992, l'eliminazione definitiva della scala mobile a segnare un punto fondamentale di non ritorno.
Ricordavo Trentin con lo sguardo basso il giorno in cui, giustamente, presentò le dimissioni per aver siglato quell'accordo.

Un anno dopo i sindacati confederali si accordarono per un sistema di relazioni sindacali improntato alla collaborazione con le organizzazioni padronali. La chiamarono "concertazione", ma la musica non la scelsero più i lavoratori.
Gli iscritti avevano cominciato a restituire le tessere. Il sindacato s'indebolì. Io mi sgolavo a ripetere di resistere, criticando gli errori che erano stati fatti, ma dall'interno. I lavoratori si sentivano al sicuro: contratti a tempo indeterminato, ferie pagate, maternità tutelata. Assenze per malattia? Pure. Nella scuola non ti avrebbero licenziata anche se avessi passato le tue ore a giocare a carte con gli alunni. ( E qualcuno, anche se pochissimi, lo faceva)C'è un proverbio delle mie parti che dice: "Non tagliarti il naso perchè il sangue casca in bocca"

Criticare dall'interno, ma non lasciare trasparire nulla all'esterno. La dannata litigiosità della sinistra, idealmente migliore e quindi più delicata, vulnerabile, fragile...di fronte a chi, come il mercato al quale si assimila, fiuta soltanto l'odore dei soldi. Comprimere il costo del lavoro per guadagnare di più, ma soprattutto rendere il lavoro flessibile, farlo dipendere dai ritmi di produzione, dal volume delle scorte in magazzino, dalle innovazioni tecnologiche. Ma, Cristo, i bisogni di chi lavora non sono flessibili, almeno non quelli primari. Come il Titanic che si sollevò in diagonale, prima d'inabissarsi, la concertazione portò, in pochi anni a quella tragica legge che va sotto il nome di Legge Biagi, normativa che fece, in pochi minuti, piazza pulita di decenni di faticose conquiste sindacali. Ottima la pensata: data la difficoltà di licenziare trovarono il modo di evitare le assunzioni, istituzionalizzando la precarietà.

Ovviamente la legge fu salutata come validissima soluzione al dramma della disoccupazione.
Ti assumo - si disse al lavoratore - ma per pochi mesi; poi si vedrà. Il rinnovo del contratto ? Dipenderà. Da cosa? Da tanti fattori e qui il discorso si fece fumoso: sei incinta? E no ragazza mia! non ci si dà alla pazza gioia in pendenza di contratto a tempo determinato...Sei bravissima, ti sei impegnata allo spasimo? Hai anche un master? Appena il mercato lo consentirà, ti chiameremo. Grazie e arrivederci.

Grazie e arrivederci, ragazzi che avete pensato che le sicurezze fossero state conquistate una volta per tutte. Le certezze sono, come le banche americane, crollate una dopo l'altra. E non erano birilli. Sotto l'albero di Natale in confezione natalizia, quest'anno bombe a orologeria. A voi, ragazzi, il duro compito di disinnescarle.

giovedì 11 dicembre 2008

Quando c'erano le mie donne...

A chi ha la mia età capita di essere depresso? Capita, capita...ma, tanto.
Ma tanto perché?
Beh, per cominciare non devo tenere alto il livello del mio rendimento sul lavoro.
Infatti sono in pensione. Non rischio nemmeno di contagiare figli e/o mariti: per i fatti loro i primi, divorziata dal secondo; residente altrove il compagno. Se poi non troverò la voglia di farmi due spaghetti, mi farà soltanto bene: al giro vita e al portafogli.

Che siano le avanguardie del trauma da festività natalizia, nonché del rendiconto annuale del 31 dicembre che io, nonostante la mia laurea in economia, non riesco mai a far quadrare, e non soltanto perché il totale a pareggio "sballa"?

"Anno bisesto, anno malsesto" avrebbe sentenziato nonna Angela, che di angelico aveva solo il colore degli occhi, azzurri sì, ma capaci nei suoi momenti migliori di mandare bagliori d'acciaio. Eppure le ho voluto un gran bene e, soprattutto, l'ho ammirata. Donna coraggiosissima, capace di sfidare i benpensanti convolando a nozze con un uomo molto più giovane di lei, dopo aver risposto, ai familiari che la esortavano a riflettere: "El me piasi e me lo ciogo". Esempio perfetto di concisione e determinazione.

Fu lei, come ho già raccontato, a prendersi cura di me durante la guerra, barattando un vestitino da battesimo, ricamato a mano, con due limoni, nel tentativo di arginare una gastroenterite tossica che mi stava mandando al Creatore. Fu sempre lei che tanto fece, e tanto corse e protestò, che un ufficiale medico americano venne a visitarmi e mi salvò, sia dalla morte per dissenteria sia da quella per fame.

Forse perchè nata in guerra, forse perchè allontanata dai genitori piccolissima o, chissà, fatta rientrare in famiglia quando ormai mi ero abituata a considerare mia nonna una madre, io, le feste natalizie, non le ho mai potute sopportare.

Il "cessate il fuoco" di poche ore, giusto il tempo di scartare una maglia di tre misure più grande del dovuto, ringraziare per un libro sui funghi mangerecci (chiaramente riciclato), rimpinzarsi di caviale pseudo norvegese, panettone Bauli al cioccolato, brodo "in terza: cappone, gallina e?" per piombare, in preda alla depressione e appesantita dalla difficoltà di digestione, sul divano del salotto, a ruminare cibo e cattivi pensieri...Beh, mi sembra uno dei tanti modi escogitati dal bipede umano per rovinare la sua già grama esistenza.

Cattivissimi pensieri! dicevo. Almeno ci fosse la nonna o la mamma. No!, mi hanno piantata qui con le spalle scoperte a fare la nonnina 'Jingle bell'. E è già un miracolo che non mi bardino da Babbo Natale con tanto di barba, sacco di doni sulla schiena e aria paciosa, mentre con la voce in falsetto dovrei tentare, quasi sicuramente senza riuscirci, di fingere una voce da nonno buono.

Ci fossero almeno le mie donne a farmi compagnia... Nei momenti duri avevamo la capacità di riderci addosso. Nonna poi avrebbe cucinato come sapeva fare lei e ci saremmo ritrovate davanti ai fornelli a litigare sugli ingredienti, ognuna convintissima della validità delle proprie ricette. E mi avrebbero tirata su di morale sfidandosi in un crescendo di " I omini?" la nonna, e la mamma "Un pegio dell'altro", seguiti da "Meio sole che mal acompagnade" " te vol meter le done? " " La dona tien su tre angoli della casa e...l'omo? "
Nonnina avrebbe risposto: "Nianca un!" E poi il finale a effetto di mia madre - ripetuto, ma sempre valido - "El meio, coparlo!". E io avrei cominciato a ridere e mi sarei fatta
raccontare di quella volta, quella volta in cui...

Sono io, ormai, soltanto io la custode della memoria, diventata, come dice la chanson des vieux amantes, vecchia, ma ancora e ostinatamente non saggia, così poco saggia da immalinconirmi e deprimermi per una una ricorrenza alla quale dovrei aver imparato a dare la giusta valenza.
Dovrei: o viverla bene, tra cadeaux e canzoni di Natale, o sottrarmi alle aspettative, ai rituali, ai condizionamenti consumistici...Mah!

A proposito di "brodo in terza", dovrò chiederlo a mia figlia che, come abilità culinaria, te la raccomando. Beh, il quaderno delle ricette natalizie dove sarà mai? Se la custode della memoria... dimentica, siamo messi male! Mi rimane un dubbio: se buttassimo tutto all'aria? Se mangiassimo un panino e spiegassimo ai bambini che ...?
Non si può?
Non si potrebbe proprio'?

domenica 7 dicembre 2008

Il potere della scrittura.

Nella scrittura, cambiando la realtà ma secondo logiche consequenziali, si rappresenta una dimensione "altra", ma possibile. Realizzando un'ipotesi fantastica, si dà corpo e sostanza ai sogni, fornendo un'altra chiave di lettura e di comprensione della realtà.
Scrivere quindi non allontana dal mondo che ci circonda, ma ci restituisce al mondo con maggiori strumenti di analisi.
La speranza che si nutre di fantasia, realizzandosi anche solo sulla carta, non si traduce in illusione.
Se un uomo non avesse sognato di volare, mai nessuno avrebbe progettato un aereoplano.
Per questo credo, fermamente, nel potere salvifico della scrittura.

sabato 6 dicembre 2008

"Confesso che ho vissuto"

