mercoledì 16 dicembre 2009

Pinocchio insegna

Il pino, solitario 007 di guardia davanti mia alla finestra, è bianco di neve e la gatta esita sul davanzale, prima di rientrare e accoccolarsi sulla stampante, gli occhi gialli spiritati che cercano conforto, o forse riflettono soltanto il mio bisogno di conforto. E' passata la Finanziaria, gli evasori fiscali hanno ricevuto il cadeau natalizio dal governo Berlusconi: i proventi d'impresa sottratti al Fisco potranno rientrare, pagare una miseria, e essere spesi allegramente o investiti. Tutto ciò mentre l'imposizione fiscale sui redditi da lavoro rende necessariamente virtuosi, tramite il marchingegno della ritenuta alla fonte da parte del datore di lavoro, operai e impiegati, infischiandosene del principio di eguaglianza del dettato costituzionale che non prevede certo che i cittadini siano diversi davanti al fisco. Il Ministro dell'Economia Tremonti ha spiegato che lo Scudo Fiscale favorirà la ripresa dei consumi, degli investimenti nonché l'afflusso di risparmio alle banche.
Inutile rilevare che, per incrementare la liquidità sul mercato, sarebbe stato sufficiente ridurre le aliquote Irpef delle tredicesime, ripristinando almeno parzialmente un'equa tassazione fiscale. Il nostro Tremonti si è preoccupato degli imprenditori e delle banche, alle quali il boccone dei prodotti derivati è andato per traverso, causando perdite di bilancio e difficoltà di raccolta fondi che il ministro ha ritenuto prioritarie rispetto ai problemi di chi ha perso il posto di lavoro o del rispetto del dettato costituzionale.
Inutile rilevare che la legge è passata con il voto di fiducia.
Inutile sottolineare che l'opposizione viene attaccata - (quella poca che non accorre al capezzale dell'Infortunato) come responsabile del clima di violenza che ha portato come conseguenza all'aggressione del Presidente del Consiglio - e zittita.
Inutile rilevare che mentre il Paese va in malora i telegiornali parlano del naso di Berlusconi. Forse perché continua a crescere nonostante la frattura, come Pinocchio insegna?

Il tempo è fatto d'immagini

Una vita, in fondo, si compone di momenti, scaturiti da scelte, imposte o subite, che determinano la qualità di quella vita perché la quantità è data soltanto dallo scorrere dei giorni che collegano, in fila come soldatini tutti eguali, un momento all'altro. Un collage d'immagini fissate nella memoria a perenne ricordo di emozioni profonde in cui, per evitare di esserne travolti, l'attenzione si concentra su particolari apparentemente irrilevanti che per tutta la vita attraverso un suono, un profumo, un sapore ci riporteranno di colpo a quel momento.

Quella tonalità di luce, che pervade l'aria di languore e annuncia l'autunno, sapeva di libri freschi di stampa e quaderni nuovi e, tiepida e raccolta, filtrava attraverso le tapparelle danzando sulla parete. Alla mia sinistra il grembiule, il fiocco e la cartella. Tutto nuovo, lustro per quel mio primo giorno di scuola. E, annidata dentro, la paura di un cambiamento che mi avrebbe strappato all'asilo delle suore, ai compagni che conoscevo, ai giochi sotto il sole nel cortile che lasciva intravedere l'ossatura di due case bombardate.
E' odore di scuola quello dei libri che annuso nello sfarfallio delle pagine fresche di stampa che sfoglio... La scuola, fondale privilegiato di tanta parte della mia vita, con il suo rituale di campanelle che squillano a sancirne la cadenza dei tempi e la polvere di gesso che ti entra nelle narici . L'ho lasciata così come si lascia un amore, conservando sulla pelle l'estraeità di quell'ultimo sguardo che ci scivola addosso e che ci riconsegna all'anonimato della folla. Con dolore, ma anche rabbia. Profonda e mai più tirata fuori.

La guerra è invece una madonna di coccio. Scheggiata. Attirava la mia attenzione, facendomi sospendere il gioco nel cortile delle monache, all'asilo. E io, che ero già allora una bambina pensosa persa in un suo mondo fantastico, ricordo che mi fissavo spesso su quello che restava di una camera da letto dipinta d'azzurro che sembrava un riquadro di cielo in quella casa bombardata che vedevo oltre la recinzione del cortile. Nessuno l'aveva staccata dalla parete, lasciandola lì a custodia delle rovine e nella mia memoria a ricordo incancellabile della guerra.

La strada sotto casa era piena d'ombra e io la percorrevo in fretta, i tacchi che picchiavano sull'asfalto. Anche il cuore picchiava contro le costole. La luce del lampione spioveva dall'alto come una corolla e lui, il mio primo ragazzo, le mani in tasca, i capelli biondi e chiari come quelli di un bambino, aspettava... Protetti dall'ombra della sera, ci baciammo contro il muretto di un giardino. Il suo maglione rosso accendeva la sera, aspra di vento e umidità. Mi avrebbe lasciata dopo pochi anni, gli occhi azzurri taglienti che mi fissavano come se non mi avessero mai vista. La camicia sudata che mi rimandava l'odore della sua pelle che intravedevo tra bottone e bottone, mentre lui mi diceva che si era innamorato di un'altra e le primule sul bordo del fosso erano gialle come la rabbia in quella primavera lontana in cui scoprivo il tormento della gelosia e la stupidità del possesso.

