domenica 30 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (Puntata n° 7- Parte seconda)

"Perché?".
"Non lo so... " le rispose, incerto, il marito.
"Oh, Gualtiero, lo sai benissimo... "
"Dimmelo tu, allora. Sei sempre stata più intelligente di me, hai studiato... "
"Volevi toglierti un peso dalla coscienza, come fosse un sacco di grano da scaricare sull'aia, e poi muoverti di nuovo, come sempre, in libertà, leggero. Le conosco le tue  giustificazioni: Mussolini, un mondo nuovo da costruire per realizzare un sogno a qualunque costo, anche ammazzando... "
Il marito l'ascoltava, in silenzio.
"Beh, ci stiamo riuscendo, almeno  ci stiamo provando: eravamo un paese di contadini ignoranti, di operai miserabili; un paese poco rispettato, che non contava nulla e ora... "
"Ora cosa?" lo interruppe la moglie.
"Ora, ora un paese come la Germania ci copia, ci ammira; ora non abbiamo più bisogno di nessuno, siamo autosuffficienti".
"Sì, con la finta lana, il finto cuoio, il finto benessere... Finto! Finto!, tutto è finto in questo paese, Gualtiero. Questo ti ha insegnato Mussolini: a fingere! E tu che altro potresti fare, a questo punto, se non credergli?"
"Desmo diceva che le rivoluzioni si fanno con il sangue, che un prezzo lo si deve pagare per cambiare il mondo" borbottò il marito, passandosi una mano incerta sul viso, ma con lo sguardo che già riprendeva coraggio.
"Finirai per rendermi complice di quanto hai fatto, di quanto fai... " mormorò Marilena.
"Quanto faccio!? Cosa faccio?" le chiese, aggressivo.
"Lo spione, il cane che mette gli inseguitori sulle tracce della preda da abbattere; questo fai!"
Gualtiero le fu addosso con un balzo, il volto pallido di rabbia. Le sue mani le artigliarono le spalle, la scossero con violenza, mentre le sputava addosso quelle parole taglienti e aguzze. Come lame di coltello.
"Lo faccio anche per te!" 
"Lasciami, mi fai male!" lei gli sussurrò, ma Gualtiero già la trascinava verso la camera, e sempre tenendola stretta per un braccio spalancava davanti ai suoi occhi increduli le ante dell'armadio, afferrava gli abiti ordinatamente appesi e li scaraventava a terra, li calpestava... Poi, continuando a trascinarsela dietro come un mucchietto di stracci, con una manata ripuliva la toilette - avvolta in pizzi a balze e sormontata da uno specchio ovale sostenuto da due amorini - di vasi, vasetti, scatole e profumi che cadendo sul pavimento, s'infrangevano avvolgendo la stanza nel suo profumo, quel profumo che era per lui inscindibile da quello della pelle della sua donna, mentre una nuvola di cipria si sollevava nell'aria. Impalpabile e beffarda. E gridava, gridava con le vene del collo gonfie, turgide di rabbia, Gualtiero, continuando a scrollarla, fino a quando lei non gli scivolò tra le mani, afflosciandosi a terra. 
"Lo spione ti permette questi vestiti, queste scarpe, e borse, e il tuo oziare ascoltando musica e... tutto il resto, compresa questa casa - che tu consideri con sufficienza - ma in cui ti sei cacciata come un topo nel formaggio".
Poi, con un ultimo pugno assestato al muro alla sua destra, quasi volesse distruggere anche la stanza, uscì.
Marilena, sentendo sbattere poco dopo la porta d'ingresso, capì che Gualtiero se n'era andato.
(continua... )

giovedì 27 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (Puntata n°6 - Seconda parte)