C'è un momento nella vita di ogni persona in cui ci si volta indietro, non una, ma due o più volte " a rimirar lo passo che..." E' in quel momento che cambia il nostro modo di considerare la vita? E' in quel momento che la percezione di avere, ormai, alle spalle la parte più importante e significativa della vita, si fa certezza, facendoci ripiegare, annoiati dai giorni a venire, su quelli appena trascorsi?
Ricchi di passato ma poveri di futuro, anche noi esclamiamo:"Confesso che ho vissuto".
L'ingranaggio della ruota immaginaria, che gira instancabile su se stessa, si è spostato di un dente appena, ma abbiamo già preso il posto che fu delle madri. La loro generazione, le donne passate attraverso la tragicommedia del fascismo e l'orrore della guerra, ha consegnato il testimone alla nostra, la generazione delle donne nate in guerra.
Una guerra della quale ho un solo, ma indimenticabile ricordo: una strada in fiamme - poi mi confermarono che fu uno dei primi, massicci bombardamenti alleati sulla stazione di Udine - urla, polvere nell'aria e fumo. Io, piccolissima, in braccio a mio padre, respiravo quell'odore aspro, indimenticabile, che mai più ho sentito: odore di morte, d'incendi e di case sbriciolate come biscotti. Nell'aria, urla: di uomini e sirene.
Mio padre, un pezzo d'uomo forte come un armadio, che tremava. Troppo presto capii l'impotenza dei genitori. Troppo in fretta crescono i figli di guerra.
Ricordo, ancora, lungo la strada che percorrevo per andare a scuola, a guerra ormai finita, le case sventrate, i pochi muri, crivellati dai fori dei proiettili, rimasti in piedi con le loro pareti dipinte di giallo e rosa e gli oggetti del vivere quotidiano fatti a pezzi, slabbrati e rotti, affioranti dalle macerie.
La violenza della guerra costrinse mia madre, che aveva un'altra figlia maggiore di un anno, a portarmi da mia nonna perchè, fuggire, a tutte le ore del giorno e dalla notte con quelle bambine piccolissime, in braccio o per mano, nei rifugi, era diventato impossibile.
Mia nonna abitava a Monfalcone. Quando i tedeschi, annettendo al Reich la Venezia Giulia, istituirono la Adriatisches Kustenland, e la guerra si fece feroce, i miei genitori non mi videro più.
Mia madre mi riabbracciò a guerra finita: seduta sulle ginocchia di un soldato americano, il suo elmetto in testa, tra due ali di folla in festa... Quando mio padre mi prese in braccio, scoppiai in lacrime, mormorando daddy al soldato americano. Fu lui a salvarmi portando scatolette di cibo e medicinali a mia nonna. I miei genitori non li ricordavo. Erano passati quasi due lunghi e terribili anni da quando mia madre mi aveva portata dalla nonna.
E' anche per questo motivo che odio la guerra, che - visceralmente - la detesto?

venerdì 5 dicembre 2008

Il diario è morto, viva il blog

Noi scribacchini del web - fino a pochi anni fa limitati nella nostra passione per la scrittura dall'esiguità di un foglio, dalla difficoltà delle correzioni ma, soprattutto, inchiodati alla segretezza dei nostri scritti - oggi abbiamo il blog.
Li ricordate i tempi oscuri in cui eravamo obbligati a fingere di aver dimenticato il diario aperto sulla scrivania, perché qualcuno ci mettesse il naso e leggesse quanto avevamo scritto?
Ci rammarichiamo,ora, di non avere commentatori ma, allora, alla lettura nessuno avrebbe potuto far seguire un commento. Tutt'al più qualche battutina sferzante e delle occhiate di sghembo.

Chi aveva questa mania, questa dipendenza dalla parola, scribacchiava, inoltre, ovunque gli capitasse: dalla grossolanità becera delle scritte vergate sulle pareti dei gabinetti, alla goliardia delle frasi incise sui banchi, alle disperate parole di commiato lasciate sui muri delle celle da chi pronto a partire, intuiva che non sarebbe più tornato... fino alla fantasmagoria di colori, alle lettere-disegno dei graffiti metropolitani, dove il bisogno di lasciare traccia di sé ha reso i muri grigi delle grandi città scenografie infuriate di giovanili disagi.

Se la scrittura è il varco che fa affiorare rabbia, dolore, angoscia ed ebbrezza, è il blog che accoglie e rende pubblico il tutto, facendo piazza pulita di una bugia conclamata, la bugia che vedrebbe colui che scrive farlo per sé stesso, per capire e capirsi. Oh no!, si scrive per essere letti e il blog, con le sue regole, i tag, l'iscrizione nei motori di ricerca e le altre mille diavolerie che sottintende, ha come obiettivo prioritario quello di dare visibilità all'autore.

Alcuni blogger piacciono più di altri, vengono letti e commentati da molti. Il blogger diventa una star della blogsfera. Un po' si esalta. A chi non succederebbe? La notorietà lo sfiora, ma ecco che un'altro blogger gli ruba la scena. Scatta la competizione e, se la concorrenza abbassa il prezzo e migliora il prodotto, anche i blog, in concorrenza tra loro, migliorano, o dovrebbero migliorare, lo stile, la grafica e i contenuti.

Scrittori e scrittrici, che avrebbero riposto "nel cassetto" i loro romanzi, li mettono su internet, invitando al download. Nascono gli e-book. Si leggono gratuitamente notizie, commenti, favole, racconti e romanzi. Scricchiola sinistramente il potere degli editori.
Quali cambiamenti ulteriori ci aspettano?
Difficile dirlo, anche perchè, quasi in tutti i campi, le previsioni vengono smentite dai fatti. A mio avviso, questo bellissimo giocattolo per adulti che il blog è continuerà, imperterrito e ancora per molto tempo, a raccogliere consensi.
Leggete, se l'argomento vi interessa:Marco Freccero

giovedì 4 dicembre 2008

nostalgia

Avanti e indietro, trascinando la sua inquietudine,
la mia gatta miagola noia e voglia di uscire.
Oltre il vetro, un cielo di neve scende, opprimente,
a rinserrare giornate che il buio ingoia a bocconi e morsi,
strappandole alla luce che balugina incerta.
L'inverno mi esplode dentro, freddo come lama di coltello.
Tra poco, assurde come un belletto troppo acceso su gote casacanti,
risplenderanno le luminarie natalizie.
Sarà il primo Natale senza mia madre.

sabato 29 novembre 2008

In bocca al lupo, Obama!

Che Presidente sarà Barack Obama? Intorno a lui si sono coagulate speranze eccessive, destinate a trasformarsi rapidamente in speranze deluse e quindi illusioni?
Razionalmente mi chiedo cosa possa fare un uomo, un uomo solo, anche se affiancato da uno staff, più o meno valido, in un momento storico così difficile? Anche Hitler era un uomo solo, ma ciò che gli permise di sconvolgere il mondo fu che si fece interprete della rabbia, dell'orgoglio offeso e del desiderio di rivincita di tutto un popolo...
Ora alla Casa Bianca arrivano curricula da tutti gli States. Gli americani vogliono lavorare con e per Obama. Se lui rappresentasse l'uomo giusto al momento giusto, se incarnasse il bisogno della parte migliore del Paese di voltare pagina, di uscire dalla palude irachena, di ripristinare regole comportamentali nei mercati saccheggiati dai pirati finanziari?
L'America nera di pelle sarà con lui? Non lo tradirà? E lui non tradirà i fratelli?
E L'America nera di cuore: i petrolieri, i fabbricanti di armi, i politici corrotti, i banchieri corruttibili...Riuscirà a tener loro testa?
In bocca al lupo, Obama!Un uomo solo può fare disastri, ma anche miracoli, se ha un popolo dietro.

giovedì 27 novembre 2008

Mamme in cattedra

Nel mio precedente post ho accennato alla femminilizzazione della scuola, riferendomi alla classe docente. Negli ultimi anni del mio insegnamento i miei, e non soltanto i miei , consigli di classe erano formati quasi esclusivamente da donne e, fino qui niente di male, anzi qualcuno potrebbe anche dire niente di meglio...
Le donne hanno, spesso, maggior spirito di sacrificio, almeno così si dice. E si vede.
Chissà come mai?
Le donne sono più accoglienti, più comprensive. Da cosa dipenderà?
Le donne sono più sentimentali, oppure no?

Poche insegnanti sono iscritte al sindacato. Ne ricordo pochissime che aderissero agli scioperi, scioperi sacrosanti a tutela di una qualità dell'insegnamento che si andava pericolosamente deteriorando. Quante volte ho sentito la frase:" Mio marito è contrario".
Il poco considerato lavoro del docente è, in realtà, molto importante.
La scuola dovrebbe, affiancandosi alla famiglia, educare.
I ragazzi ci guardano, a volte passano più ore con alcuni insegnanti che con i familiari.
Ci osservano e ricordano tutto, anche i più distratti!

Si educa con la pazienza ma anche con il rigore. Si educa al rispetto delle regole. Che devono essere eguali per tutti.
" Ma sono ragazzi! Non si sono resi conto, lasciamo perdere"
Frasi sentite decine di volte fino alla più emblematica e problematica "Per me sono come i miei figli!"
Il nodo della maternità che si ripresenta a ritmare, a modificare l'operato di noi donne.
" Sai la collega d'italiano non ha figli, non capisce!"
" Si vede che lei ha figli, professoressa ".

Ma le regole, la preparazione e la competenza professionale non dovrebbero prescindere dalla nostra condizione di madri?
In cattedra siamo madri o insegnanti?
Secondo me dovremmo essere insegnanti perchè di madri ne basta, e a volte anche ne avanza, una.
Se poi la nostra esperienza di persone si è arricchita dell'esperienza materna, ben venga.
Ma la scuola non è una succursale della famiglia, è l'alternativa alla famiglia, o dovrebbe esserlo. Quindi la scuola rappresenta il primo contatto con quello che sarà il mondo, dove ci si dovrà comportare in un altro modo, dove ci saranno anche gli altri, dove gli spazi di libertà dovranno o dovrebbero essere eguali per tutti, dove non saranno figli e figlie, ma uomini e donne.

Con padri (in famiglia), impegnatissimi nel lavoro, e insegnanti (a scuola), troppo spesso chiocce, sono venuti a mancare punti di riferimento troppo importanti, soprattutto per gli adolescenti maschi.
Quando valutando la preparazione, mai l'alunno, gli appioppiamo un quattro, sarà normale che la madre anche lo consoli. A noi docenti, invece, dovrebbe spettare il compito di superare o perlomeno affrontare altre problematiche: di apprendimento, disinteresse o altre difficoltà che potrebbero giustificare l'impreparazione del ragazzo.