Tulipani di nuovo gialli e rose bianche che il vento scuoteva infrangendosi sui vetri della sala parto... A Trieste i neonati li porta il vento che ti tiene sveglia a sentirne il respiro aspettando l'alba.

E altre immagini si aggiungono a infittire i ricordi, mentre il tempo se ne va e la memoria del presente si fa labile, un po' imprecisa e il passato sembra più ricco, vivido, bello ma è soltanto che siamo passati dal tempo del fare a quello del ricordare. Dalla giovinezza alla vecchiaia, dal vento alla nebbia spessa e umida che tutto ingrigisce della Padania.
“Racconti dal sottobosco” di Silva Ganzitti è un libro per bambini che mi è piaciuto molto. Anche per offrire qualcosa di alternativo ai cartoni animati che imperversano in tv, ho pensato fosse arrivato il momento di mettere in mano ai miei nipoti un libro di favole: ben scritto, per affinare il gusto del bello, con un pizzico di mistero, per renderlo accattivante e illustrato, in omaggio a questa civiltà dell'immagine in cui vivono immersi.
Una ragazzina lungo un sentiero di campagna si ferma a osservare curiosa la vita che scorre davanti ai suoi occhi e diventa la spettatrice privilegiata di tre storie di animali, quelli che che abitualmente animano il sottobosco... e, tra un filo d'erba che il vento piega e una margherita che ondeggia, coglie, in quel microcosmo minuscolo, tratteggiato con fantasia ma anche con precisione dall'autrice, la cattiveria, la paura ma anche l'audacia e il coraggio, tutta la gamma dei sentmenti e delle emozioni che animano il mondo e che il bambino, vivendole , è perfettamento in grado di cogliere, leggendone però una rappresentazione fantastica. Bello!

Racconto a puntate (La vita cambia)

Su Trieste soffiava il vento. A folate, portava l’odore del mare fin lassù, sul sagrato della chiesa medioevale che si stagliava, con il campanile a lato, contro l’azzurro del cielo, quel cielo lustro e terso che solo le città ripulite dalla bora conoscono.
Nell’aria voci si rincorrevano, qualche risata volava via, perdendosi tra le lapidi del cimitero che s’intravedeva oltre la chiesetta.
Lo sposo attendeva, l’abito scuro troppo nuovo e la cravatta color grigio argento che gli dava una sensazione di soffocamento.
Rideva spesso, troppo.
All’interno della chiesa, l’organista provava la marcia nuziale, spaventando i colombi che si aggiravano sul sagrato snidando chicchi di riso sfuggiti alla scopa della perpetua nel matrimonio precedente.
La sposa tardava.
Qualcuno guardava l’orologio.
Una linea invisibile separava gli uni dagli altri: due gruppi si distanziavano, diversi nell’aspetto fisico, nella parlata, nell’atteggiamento. Gente di mare, da una parte: alta, chiara di occhi e di capelli, il dialetto molle, privo di doppie e strascicato, che lasciava traccia di sé anche nell’italiano che affiorava quando si rivolgevano a persone dell’altro gruppo.
Gente di terra gli altri, discendenti di razze montanare, la corporatura solida che negli anni s’inquarta. Scuri di occhi e capelli, bruni di pelle. La parlata meridionale, il tono della voce più alto, un’arroganza nei gesti che ne tradiva l’appartenenza sociale. Impellicciate le donne, i cappelli trattenuti a stento con la mano per evitare che il vento li strappasse facendoli volare nel cielo come aquiloni.
“Eccola!”.
Una macchina, sbucata da dietro l’angolo della stradina che a tornanti saliva dal mare fino alla chiesa, si avvicinava lentamente.
Le ruote, frenando, emisero uno stridio che si confuse con i versi rochi dei gabbiani, mentre la sposa allungava il piede fuori dalla macchina.
Alta e bionda, indossava un cappotto a ruota che non riusciva a nascondere una rotondità sospetta. Tra le mani roselline; sui capelli, annodati e ricascanti a boccoli sulla fronte, una trina preziosa incorniciava il volto giovane, intatto.
Il padre della sposa si avvicinò per darle il braccio, mentre l’organista attaccava con la marcia nuziale.
La sposa, impaziente e poco ligia al cerimoniale, avanzò lungo la breve navata ridacchiando.
Le fotografie, scattate durante la cerimonia, l’avrebbero immortalata in bisbigli, risatine trattenute a stento e stupore. Negli occhi, passeggero come un lampo estivo, lo sconcerto che solo un osservatore molto attento avrebbe potuto scorgere.
“Finché morte non vi separi” tuonò lo zio prete che dal pulpito officiava il rito, lo sguardo che scivolava collerico e indagatore sulla sposa.
Un raggio di sole s’insinuò dalla vetrata trafiggendo la sposa e illuminando il cristo dolente davanti a lei.
Un brivido la scosse.
Si voltò a cercare sua madre con gli occhi incrociandone lo sguardo, ma senza esserne rassicurata.
“Così sia”.
Baci, abbracci, mani sudaticce.
Profumo di tuberose. Sfatte.
L’odore di un matrimonio è quello di un funerale. (continua...)