"Ma che uomo sei? Che uomo sei?" mormorò Marilena riprendendosi dal suo intontimento, ma Gualtiero la zittì, quasi infastidito per le interruzioni della moglie. Il lato oscuro della sua anima, che veniva a galla risalendo alla superficie dopo anni di silenzio, traboccava gonfio di brutalità, come il grande  fiume quando faceva esplodere gli argini, invadendo con le sue acque limacciose e giallastre la terra, abbattendosi sulle case, devastando campi e vigneti, violento  e incontenibile...
Gualtiero riprese a raccontare: "Erano lì, sotto le fronde degli alberi, il fiume non si vedeva, si sentiva soltanto frusciare poco lontano, l'Antonia abbracciata al marito che le sussurrava qualcosa, lei che rideva piano, trattenendosi. Inermi. Desmo piombò loro addosso, Ninetto urlò alla moglie 'Scappa, scappa... ' e l'Antonia fuggì, scomparendo tra i cespugli, i capelli che s'impigliavano nei rami degli arbusti, un ultimo sguardo scambiato con il marito, conscio di ciò che stava accadendo, consapevole".
"Tu non hai fatto nulla? Sei rimasto lì a guardare?"
Gualtiero s'interruppe e il silenzio avvolse la cucina, invadendone gli angoli, in attesa come  fiato sospeso, fino a quando la moglie, di nuovo, non sussurrò: "E tu?"
"Io?"
"Tu?"
Gualtiero scoppiò in una rista stridula, isterica.
Poi - fissandola come se la vedesse per la prima volta, con quel viso delicato, chiaro, gli occhi grigi ancora belli, e quella domanda nello sguardo che esigeva una conferma più che una risposta, perché anche Marilena, come allora l'Antonia, aveva capito, ma non voleva, non poteva ancora crederci - scosse la testa e disse:
"Gli ho sparato! Era come un leone infuriato, stava per strangolare Desmo a mani nude, gli aveva fatto cadere il coltello di mano. Io avevo il fucile... Cosa potevo fare? Sparai, sparai fino all'ultimo colpo, e lui ancora stava in piedi, ancora mi fissava negli occhi, ancora cercava di agguantarmi... Desmo, accanto a noi a terra, tossiva, mezzo soffocato... "
"Hai altro da dirmi?" chiese la moglie.
"Nulla che, ormai, tu non possa immaginare da sola" le rispose Gualtiero.
"Perché?" lei mormorò, scuotendo la testa.
"Perché l'ho fatto?"
"Perché me lo hai raccontato, dopo tanti anni? Perché?"
(continua... )

mercoledì 26 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (Puntata n°5 - Parte seconda)