Altro spinoso problema legato alla femminilizzazione del corpo docente: la mancanza del senso di appartenenza a una categoria specifica, l'orgoglio del proprio lavoro, la coscienza della sua rilevanza all'interno della società. Coscienza da cui dovrebbe scaturire la 'pretesa',più che legittima, di migliorioramenti salariali.
Quante volte ho sentito quel "mi accontento"o "la cosa importante è poter conciliare lavoro e famiglia, tanto mio marito ha uno stipendio abbastanza buono". Le donne si "accontentano", e vivono la professone come una missione. Eh sì perchè la donna è, o dovrebbe essere, anche caritatevole. Dovrebbe darsi senza chiedere nulla, o poco, in cambio. Abituata al lavoro domestico non retribuito non ha ancora acquisito una coscienza lavorativa e professionale.

Spesso ho sentito borbottii nei corridoi, ma che qualche insegnante presentasse una protesta scritta o venisse presa la decisione di delegare qualcuna per far presente un'istanza della categoria...Quando mai?

Preciso che ho conosciuto insegnanti validissime: preparate, appassionate nello svolgere il loro lavoro, consapevoli dell'importanza sociale del loro operato e... battagliere! Ma, purtroppo poche, ancora troppo poche per dare una connotazione diversa e valida all'intera categoria.
Di chi le responsabilità?


Onestamente, pur se giustificate dal vissuto femminile e legate a condizionamenti difficili da modificare, alcune responsabilità sono anche personali.

martedì 25 novembre 2008

Parlami d'amore, Mariù


In un mio intervento sul post pensieri scorretti e inopportuni di Loredana Lipperini, concludo dicendo che è assolutamente necessario che il dibattito sulla questione femminile, riprenda e riprenda con forza.
Ogni giorno una donna viene uccisa o massacrata di botte, quando non viene ridotta in miseria da ex mariti che non pagano gli alimenti. La violenza sulle donne non è soltanto quella esplosiva che viene, per rassicurare e rassicurarci, ingabbiata nella follia del 'raptus', è anche quella strisciante, fatta di commenti idioti che ingabbiano le donne in oggetti di desiderio, in bamboline belle da guardare, in donnette incapaci di raziocinio, in isteriche sull'orlo di una crisi di nervi.
Ma il rischio maggiore è che, quasi per osmosi, questo stereotipo femminile, con il quale siamo obbligate costantemente a misurarci, s'insinui subdolamente anche nel cervello e nel corpo della donna. Come una pubblicità invasiva, pervasiva di ogni spazio. Martellante!. Che donna occhieggia dai rotocalchi e dagli schermi televisivi? Che donna inseguono gli sguardi maschili? Di cosa parlano le donne quando sono tra loro? Di politica, arte, filosofia, musica e letteratura?
Origliate donne, origliate...
Parlano di cellulite e di diete, di liposuzione e... di uomini? Magari! Parlano di amori non corrisposti, di amori-camere a gas, di amore - bisogno.
Parlano, insomma, di pene d'amore, di lacci e lacciuoli amorosi.
C'è qualcosa in tutto questo che non mi quadra.
Vogliamo cominciare - o ricominciare - a parlarne? Seriamente?

giovedì 20 novembre 2008

La sicurezza sui treni? Costa e in tv non fa audience

L'altra sera, alle 21.10 sugli schermi de LA7, Ilaria D'Amico, a Exit, furoreggia come sempre, mostrando il profilo grintoso al quale molti, ma per fortuna non tutti i presentatori-conduttori dei programmi di denuncia, si sono ormai adeguati.
Lentezza, sporcizia e ritardi sono le principali lamentele dei passeggeri dei treni?
E' sicura, signorina Ilaria, che nel vostro blog, correlato al programma, non si fosse parlato d'altro? Certamente i passeggeri continuano a viaggiare in ritardo e, come se non bastasse, su treni, spesso, lerci. Ma, anche se in ritardo e non proprio lindi, quei passeggeri, delle cui proteste si è fatta, giustamente!, paladina, a casa ci sono arrivati.
Veronica, invece, a casa non è più tornata.
La stazione era piccola, la pavimentazione scivolosa, chi avrebbe dovuto annunciare quel treno in arrivo dov'era? Era andato a prendersi un caffè? Dormiva, leggeva un giornale o chiacchierava? Veronica, forse, stava ancora ridendo per quella scivolata quando quel maledetto treno si è materializzato, troppo veloce anche per l'agilità e la forza di una diciassettenne.
La morte, in prima serata, si mima, come la fame per i protagonisti dei reality. Non si può sbattere in faccia ai telespettatori, si sa.
Abbiamo già tanti problemi, non possiamo aggiungere anche questo timore, ai tanti che già li tormentano, ai genitori dei ragazzini che fanno i pendolari e che usano il treno perchè è un mezzo considerato sicuro.
Che pubblicità sarebbe per Trenitalia? Finchè si scherza va bene, ma non dimentichiamoci che è sull'alta velocità che volteggiano milioni di euro che possono scatenare appetiti voraci...
Su questo increscioso incidente è prreferibile stendere un velo. Di silenzio, innanzi tutto.
Ma lei, signorina Ilaria, è sicura si sia trattato soltanto di 'un'imprevedibile e tragica fatalità'?

domenica 16 novembre 2008

La que sabé

Mi chiedo quale impatto avrà l'attuale gravissima crisi economica, non in generale, ma sulle donne e, soprattutto, sulle giovani donne.
Cresciute a pane e femminismo, molte - anche se non tutte - da madri lavoratrici, sessualmente liberate dalla pillola, dall'aborto legale, tutelate dalla legge davanti a mariti mascalzoni, libere di convivere con i compagni o di scegliersi una compagna...fruitrici, quindi, anche se apparentemente inconsapevoli, delle sicurezze originate dalle lotte delle loro madri.
Apparentemente.
Ricordo, io che sono già nonna, la mia vita "dalla parte delle bambine": i fiocchi, la vanità indotta, le bambole e i giochi- nel ruolo di mammine - la pazienza e la ritrosia insegnate, la rabbia, l'orgoglio e l'intraprendenza osteggiate, mal viste. Ricordi comuni a molte donne della mia generazione.
Eppure...
Eppure il femminismo, lungi dall'essere una rivoluzione copernicana (non volevamo comandare al posto degli uomini, volevamo rapporti paritetici) e pur conseguendo obiettivi importanti con leggi innovative, ha cambiato tutto per non cambiare nulla, o quasi nulla.
Voi, figlie che avete studiato, vi siete laureate, superando addirittura numericamente i laureati maschi, e, vantando master nei vostri curricula, avete intrapreso carriere inserendovi in professioni,ai miei tempi, inimmaginabili al femminile, siete diverse.
Eppure...
La sottoscritta si laureò in economia e commercio a Trieste, la città che vantava il primato delle donne più libere di tutto il Mediterraneo. Rapporto tra iscritti maschi e iscritte femmine? Uno a dieci, quello che oggi è proprio di facoltà come Ingegneria. Il primo e più brillante laureato del mio gruppo fu una donna. Ogni tanto leggo il nome di alcuni dei miei compagni di università sui giornali e scopro che sono ai vertici di banche, assicurazioni e imprese. Uno è diventato rettore. Magnifico! il rettore, nonché la situazione.
Noi, le laureate del gruppo, abbiamo fatto tanti figli, credo(?) tanti sogni e quelle che non hanno riposto la laurea in un cassetto accanto alle camicie ben impilate dei mariti optando per l'insegnamento, hanno contribuito a quella femminilizzazione della scuola - già abbandonata dai maschi protesi alla ricerca di professioni meglio remunerate e più gratificanti - che non pochi danni ha prodotto. Ma questo è un altro argomento spinoso che non voglio approfondire in questo momento.
E allora?
Allora ho seguito con grande interesse (e affetto!) figlie, amiche delle figlie, conoscenti, parenti, insomma il variegato mondo femminile, giovane che mi circonda, scoprendo che l'avanzamento di carriera lo fa il maschio. Non sempre, quasi sempre. (E' buona norma rispettare una quota rosa). E, a proposito di colori: se arriva un bambino il futuro si colora di nero. Sì, perché mentre voi, le nostre ragazze, vi cullavate sugli allori di presunte sicurezze acquisite, altre leggi venivano varate e, sotto sigle da filastrocca come co.co.co e simili amenità, si reintroduceva il licenziamento (camuffandolo come mancato rinnovo di contratto). Anzi l'astuzia è stata tale da inventarsi una legge che mettesse fuori legge le assunzioni!
Vuoi un figlio? Stai a casa, ché il calore e l'affetto di una madre sono insostituibili.
E' vero ma, soprattutto, in un momento come questo, tralasciando la cronica assenza di supporti validi per le madri lavoratrici, è comodo.
Ragazze di belle speranze, la matematica non è un'opinione: se non c'è lavoro per tutti, chi pensate che dovrà rinunciarvi? La mistica della maternità, gettata fuori dalla finestra, rientrerà dalla porta. E con tutti gli onori. Si alleeranno politica e chiesa e, last but non least, i maschi che nella lotta all'ultimo sangue per avere un lavoro non saranno cavalieri e tutto grideranno fuorché "prima le donne e i bambini".
E allora ragazze di belle speranza: rimboccatevi le maniche! La lotta è appena cominciata e non credo sarà meno cruenta di quella sostenuta dalle vostre madri. Sì, perché dovrete lottare contro voi stesse (i condizionamenti culturali sulla maternità, sulla femminilità, sulla sessualità stanno invadendo di nuovo, come una marea nera, lo spazio intorno a voi) contro i maschi (non tutti, grazie a Dio!, ma molti) contro...Contro tutto? Sì, temo. Vi sia di conforto sapere che siete e siamo forti e che " dopo che tutto è andato o sembra perduto, le donne ridipingono di azzurro le pareti e accendono il fuoco..." perché la donna è "la que sabé" .
Che cosa sa?
Da portatrice di vita, sa che la vita continua.
Deve, comunque, continuare.

venerdì 14 novembre 2008

Che Paese è?

Abitavo ancora a Milano nel 2001. Ricordo l'indignazione che mi fece uscire da casa e raggiungere, in pochi minuti, Piazza Duomo. Arrivava gente da tutte le parti: donne, uomini e ragazzi.
La rabbia e lo sdegno si respiravano, palpabili. Non c'era stato bisogno di indire una manifestazione: tutte le persone che incominciavano a riempire la piazza avevano capito che era successa una cosa gravissima, che non si poteva aspettare, tergiversare. Bisognava schierarsi subito, tanti se non tutti, per difendere una democrazia fragile nei fatti ma ancora forte nelle norme a sua tutela. Avevamo negli occhi le immagini di una violenza inaccettabile e talmente assurda da sembrare ridicola: i poliziotti avevano preso a manganellate ragazzini reduci da adunate in Piazza san Pietro in onore del Papa, tranquille vecchiette con la messa in piega inzaccherata di sangue erano state inquadrate dalle telecamere, la bocca spalancata forse più dalla meraviglia che dal dolore. E il peggio si stava appena preparando, "la lezione" più dura, quella che avrebbe dovuto far passare definitivamente la voglia di protestare, era stata già decisa. La caserma di Bolzaneto e la scuola Diaz erano ancora una scuola e una caserma. Come tante.
Chi ha pagato per ciò che è successo in quella scuola e in quella caserma?
Dopo 7 anni ci dobbiamo accontentare di quanto segue?
" Assolti i vertici della Polizia e condannati gli uomini del Reparto Mobile sperimentale antisommossa che, per effetto della prescrizione, non sconteranno la pena? "

giovedì 13 novembre 2008

Erano altri tempi e ... altri uomini.

Ero una bambina e la guerra era finita da poco. L'aria sapeva di castagne abbrustolite e di neve, incerta sul da farsi. Ancora, in prossimità del Natale, arrivavano gli zampognari e noi bambini venivamo mandati a dar loro un po' di soldi, frutta secca o strudel di mele...
Mio padre, sindacalista alla Telve, esortava i suoi operai a non mollare. Lo sentivo arrivare tardi, alla sera, strofinando i piedi sullo zerbino dell'ingresso. Poi, stridula, si levava la voce di mia madre. Discutevano, accalorandosi. Coglievo qualche parola, ogni tanto: le bambine... un Natale senza regali...te la faranno pagare cara, hai famiglia, tu!...
Il giorno di Natale arrivò mia nonna. Entrò con aria risoluta, le braccia piene di pacchetti.
Disse che il Bambin Gesù si era fermato a casa sua. Mia sorella e io fingemmo di crederle.
Stavamo scartando i regali quando arrivò mio padre. Si avvicinò, raccolse carta e bambole e le ficcò in una sporta che consegnò alla suocera dicendo: "Non hanno regali i figli dei miei operai, non li avranno nemmeno mie figlie. Vinceremo soltanto se saremo uniti..."
Mia nonna lo fulminò con un'occhiata di ghiaccio, mia madre trattenne il fiato e noi bambine scoppiammo a piangere.
Lo sciopero durò oltre un mese, mio padre venne trasferito per punizione in un'altra città e, ricordo, non ebbe mai più un avanzamento di carriera, ma la soddisfazione di siglare un ottimo contratto per il settore dei postelegrafonici, quella non gli mancò.
Questo episodio della mia infanzia mi è tornato alla memoria, ieri, sentendo le parole di Epifani. E' gravissimo quello che è successo, è politicamente gravissimo! Mi riesce, inoltre, difficile sorvolare sulla mancanza di solidarietà dei rappresentanti degli altri sindacati. Ben dovrebbero sapere che si può vincere solo uniti e che indebolire il sindacato può soltanto avvantaggiare il governo, in un momento storico in cui il mondo del lavoro è diventato uno degli ultimi gironi dell'inferno.
Scorretti e, come se non bastasse, ottusi!
E' proprio vero che "on n'est pas trahì que par le siens!"

mercoledì 12 novembre 2008

La fragilità del possesso

Che strano: smettiamo di lottare per ottenere ciò che desideriamo e, oplà, ci casca in grembo.
Perché? Può accadere per le cose o le persone, tanto che un vecchio adagio recita "in amor vince chi fugge". Forse ci appassionano l'impegno della lotta, l'elaborazione della tattica e lo studio della strategia, facendoci sentire vivi? Oppure il desiderio di possedere ciò che ci sfugge e l'avidità dell'avere ci rendono meno riflessivi, facendo percepire a chi ci sta accanto la nostra vulnerabilità? Non lo so ma, spesso, per quanto mi riguarda, ho notato che smettere di "remare contro", lasciandosi andare alla corrente, consente una consequenzialità degli eventi che la nostra logica intrusiva altera. E si arriva così a intuire la superiorità del distacco perchè, comunque, nulla o quasi ci appartiene e, men che meno le persone, rese ai nostri occhi interessanti proprio dalla loro autonomia e individualità che ci concedono quello scambio che solo ci può arricchire. Stringere tra le dita una farfalla non darà mai la sensazione di vederla volare.., eppure quanto soffocante può essere un rapporto d'amore, quanto asfissiante una casa stracolma di oggetti, quanto stressante una giornata piena d'impegni.
Chi non ha più nulla da perdere, perchè ha già perduto tutto, è molto pericoloso perchè non ha più catene. E' libero: di fare, di dire e di pensare. Quindi, per assurdo, i più forti sono coloro che non hanno più nulla. Questo è uno dei motivi che mi indurrebbero a non sottovalutare la protesta givanile, se fossi uno dei politici che ci governano.
Viviamo in una società basata sulla proprietà, sull'accumulo di beni ed esperienze, una società che ha inventato un'economia fatta di carta straccia che ha dato un'illusione di ricchezza, di opulenza immaginata e immaginaria che, nel giro di pochi mesi, si è dileguata come neve al sole.
Forse questa crisi ci aprirà gli occhi sull'inutilità e la fragilità del possesso.
Forse.

martedì 11 novembre 2008

La scrittura è una malia...

Eccomi di nuovo a fare i conti con la scrittura. E' da qualche giorno che l'ho abbandonata, lasciata lì derelitta e sola in un angolo. Come un figlio, amato troppo e quindi male, la osservo di sfuggita, di soppiatto, ne prendo le misure. Né con lei, né senza di lei...
Mi accorgo che è una dipendenza, un modo di essere, una scelta di vita. Incapace di sottrarmi alla malia delle parole, a quel richiamo di sirene omeriche che cantano accompagnate dal suono delle onde o della risacca, io ne faccio catene che m'imprigionano o ali che mi fanno volare.
Con le parole scivolo in altre vite, mi calo in personaggi sconosciuti, ne mimo i sentimenti, sfuggo agli schemi di una vita sola e una sola vita che, a volte, mi sembra modellata da altre mani, animata da altri ideali, ingabbiata in regole che mi sono estranee.
Senza parole sarei un gatto che modula suoni fissandomi con occhi di tigre, grandi e immoti come laghi senza brezza, sarei un cane, espressivo ma muto, sarei un uccello, canterino ma ripetitivo...
Con le parole sono una donna che riflette, una ragazza che ride, una vecchia stanca che impreca,
una madre immemore e una moglie astiosa. Sono mare e marea, vento e tempesta, acqua e fuoco nelle sere di novembre che annunciano l'inverno, qui tra le brume della pianura padana, dove gli elfi e le streghe danzano nelle notti di luna piena...

venerdì 7 novembre 2008

E' successo!

E' successo!
Obama è il Presidente degli Stati Uniti d'America.
Rifletto: soltanto quando si tocca il fondo, si fanno errori gravissimi e la sensazione di essere perduti si fa certezza, all'orizzonte si profila la via d'uscita, la porta aperta della cella dalla quale il topino o i topini (di Laborit) riusciranno a fuggire.
Si chiama coraggio della disperazione. Credo che ognuno di noi ci sia passato, almeno una volta nella vita.
Ora tutto il mondo lo guarda, attendendolo al varco delle decisioni, difficilissime, che dovrà prendere. Ce la farà Obama?
La mia impressione, ossservandolo durante i comizi, scrutandolo nelle immagini che, ora, a getto continuo, la televisione di lui ci fornisce, è di avere di fronte un uomo estremamente determinato, appassionato ma abituato a lottare per vincere, a elaborare strategie e cesellare tattiche. Alto, sciolto nel passo ma attento, ferito dalla vita quel tanto che basta a dare un'esperienza del dolore, ma senza deprimere o fiaccare.
Non sembrava stupito per la vittoria ottenuta, quasi l'avesse prevista.
Non aveva un'aria arrogante da self-made man, non era era esaltato dalla vittoria...
Sembrava piuttosto avere già archiviato il successo ottenuto, quasi il suo sguardo si puntassesu altri obiettivi, ben più difficili da conseguire. Sulle labbra il sorriso di sempre.
Speriamo che nessuno spenga il suo sorriso.
Tanti auguri, Obama!