Come si narra l'indicibile se non con parole? Che rumore fanno i segreti quando vengono svelati? La voce di Gualtiero era quella di sempre, appena un po' più bassa, mentre le sue parole rievocavano fatti lontani e la cucina diventava campo di grano sotto il sole, fango e pioggia battente a impedire la vista, a ingannarla... Ma ora non c'erano né pioggia, né paura. Era soltanto stanchezza che provava, una grande stanchezza per quel segreto che si era tenuto dentro troppo a lungo. No, Gualtiero non aveva visto in faccia l'assassino di Decimo, aveva visto soltanto quel bagliore e sentito il rumore secco dello sparo: alla sua sinistra, accanto al calesse del Lambertini. Aveva però una sicurezza, una certezza: non era stato Ninetto a sparare, e nemmeno Desmo, o Lugino o Diadoro... perché allacciati l'uno all'altro, in un groviglio di gambe e braccia, intenti a scaricarsi addosso pugni e bestemmie, sguazzando nel fango che impediva loro di stare in piedi, non avrebbero potuto perdersi di vista, nessuno sarebbe riuscito a sgattaiolare via, ad attraversare l'aia, individuare il fucile...
"Con assoluta certezza avresti potuto scagionare Ninetto... "
La voce di Marilena s'insinuò, molesta come il ronzio di una mosca estiva.
"Non lo feci, scagionai soltanto Desmo. I gendarmi non avevano simpatia per i braccianti, sobillatori di disordini che sarebbe toccato loro acquietare, e poi temevano noi fascisti; tutti ci temevano, ma non Ninetto!"
"Come Primo... "
Gualtiero continuò: "Desmo decise che avremmo dovuto dargli una lezione; io non volevo, ero dubbioso, incerto. Lui continuò a insistere, a ripetere le solite cose - con le parole ci sapeva fare - e, alla fine, per convincermi mentì: mi disse di avere visto Ninetto sparare, giurò che gli era scivolato tra le mani come un'anguilla, che non l'aveva denunciato perché voleva ammazzarlo con le sue mani e poi farlo sparire, scomparire per sempre; evitare insomma che diventasse un simbolo per i suoi compagni. Un uomo che si nasconde, che fugge è un vigliacco, capisci?"
Alzò la testa, per spiare sul volto della moglie l'effetto delle sue parole, ma Marilena teneva gli occhi bassi e taceva.
Gualtiero riprese a raccontare: "Sorvegliammo con altri fascisti la casa di Ninetto, seguimmo a turno il suo miglior amico, ma quello era furbo: andava nei campi o mungeva  e, quando c'incrociava, si toglieva il basco e rideva, rideva... Ci prendeva in giro, così come aveva fatto Ninetto. Andammo avanti così per un po'; poi Desmo in un giorno d'estate, l'aria che aveva sapore di fieno, le donne che erano scure di sole come le more del gelso, disse: 'Ma gli verrà ben la voglia di saltare sul letto con l'Antonia', e così cominciammo a seguire l'Antonia, usandola come esca, e lui abboccò all'amo, eccome... "
"Ma tu lo sapevi che era innocente Ninetto, lo sapevi?! Lo sapevi?!"
Marilena riprendeva colore, il sangue che le saliva al volto, le chiazzava il collo, le rombava nelle orecchie, mentre il marito riprendeva a parlare e lei avrebbe voluto che tacesse, che di nuovo il silenzio, come sempre o quasi, invadesse la cucina, rotto soltanto dal tintinnio delle posate. Avrebbe voluto che la sera estiva fosse quella di sempre, un po' monotona, scontata... grigia com'era stata la sua vita fino a quel momento.
(continua... )

martedì 25 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (Puntata n°4 - Seconda parte)