sabato 1 novembre 2008

Linka tu che linko anch'io. No, linko solo io

Perché iscriversi - che ne so - a un Blogbabel, Migliorblog o Technorati?
Io, al di fuori della mischia per l'età che ho, sono stata spinta dalla curiosità, dalla voglia di capire una tendenza attraverso un mezzo evoluto.
Credo che stilare una classifica di merito non sia facile. Presumo si parta individuando dei parametri. Quali? Stabiliti con quale criterio?
Piacere, a chi ci sta intorno, gratifica. E' innegabile! Ci vestiamo, ci trucchiamo (noi donne), ci atteggiamo, studiamo, leggiamo per sapere, per capire, ma anche per suscitare ammirazione.
Quindi è innegabile che un parametro che tenga conto dell'ammirazione che suscitiamo con il nostro operato sia da individuare. Per un blog la frequenza con cui veniamo letti è un parametro da considerare.
Ma, piace ciò che è bello o è bello ciò che piace?
Con la seconda ipotesi un Berlusconi, votato dalla maggioranza del Paese, risulterebbe essere il migliore tra i leader in lizza...
Ho notato che i post si vanno omologando come linguaggio: stile veloce, incisivo, molta ironia, qualche c....o di rigore e un vaffan.. che non si nega a nessuno. Ricordo che, a scuola, gli insegnanti peggiori privilegiavano gli allievi che li scimmiottavano.
La diversità attrae, ma inquieta: è poco gestibile, non controllabile e l'autonomia di giudizio o d'azione, come le donne troppo belle, desiderate da tutti, non è amata da nessuno.
Quanti sono stati gli artisti che, rompendo con la tradizione, non sono stati compresi? O compresi solo da pochi? Sono le avanguardie che cambiano il mondo. E' lo sparuto gruppetto degli esploratori, che avanza nelle terre "abitate dai leoni", che allarga e modifica i confini degli imperi. Consegnarsi quindi, calzati e vestiti, al giudizio dei più è sempre corretto? E perché tenere dietro a tanti blog di poco conto se i post di cui si discute risultano nove volte su dieci scritti dai primi 100 blog in classifica? Non è che i tanti servano a dare lustro ai pochi? Il terzo su 18 mila non fa lo stesso effetto del terzo su 100.
I blogger di serie b, c...fino alla z costituiscono lo strascico che dà lustro ai blogger di serie a. E un contentino ogni tanto si può sempre dare, anche se risulta di difficile comprensione un punteggio assegnato a post (sempre gi stessi!) ritenuti scarsini per 4 giorni e validi il quinto. Il post non è come il vino: non migliora invecchiando!
Mi è capitato di vedermi nominata per aver citato un blog ritenuto valido.
Linka tu che linko anch'io? No, non funziona così: linko solo io. L'età e la professione mi hanno insegnato molto, anche se, ovviamente, non tutto, ma una costante si è sempre delineata, davanti ai miei occhi: la presenza di molti, al lavoro, per il vantaggio di pochi. Anche in borsa chi sa esce prima che entrino le casalinghe di Voghera, senza le quali però non si avrebbe quella oscillazione del valore dei titoli che consente ai big di rientrare ottenendo alti guadagni. Anche qui la massa modesta fa brillare i pochi che la sanno lunga.
Mi chiedo: perchè fidarsi del giudizio di chi non si considera valido? Forse perchè serve? Perchè è utile, e ciò che è utile è spendibile? In cambio di che cosa? Qualcuno ha l'occhio lungo e la tecnologia tempi veloci. Velocissimi, tanto veloci che il futuro è già qui.
Meglio attrezzarsi?
Quanto tempo ci vorrà perché Internet soppianti giornali e televisione cambiando tutto per non cambiare nulla nella terra dei gattopardi?

mercoledì 29 ottobre 2008

La casa dalle novantanove stanze

Era da molti anni che non tornava laggiù, nel paese a qualche chilometro da L'Aquila. La giornata autunnale incappucciava di nebbia grigia le montagne che, imponenti, si ergevano dando la scalata al cielo, dove nuvole temporalesche si stavano addensando. Qualche borbottio di tuono solcava l'aria, rimbalzando sulle pareti rocciose che ne restituivano l'eco amplificata, sotto quel cielo che si faceva sempre più basso e opprimente mentre la macchina saliva verso il paese che, quasi si trattasse di un'illusione ottica, appariva e scompariva nella nebbia che scivolava, sbavando, sulle case di pietra scura, le stalle, gli ovili, gli orti dove, stitica, cresceva l'ultima insalata.
Accese in macchina il condizionatore per difendersi da quel freddo umido, stagnante che la riportava, tornante dopo tornante, a quel paese aggrappato alla montagna, a quelle contadine nero vestite che si erano consumate nelle stalle e negli orti, borbottando preghiere, maldicenze e scongiuri.


Guidava, assorta nei suoi pensieri, lasciando scivolare lo sguardo sui prati umidi appena arati, interrotti da brevi filari di alberi che, invano, con le loro chiome ingiallite dall’autunno, cercavano di rompere la sequela ininterrotta dei grigi.
Qua e là, a casaccio, mandorli e qualche casolare isolato. Nell'aria, a tratti, l'abbaiare dei cani da pastore e un digrignare appena intravisto di zanne che aggredivano il nulla.
Cosa cercava in quei luoghi che la lunga lontananza le aveva reso estranei? Cosa c’era ancora da capire? Fino a quel momento aveva tentato soltanto di dimenticare, ma la telefonata del giorno prima, annunciandole la morte del marito, aveva dato la stura ai ricordi.

La macchina aveva ora imboccato una strada in salita che costeggiava altri prati brulli, altri terreni dai quali si levava, svaporando, un umidore lieve come un fiato a velare la geometria lineare disegnata dai vigneti ormai spogli.
Le prime case del paese emersero dal grigiore, obbligandola a rallentare. Se non ricordava male, la strada finiva nella piazza principale, racchiusa tra la chiesa barocca, la farmacia a sinistra, il bar dell'angolo con la striminzita tettoia che ne riparava i tavolini sbilenchi, il negozio di alimentari e la grande casa che, immobile e maestosa, delimitava la piazza nell'ultimo tratto. Tutto era come allora, nulla sembrava aver interrotto il letargo abituale del luogo.


I sette portoni in legno massiccio, dai battenti d'ottone finemente lavorati che terminavano in teste di leoni, consentivano ancora l'accesso alle varie parti dell’edificio, conferendo al palazzo, nonostante il suo aspetto polveroso e le chiazze scrostate dall'umidità che ne svilivano la facciata, un tratto d'indiscutibile bellezza ed eleganza.
Bussò.
Nessuno rispose.


Fece rimbombare nuovamente il battente: un calpestio ruppe il silenzio della piazza
confondendosi con il singhiozzo stizzito di un chiavistello poco oliato. Il portone si schiuse, cautamente, su un volto di donna dall'espressione diffidente. Si misurarono con lo sguardo; poi, su quella faccia da contadina scurita dal sole affiorò un ossequio cerimonioso. "Donna Chiara, mi scusi, non immaginavo fosse lei. Quanti anni, quanti anni..." esclamò la donna, facendosi da parte per farla entrare, e precedendola poi nell'ingresso fiocamente illuminato, nel salottino, nella stanza della televisione, per fermarsi, infine, cedendole il passo, davanti alla porta del "salotto buono ", sempre continuando a parlare e a scuotere la testa per evidenziare la sorpresa che la sua vista le aveva procurato.

Lei non la stava più ascoltando, troppo impegnata com’era a guardarsi intorno, stupita di ritrovare tutto come lo ricordavo: le grandi poltrone ricoperte di cretonne a fiori, il pianoforte nell'angolo, il caminetto - che era solita vedere acceso - e, perfino quella gigantografia di suo figlio bambino, ancora appesa nello stesso posto, con infilato nell'angolo il santino di santa Rita che sua suocera aveva fatto scivolare tra il vetro e la cornice, mormorando:"Se non ci riesce lei a cui ci si rivolge per i miracoli impossibili..."
Anche l'odore era lo stesso: di mobili vecchi, di pagine ingiallite di libri mai letti, di vite andate in fumo, ridotte, come legna troppo secca, in cenere. Sovrastante su tutto, il profumo della cera per pavimenti, che faceva brillare, oggi come allora, il parquet tirato a specchio.


E' aspro, tenace – pensò - l'odore dei ricordi, riconoscendo anche quella tonalità di luce che ancora, immodificabile, filtrava obliqua dagli scuri socchiusi, infilandosi tra i tendaggi tirati: la stessa luce che aveva visto impreziosire le cattedrali e che, con il silenzio, invitava al contegno, al controllo imposto dalla sacra maestosità del luogo. Come allora, disseminate per le stanze le fotografie, in camicia nera, del Grande Assente, il padre di suo marito, morto in Russia durante la Seconda guerra mondiale.
Sul pianoforte fotografie del Duce, una con dedica.


"Vuole un tè? Si vuole rinfrescare?" e, senza darle il tempo di rispondere "Non è cambiata sa..."
La guardò seccata, ritrovando il fastidio di sempre per quell' ipocrisia di facciata, ma non rispose, limitandosi ad un cenno d'assenso.
“ E’ stato un infarto: era seduto alla sua scrivania.. “ mormorò fissandola Palmina.
“Ma come è successo?” le chiese.
“ Non ho toccato nulla. Stava guardando delle carte. Aveva appena ricevuto una lettera. Il signorino Aldo come sta? Sarà, è un uomo, ormai, che Dio lo protegga”
Poi aggiunse, ma lei, di nuovo, non la stavo più ascoltando “ Per sua fortuna, donna Marias ci ha lasciati. Almeno questo dolore le è stato risparmiato: aveva già sofferto tanto per la morte del marito. E poi l’incidente del signorino Aldo…”
Pronunciando queste parole la domestica la guardò, insolente.
“ Quando lei… quando ritornò a vivere al Nord, donna Marias dovette affrontare lo scandalo, le chiacchiere del paese. Qui non è come da voi, le donne sopportano, fanno finta di non vedere “.
“ Lo so “ lei rispose.
“ Eh, gli uomini, maschi sono! Ma a lei voleva bene il dottore. Teneva la sua fotografia sul comodino, sa. C’è ancora. Venga a vedere, venga a vedere” aggiunse precedendola verso la camera da letto.


Passò nel salone, scivolando, come allora, sotto lo sguardo degli antenati immobili nelle loro cornici dorate: l'ammiraglio era ancora lì, il petto tronfio d'orgoglio e decorazioni, il prelato, il volto atteggiato ad una bonomia compunta, si accarezzava il ventre prominente, la zia Colomba la fissava con puntuti occhietti da falco - mai nome fu meno adatto -, non potè fare a meno di pensare, riconoscendo quegli stessi occhi che allora, tanto tempo fa, erano scivolati, colmi di disprezzo, sul suo viso intonso di ragazzina.
Era arrivata da una città del Nord del paese che vantava le donne più libere di tutto il Mediterraneo: donne abituate a reggere la famiglia in assenza degli uomini che andavano e venivano su navi cariche di ogni ben di Dio, restando giusto il tempo necessario per ingravidare le mogli, scaricare la mercanzia e andarsene in tutta fretta in uno sventolio di fazzoletti e lacrime, salate come il mare della sua infanzia.


La prima volta in cui aveva messo piede in quella casa, si ero ritrovata di colpo scaraventata fuori dal mondo: la famiglia del futuro marito era stata la più importante del paese e quella casa – la casa dalle cento stanze, come la chiamavano – ne era l’evidente dimostrazione. Nello studio, le librerie in mogano scuro racchiudevano ancora i libri di diritto del bisnonno avvocato e del nonno, che aveva gestito, fino alla sua morte in seguito ad un incidente di caccia, la banca del paese. La giovane, bellissima moglie, una contessa napoletana, gli era subentrata nella gestione della banca non dimostrandosi però all’altezza del marito e facendo fallire l’azienda nel giro di pochi anni.


La famiglia si era schierata con Mussolini fin dall’inizio. Una delle zie aveva sposato il podestà del paese, mentre il padre di suo marito, come ufficiale, partiva per andare a combattere in Albania, Spagna, Grecia, fino alla disastrosa campagna di Russia, collezionando medaglie, ferite ed encomi.
Dalla Spagna aveva fatto ritorno con nuove ferite e un’affascinante crocerossina, in attesa del suo primo figlio.
Suo marito aveva pochi mesi alla partenza del padre per la campagna di Russia.


Biancas, sua moglie, si era aggrappata alle sue lettere, pregando e accendendo candele nella chiesa del paese, fumigante d’incensi, e paura, e speranza, e rabbia, e dolore, via via che i mesi passavano e sempre più uomini morivano al fronte.
Poi, la guerra era finita e i reduci avevano cominciato a tornare.
Biancas per mesi, tutte le mattine appena il sole spuntava oltre le montagne sbiancando il cielo, era salita sulla punta più alta della collina da dove, alle spalle del paese, si poteva scorgere la strada a tornanti che scendeva alla pianura.
Lungo quella strada, ogni giorno, aveva visto arrancare uomini laceri, sconvolti, sopravvissuti a quell’inferno in cui avevano lasciato l’anima. E, ogni giorno, si era illusa di trovare tra loro il marito, e, ogni giorno, era tornata a casa sola e delusa.
Poi, una mattina, tra quegli uomini distrutti aveva scorto l’attendente di suo marito.
Le portava una sua lettera, l’ultima che avrebbe ricevuto, e la notizia che era stato costretto ad abbandonarlo, morente, in un ospedale da campo, in quell’inferno di neve e ghiaccio che, di uomini, ne aveva inghiottiti tanti.


La sua morte aveva reso inarrestabile la decadenza della famiglia e nel paese si favoleggiava di quella maledizione, quell’accanimento della sorte che lasciava in vita le donne, ma da generazioni massacrava il ramo maschile della famiglia con morti violente o in giovane età.
In quel paese, sperduto tra le montagne, dove il tempo aveva un’altra valenza e dove l’eco del mondo, almeno del suo mondo di giovane studentessa universitaria, se penetrava oltre i portoni in legno massiccio, si perdeva nel labirinto delle stanze tra i cimeli fascisti che la casa esibiva, nelle lacrime di sua suocera che continuava a portare il lutto per il marito, nell’arroganza delle zie che giravano ancora con le cappelliere e i guanti di pizzo, pretendendo di essere omaggiate come principesse, era arrivata lei a portare, di nuovo come già era avvenuto con Marias, la vita in quel luogo dove tutto parlava di passato e di morte.
Gli occhietti da falco di zia Colomba l’avevano soppesata come un tacchino per un pranzo natalizio, scivolando via delusi: troppo alta, troppo magra, troppo disinvolta - aveva subito pensato - troppo bionda, troppo tutto.


Il futuro marito nei pochi giorni passati in quella casa, aveva subito un'incredibile metamorfosi: parlava un incomprensibile dialetto, andava a caccia con i contadini, si rintanava nelle cantine del paese facendo onore a porchette arrostite e spiedini d'agnello; quando rientrava, a notte inoltrata, crollava russando sul letto al suo fianco, senza nemmeno una carezza.
Avevano tentato, in tutta fretta, di educarla: a non alzarsi quando un’ ospite anziana, ma socialmente a lei inferiore, veniva a conoscerla, a riporre i pantaloni, non adatti a una giovane signora, nell’armadio, ad andare a messa alla domenica, ad accettare quel “donna Chiara” che le faceva venire la ridarola ogni volta che lo sentiva.
Aveva sbuffato incredula, convinta che, a matrimonio avvenuto, avrebbe ripreso in mano la situazione.
E così aveva accettato di sposarlo, sopravvalutando sé stessa e sottovalutando tutto il resto.
Era seguito un matrimonio celebrato in tutta fretta per consentire la nascita di un "settimino", al quale era stata obbligata a dare il nome del nonno morto in Russia: Roboaldo, che subito si contrasse, dato che suscitava occhiate sconcertate, in Aldo.

Ero affogata tra pannolini e biberon, tra quelle montagne aspre, grigie di sassi e avare di sole, e quei contadini di cui non capivo il dialetto, in quella casa, grande come una piazza d'armi, che nessun camino riusciva a riscaldare, in quel paese dove - come diceva zio Turi, marito di zia Colomba - c'erano "dieci mesi di freddu e due di frische", mentre l’umidità che liquefaceva il paesaggio le penetrava dentro, ammuffendole l’anima.

Suo marito, che commerciava in bestiame, aveva ripreso ad andare a cavallo come un signorotto d’altri tempi, continuando a frequentare le cantine, dove lei non si era più azzardata a entrare. Non parlavano più. Aveva imparato a tacere: taceva in casa, alle cene di rappresentanza dove si limitava ad annoiarsi e a sorridere melensa, taceva con le donne di famiglia, ignorando le loro frecciate.
Seguendo Palmarina si ritrovò, quasi senza accorgersene, nella camera da letto che avevo condiviso con il marito. Sul comodino una fotografia, scattata durante una gita sul Gran Sasso.
Nel prato fitto di ranuncoli gialli, seduta sull’erba con suo figlio tra le braccia, rideva,
orgogliosa del bambino, che aveva invece un’aria seria, lo sguardo che sembrava presagire il dramma che si stava preparando.
Allungò una mano a sfiorare quel sorriso infantile, mentre i ricordi si affollavano scombinati, come nei sogni.

Stava guidando accecata dalle lacrime, il bambino dormiva dietro. Il camion l'aveva visto
troppo tardi. Era rimasta praticamente illesa, ma il bambino all'ospedale era arrivato in coma.
Non ricordava molto di quei giorni: una sequela ininterrotta di albe e tramonti, all’ospedale ai piedi del suo letto, sbocconcellando qualcosa, appisolandosi per pochi minuti, lo sguardo fisso sul volto minuto, muto e immobile del figlio, cercando un tremolio, un brivido, un accenno di sorriso che lo riportassero in vita. E il senso di colpa che la divorava dentro, svuotandola, mentre la sua vita le passava davanti senza più finzioni. Biancas, sua suocera, aveva cercato l'intercessione di santa Rita, tutto il paese aveva pregato e suo figlio aveva ripreso conoscenza.
Per quella volta la maledizione che gravava sul ramo maschile della famiglia era stata sventata.
Suo marito passava alla sera, restava pochi minuti ignorandola, poi spariva, silenzioso.
Andava da lei.
C'era stata una grande festa per la guarigione di Roboaldo e la casa aveva ritrovato per un giorno lo splendore del passato. Tavole imbandite di specialità fatte giungere da Roma, vini scelti a profusione, camerieri inappuntabili come cerimonieri di corte e musica e danze che si erano protratte per buona parte della notte.
Lei aveva indossato un abito che era stato confezionato per la nonna di suo marito e che, strano ma vero, aveva la sua stessa taglia. L’aveva ritrovato in un vecchio baule. Era di velluto di seta cremisi con intarsi in pizzo, scollato a punta sulla schiena, aderente sui fianchi strizzati dal bustino e impreziosito da un piccolo strascico che dava ulteriore slancio alla figura. Al collo aveva i gioielli di famiglia. Al suo ingresso nel salone era serpeggiato un fremito di ammirazione appena contenuto. La festa aveva avuto anche lo scopo di porre fine alle chiacchiere che, nel paese, avevano cominciato a circolare.
La sua rivale, che era tra gli invitati, aveva avuto il coraggio di venire alla festa accompagnata dal marito, un commerciante arricchito, evidentemente all’oscuro della situazione. Ma alla festa era presente anche un uomo che, nell’impaccio delle mani ruvide e callose, nel disagio che lo induceva a detergersi un’abbondante sudorazione, tradiva la sua umile estrazione sociale di contadino.


Le zie e sua suocera, che conversavano compunte, vedendolo entrare erano sbiancate. L’uomo si era avvicinato a lei e, togliendosi il cappello, le aveva sussurrato: “ E’ stata fortunata: suo figlio si è salvato, ma la vita è lunga, le colpe dei padri ricadranno sui figli e sui nipoti…prima o poi “.
Aveva sentito un lungo brivido accapponarle la pelle, ma era rimasta muta fissandolo, mentre con gli occhi cercava il marito, notando la sua rabbia, a stento contenuta, che le nocche della mano, sbiancata nel pugno, tradivano.
Intorno, i partecipanti alla festa sembravano non aver notato nulla.
Il marito aveva aperto le danze con lei.


“ Chi è quell’uomo, era sempre all’ospedale davanti alla stanza di Aldo…Lo ricordo, adesso lo ricordo. Era in chiesa, confuso tra la gente, anche il giorno del nostro matrimonio”.
“ E’ un contadino, un ignorante. Suo padre era un nostro bracciante. Aizzava i compagni….Una sera non tornò a casa dal lavoro. Scomparve, non se ne seppe più nulla ”.
“ …? “
“ Le chiacchiere di paese attribuirono la sua scomparsa ai fascisti, ma il corpo non venne mai trovato. Quest’uomo è il figlio di quel contadino” aveva concluso, guardandola.
“ Ma chi era tuo padre? “ lei gli aveva chiesto, aggiungendo a voce bassissima:“ E chi sei tu? “
Lui aveva sbuffato. Infastidito.


Gli specchi del salone la riflettevano, un vortichio d’oro insanguinato, moltiplicato a dismisura, come se gli specchi e la casa grondassero sangue. Aveva avvertito una sensazione di nausea incontrollabile. Certe frasi smozzicate, che il dialetto stretto della gente del paese le avevano reso di difficile comprensione, le tornavano alla mente. Allusioni ad un passato che non era possibile dimenticare, che aveva lasciato strascichi di dolore e rancore di cui anche lei ero stata fatta oggetto. Ombre sinistre che tornavano, allungandosi anche su suo figlio, per far quadrare conti in sospeso di cui ero stata tenuta all’oscuro.
" Come ha avuto il coraggio, quell’uomo se ne deve andare..”


Lo ricordava pallido, il marito, livido nel giorno che, fuori, si tingeva di violetto, mentre le ombre della sera si allungavano a ingoiare, voraci, i vicoli e le case, invadendo la piazza come una marea nera che salisse inarrestabile, sull’onda dei ricordi.
“ Ora lo sbatto fuori “ aveva aggiunto.
" Te lo proibisco " gli avevo sussurrato, decisa, ma, a suo modo, anche implorante.
" Tu non puoi permetterti di proibire nulla, né oggi, né mai" le aveva risposto, mentre i suoi occhi si facevano freddi, freddi come la sua voce che stava salendo di tono.
L’uomo, appoggiato alla parete, li fissava, alzando il bicchiere, ogni volta che il cameriere glielo riempiva, in un brindisi solitario e beffardo alla loro salute.


Le zie e la madre, vestite a festa, elegantissime e altezzose, lo ignoravano. Qualcuno cominciava a notare il comportamento dell’uomo e il pallore cadaverico di suo marito.
“ Ora lo butto fuori e se non vuole andarsene…”
“ Lascia perdere, ti prego “ e la sua voce era stata insolitamente ferma, senza più traccia, neanche minima, di stridulità femminile. Ma lui non l’ascoltava più. Si era staccato bruscamente da lei, mentre la musica saliva d’intensità, e si era diretto verso l’uomo, che sembrava avesse atteso proprio questo per tutta la durata della festa.
Sulla sala era calato di colpo, interrompendosi poi del tutto, il cicaleccio degli ospiti.
Soltanto le note del valzer, assurdamente festose, avevano continuato a risuonare, mentre gli sguardi dei presenti si inchiodavano sui due uomini.
Suo marito, elegantissimo nell’abito da sera di ottimo taglio, avanzava verso l’uomo, il passo sicuro e la mano in tasca. Lo sguardo, sotto il sopracciglio alzato, sprezzante.


Ora i due uomini si fronteggiavano: gli occhi del contadino contratti, quasi l’odio che contenevano avesse pudore a mostrarsi.
“ Non credo di averla invitata. La sua presenza qui… “ e la voce del padrone di casa si era alzata nella sala, sferzante.
“ La mia presenza qui è un mio diritto “ aveva risposto l’altro, a voce bassissima, senza staccargli di dosso quegli occhi in cui l’odio si mescolava ora al sarcasmo e al disprezzo, rendendolo stranamente simile all’uomo che lo fronteggiava.
“ La invito a uscire da casa mia “ aveva continuato suo marito calcando la voce sull’ultima parola.
“ E’ anche casa mia “ aveva risposto l’altro.
“ Lei è ubriaco “ e con la mano già, imperioso, faceva cenno ad un cameriere di avvicinarsi
L’altro, deposto il bicchiere, aveva sputato per terra, poi, asciugandosi la bocca: “ Non è necessario. Me ne vado da solo “ aveva detto, uscendo dal salone dove gli ospiti gli avevano fatto ala in un silenzio ingigantito dal silenzio dell’orchestra che aveva smesso di suonare.




Con le guance dello stesso colore dell'abito, in fiamme, lei era rimasta in attesa, le frasi, pronunciate dall’uomo appena uscito dal salone, che le rimbombavano nel cervello, mentre l’orchestra, obbedendo all’ordine stizzito del padrone di casa, riprendeva a suonare e le coppie a volteggiare.
Il marito aveva invitato a ballare la sua rivale che, provocante, ora rideva tra le sue braccia, controllando di sottecchi la sua reazione. Ma lei si era resa conto, in quel momento, di quanto profondamente l’avessero cambiata le lunghe ore passate all’ospedale, il rischio fatto correre al figlio con la sua leggerezza, l’analisi spietata di sé e delle sue scelte. Ora sapeva che non sarebbe rimasta a consentire inutili finzioni, a reggere un rapporto di coppia fasullo, a crescere suo figlio nell’ipocrisia. Aveva il dovere di allontanarlo da quel posto, da quella vita ripiegata su un passato del quale ci si sarebbe dovuti soltanto vergognare.


Non aveva aperto bocca, ignorando gli sguardi sempre più eloquenti e inquieti delle donne di casa di fronte al suo silenzio. Era partita il giorno successivo con suo figlio e una valigia, lasciandosi alle spalle il pattume della festa e il pattume di una vita.
Il marito le aveva sguinzagliato dietro un esercito di avvocati, ma lei aveva trovato dentro di sé un coraggio inimmaginabile e, lottando come una leonessa per ottenere l’affidamento del figlio, aveva vinto.
Non era più tornata in Abruzzo, nemmeno per la morte delle zie e della suocera.
Suo figlio sarebbe arrivato dalla Francia, dove viveva, prima di sera.

Aprì con la chiave, che il marito portava sempre con sé, il cassetto della scrivania. Una lettera ingiallita cominciava con : “ Cara Biancas, sono stato gravemente ferito. Troppo tardi ho capito, ma non posso più tornare indietro…Il figlio che Ninuzzo non ha potuto vedere è mio figlio, il fratello ….”
Chi aveva scritto quella lettera non aveva avuto la forza di andare avanti


Dalla finestra spalancata, nella camera da letto entrò una ventata d'aria fresca. Una brezza leggera aveva allontanato le nuvole. Sulla valle brillava ora un pallido sole autunnale. L'autunno avrebbe presto ceduto il posto all'inverno.
Sentì bussare discretamente alla porta della camera da letto.
Palmarina entrò.
" Ha intenzione di fermarsi, ehm…, dopo il funerale” le chiese.
Assentì, chiedendole notizie di Ninuzzo.
“ E’ invecchiato, ma lavora ancora la sua vigna e…”
“ Abita sempre nella casa sul colle, dietro al cimitero? “ chiese, infilando la lettera nella borsetta.
“ Sì, ma perché me lo chiede? “
“ Perché è arrivato il momento che conosca suo nipote e viva nella sua casa e “ aggiunse “ spalanchi le imposte: questa casa ha bisogno di luce. Sono i misteri e le bugie che si alimentano di ombre “.


Passando sotto il ritratto di zia Colomba, raddrizzò le spalle.
Senti un fruscio, ma non si voltò: aveva combattuto troppo con i vivi per spaventarsi per quattro fantasmi, pensò, mentre Palmarina tirava di lato le tende e l’oro pallido della luce autunnale invadeva, una dopo l’altra, le novantanove stanze del vecchio palazzo.

lunedì 27 ottobre 2008

Città da bere?

Giovanna, come quasi tutti in quella grande città, camminava velocemente diretta al suo posto di lavoro. Scesi i gradini che portavano alla metropolitana, s’infilò a fatica nel muro compatto di persone che stazionavano in attesa del convoglio sulla banchina e, dopo pochi minuti, si ritrovò strizzata tra alcuni ragazzini che le sbattevano addosso i loro zainetti e due impiegate che, dalla faccia, non avevano ancora smaltito la stanchezza del giorno prima. Ad eccezione dei ragazzini che urlavano, interpellandosi da un punto all’altro della carrozza in un lessico sgrammaticato, inframmezzato da grugniti e parolacce, gli altri viaggiatori, che sembravano impegnati solamente nella faticosa ricerca di un punto da fissare che escludesse la possibilità d’incrociare un qualsivoglia sguardo, tacevano.Qualcuno leggeva.

Quel vuoto di parole era però riempito, anzi totalmente annullato, dal boato rabbioso che accompagnava il viaggio del convoglio nel labirinto di gallerie sotterranee. Solo in prossimità delle singole stazioni dove, con un singhiozzo che sembrava quasi di rammarico, il convoglio frenava, il fracasso si smorzava sostituito dallo scalpiccio di chi usciva scontrandosi con la fiumana frettolosa dei nuovi arrivati.

In quella città la donna viveva da alcuni anni e non era ancora riuscita ad abituarsi a quel vuoto così rumoroso di parole tanto che, a volte, quando improvvisamente incrociava lo sguardo di qualcuno seduto davanti a lei, le capitava di sorridere. Lo fece anche quel giorno e il suo dirimpettaio le lasciò scivolare addosso un rapido sguardo prima di assumere, infastidito, quell’espressione assorta che ancora la lasciava piuttosto sconcertata. La donna, quando viaggiava sulla metropolitana, non guardava mai nel vuoto, divertendosi ad osservare con curiosità i viaggiatori e, più di una volta, qualcuno l’aveva apostrofata con un “embé? “ piuttosto seccato che, tuttavia, non le aveva fatto perdere l’ abitudine di fissare le persone.

Con un sobbalzo che la distolse dai suoi pensieri, il convoglio si fermò di nuovo: un viaggiatore entrò, si guardò attorno e, notando il posto libero accanto al suo, si avvicinò per sedersi. L’uomo, aria distinta, ben vestito, lieve profumo di acqua di colonia, dopo aver fissato per un secondo il sedile, si aggrappò, mentre il convoglio riprendeva la sua corsa, alla sbarra di sostegno, impegnandosi nell’apparente lettura di una pubblicità, appesa accanto alla porta d’ingresso.

- Perché non si era seduto? Forse aveva, di primo acchito, individuato in lei quell’attenzione curiosa nei confronti degli altri che sembrava tanto infastidire i viaggiatori metropolitani? - Mentre così pensava, lo sguardo le cadde sul sedile alla sua sinistra e un brivido di raccapriccio la percorse da capo a piedi: un orecchio mozzato e insanguinato era stato gettato o, forse, appoggiato sul sedile.
“ Ha visto? Ha visto cosa c’è …? “ Giovanna, trattenendo a stento il disgusto, si rivolse all’uomo davanti a lei, afferrandolo per la manica della giacca, ma non aveva ancora alzato la mano per indicare l’oggetto del suo raccapriccio che l’uomo, fissandola gelidamente, anzi conficcando lo sguardo sulla mano della donna aggrappata alla stoffa della sua giacca, le sibilò:
“ Ma come si permette? Mi lasci “.
“ Ma non vede? Non vede quel coso? “

Sollevò lo sguardo; davanti a lei nulla era cambiato: chi leggeva, chi fissava un punto sopra la sua testa, chi la sfiorava con lo sguardo, assumendo un’aria infastidita o vagamente ironica.
In quel momento, giunto a destinazione, il convoglio si fermò e le porte si spalancarono. Giovanna, sconvolta, si alzò, precipitandosi fuori dal vagone.- E se fosse stata una sua impressione? Nessuno accanto a lei aveva dato il minimo segno di stupore, disagio o, men che meno, raccapriccio -.

Nel giro di pochi minuti arrivò davanti al portone della scuola. La classe l’attendeva, vociante, al primo piano. Tra un cambio d’aula e l’altro, la mattinata passò rapidamente e il suono del campanello liberò lei e i suoi allievi dalla prigione scolastica.

La giornata autunnale era tiepida, gli alberi del parco, che abitualmente attraversava per tornare a casa, avevano cambiato colore e una luce dorata avvolgeva cose e persone impreziosendole. Giovanna s’incamminò lungo il vialetto ombroso, calpestando le foglie che, sotto ai suoi piedi, formavano un tappeto scricchiolante.

Un cane s’avventò scodinzolando su di lei; il padrone lo richiamò infastidito, ma l’animale non obbedì. Con il corpo immobile, improvvisamente irrigidito, alzò il muso annusando l’aria, allungò una zampa e afferrò qualcosa tra le foglie. Giovanna trattenne a stento un urlo di orrore, mentre il cane, tutto orgoglioso, esibiva davanti ai suoi occhi come un orrendo trofeo, una mano insanguinata.
“ Possibile che tu debba raccogliere tutte le schifezze che trovi? “ La voce del padrone, stizzita, infranse il silenzio del parco, mentre, misurandosi con l’animale, tentava di strappargli dalle fauci quel grumo di foglie, carne e sangue rappreso.
“ Avrebbe un fazzolettino? Macchia Bianca ingoia qualunque cosa e poi, a casa, mi vomita sul tappeto “

Tremante davanti a lui, la donna riuscì, a stento, a mormorare: “ Ma ha visto quello che ha raccolto? Dobbiamo andare al Commissariato di Polizia, questa mattina su un sedile della metropolitana c’era un orecchio mozzato. Apparterranno alla stessa persona? “
L’uomo, cambiando immediatamente atteggiamento, dopo aver richiamato il cane con un fischio e averla squadrata dall’alto in basso con uno sguardo di commiserazione mista a fastidio, si allontanò, incurante della richiesta di aiuto della donna che, quasi supplice, lo pregava di accompagnarla a denunciare quanto avevano visto.

A questo punto Giovanna si decise e, camminando con passo concitato, raggiunse il Commissariato di Polizia che si trovava accanto alla sua scuola. Si avvicinò al poliziotto di guardia che smistava i nuovi arrivati e, con un tono di voce che, mentre parlava, saliva d’intensità facendosi stridulo, gli raccontò ciò che aveva visto. L’uomo la guardò incredulo, per un momento quasi disorientato, ma, afferrandola per un gomito e sorridendole con dolcezza, la sospinse, subito dopo, verso la porta d’ingresso di una saletta appartata, facendola sedere e dicendole, con voce suadente:
“ Non si preoccupi, signora, e si accomodi qui “.

Giovanna lo vide parlottare, indicandola con un cenno del capo, con un collega che, dopo aver annuito, si allontanò in fretta, scomparendo dietro alla porta di un ufficio.
Il Commissariato era una vera e propria bolgia: gente che usciva e entrava in continuazione: molti che, in preda all’agitazione, alzavano la voce, alcuni che imprecavano tra i denti appena i poliziotti voltavano loro le spalle, e qualche anziano, seduto con aria rassegnata, che attendeva paziente in quel vocio che sembrava di minuto in minuto aumentare d’intensità.

In quella grande città, che ancora ci si ostinava a considerare la capitale economica del Paese, i ritmi lavorativi erano diventati forsennati: tutti correvano. Velocità era diventato sinonimo di efficienza. Gli anziani e i bambini erano guardati con dispetto: lenti e indecisi rallentavano la grande corsa verso il profitto, perché, ormai, il denaro, solo il denaro contava e in suo nome tutto era concesso. A questo pensava Giovanna in paziente attesa, sottratta, per un attimo, al vortice rumoroso di attività che si agitava dentro e fuori dalla questura.

“ E’ lei la signora che non sta bene? “ La voce del medico che, accompagnato da un infermiere, era entrato nella stanza e le si era avvicinato, la distolse dai suoi pensieri.
Giovanna si agitò, tentò di parlare, di spiegare, ma venne afferrata e caricata di prepotenza su una autoambulanza che partì a sirene spiegate.

Il medico, seduto davanti a lei, aveva un’aria rassicurante, ma la giornata era stata densa di emozioni. Inoltre, al suo arrivo al pronto soccorso dell’ospedale, quando lei aveva dato quasi in escandescenze urlando che non era pazza, l’avevano imbottita di calmanti, con il risultato che, ora, si sentiva piuttosto confusa.
“ Nome? “ chiese il medico.
“ Giovanna Visani “ rispose la donna.
“ Professione? “ aggiunse l’uomo seduto davanti a lei.
“ Insegnante “ rispose con voce stanca, agitandosi sulla seggiola e lasciando scivolare tutto intorno uno sguardo inquieto.
“ E’ un lavoro molto stressante, soprattutto oggi con la demotivazione allo studio degli allievi, le riforme in atto, l’ostilità dei genitori, l’esiguità degli stipendi…”
La voce del medico era calma, quasi suadente, ma la donna taceva, fissando ostinatamente un punto sulla parete.
“ Dunque , lei avrebbe avuto delle allucinazioni visive, o sbaglio? “
“ Non ho avuto allucinazioni, io ho visto, ho visto…” e la donna tacque, portandosi una mano alla fronte che le si stava imperlando di sudore.
“ Non si preoccupi, signora, è in buona compagnia; ho avuto altri casi come il suo, in questo periodo. La vita in città è diventata particolarmente stressante, ma basteranno delle cure adeguate e la faremo tornare come nuova “.

Il medico scrisse qualcosa sul suo ricettario, poi, stizzito, strappò il foglietto riducendolo in pezzi. Si alzò e, facendo leva con il piede sul pulsante, sollevò il coperchio della pattumiera. Giovanna, che seguiva i suoi gesti, vide sporgere dal bidone un piede rattrappito e contorto. Il medico sobbalzò, volgendo lo sguardo verso la donna per accertarsi che non avesse visto il contenuto del bidone, ma l’orrore stampato sul viso della paziente lo convinse immediatamente del contrario.

Allora si voltò e, sorridendo sornione, le disse:
“ Stia tranquilla, dalla sua espressione suppongo che le si sia ripresentato il problema…Si rassicuri, un paio di pillole e queste allucinazioni scompariranno. Mi raccomando signora, segua il mio consiglio: lei ha una laurea: la sfrutti meglio e si trovi un lavoro che la gratifichi di più “:
Mentre l’accompagnava alla porta un raggio di sole illuminò la stanza, dando contorni precisi agli oggetti. Solo allora Giovanna notò il suo orecchio mozzo e la piega avida delle sue labbra.
Uscì con un profondo senso di sollievo, stracciò in mille pezzi le ricette ricevute e le guardò roteare, come coriandolo colorati, nella luce chiara della sera che avanzava.