Gualtiero entrò nel palazzo, fece alcuni passi e si fermò, assorto. Da qualche anno lui e Marilena avevano affittato quella casa in centro: silenziosa, con il portiere, gli stucchi sui soffitti, le porte d'ingresso in noce massiccio... e il silenzio. Anche ora, anche lì: quasi a perseguitarlo. Ma i bambini, che in  un palazzo dovrebbero fare chiasso e disturbare, dov'erano? Rammentava di averli incontrati, ma soltanto per le scale, vestiti  "alla marinara", per mano a signore eleganti o al seguito delle servette, riconoscibili subito per il tono di voce più alto, la mancanza del cappello e dei guanti a coprire le mani arrossate e sciupate.
Casa e inquilini "di un certo tono", come diceva Marilena, ma lui non aveva ancora capito se fosse un apprezzamento o una presa in giro. Non aveva voluto saperne di assumere una domestica e tutti i giorni usciva a fare la spesa, cucinando per il marito e lucidando i pavimenti con lo spazzolone fino a renderli brillanti come uno specchio. Al pomeriggio leggeva e ascoltava musica alla radio.
Parlavano poco; soprattutto lei.
Era ancora bella e, ora che i soldi non mancavano, era anche molto elegante  e lui, Gualtiero, non aveva smesso di amarla e di meravigliarsi ogni sera nel ritrovarla ancora e sempre lì, ad aspettarlo. Perché continuava a pensare che, come un passero posato sui fili dell'alta tensione, dopo essersi riposata per un istante, sarebbe volata via, prima o poi, perdendosi nel cielo...
Rispose con un cenno del capo al saluto del portinaio, poi salì lentamente le scale.
"Marilena? Ci sei?" la chiamò dall'ingresso, togliendosi il cappello.
"Sono in cucina", lei rispose, affacciandosi alla porta.
Lui entrò e si lasciò cadere su una seggiola, passandosi una mano sul viso sudato.
"Cosa ti è successo? Come hanno reagito gli operai alla morte del loro compagno?" gli chiese la moglie, non senza aggiungere "Ma voi fascisti non... E' stata una rapina, o forse un delitto passionale: sembra fosse un uomo piuttosto bello... "
"Era uno con la lingua lunga, avrà finito per dare fastidio a qualcuno o, come dici tu, sarà stato pugnalato da un marito geloso. Comunque il clima in fabbrica, oggi, è stato pesantissimo... irrespirabile. Hanno finito per prendersela con me, come se io avessi a che fare con questa storia... "
"Ma tu non c'entri! Allora perché te la prendi in questo modo?"
"Mi ha riportato alla mente tante cose... la morte di Desmo" sussurrò Gualtiero, evitando lo sguardo della moglie.
"Non è stata colpa tua... " disse decisa Marilena, ma vedendo la faccia del marito s'interruppe. Gualtiero, che sembrava fissare un punto imprecisato del muro davanti a lui, scosse la testa e mormorò:
"Ninetto l'ho ucciso io!"
"Ma stai scherzando? Cosa dici, Gualtiero? Sei impazzito?"
Marilena si afflosciò sulla seggiola.
"Perché?"
"Perché stava per uccidere Desmo, gli era addosso, lo stava strangolando... e io, io ho sparato!"
"Tu!? Tu hai ucciso un uomo. Tu!?"
Dopo un secondo di silenzio chiese : "Perché?". Di nuovo.
Gualtiero taceva.
Marilena lo fissava, inorridita, ripetendo quella domanda, quel "Perché?", con un tono monotono, quasi cantilenante.
"Ora mi racconti tutto, ora voglio - ho il diritto  - di sapere tutto... Fin dall'inizio" concluse la donna, chiudendo la porta, quasi volesse, tentasse, per l'ultima volta, istintivamente, d'imbavagliare, di ingabbiare nella stanza, quel segreto, troppo spesso intuito e mai svelato.
La sera , senza che se rendessero conto, era calata, repentina come un sipario a teatro, a concludere una parte della loro vita. In quel buio senza scampo, alterata, si alzò la voce di Gualtiero. A raccontare.
(continua... )

lunedì 24 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (Puntata n°3 - Seconda parte)

Le notizie, soprattutto quelle cattive, hanno le gambe lunghe e conoscono scorciatoie ignote ai più per arrivare dove non dovrebbero... e così la morte di Primo provocò incontri, affrettò decisioni, portò a galla sentimenti repressi fino a quel momento. In quella giornata, apparentemente eguale alle altre, con lo stesso sole dorato  a farsi largo tra il fumo delle ciminiere, non fu soltanto Pioltino a scoprire un coraggio che non sapeva di possedere, furono anche Mario, Domenico e Luigi - e altri ancora - che uscirono dalla fabbrica  diversi da come vi erano entrati. Anche Gualtiero si chiuse alle spalle, quella sera,  la porta dell'ufficio e uscì, il passo lento e misurato di sempre, per tornare a casa, sperando di aver ricacciato i suoi fantasmi in quell'angolo della sua mente dove erano stati fino a quel momento: così come era solito fare in campagna, quando un temporale estivo, scoppiando inaspettato e violento, spaventava le vacche al pascolo, facendole disperdere in una sarabanda di muggiti e terrore, fino a quando lui, un po' blandendole, un po' spintonandole, non le raggruppava per ricondurle alla sicurezza della stalla e del fieno caldo e asciutto.
Ma, mentre i più tornavano alle loro case, qualcuno le abbandonava in tutta fretta, fuggendo dalla città, diventata pericolosa, per sottrarsi agli assassini di Primo, ai loro pugnali, alle informazioni che avrebbero potuto ottenere da qualche compagno, torturandolo per obbligarlo a parlare.
"Arrivederci  Professore... e, mi raccomando, non sia imprudente!"
Il camioncino si mise in moto sbuffando, mentre il rumore secco della portiera che sbatteva, risuonava nel vicolo. Il mezzo attraversò la città, allungando la strada per non passare per il centro, l'aspetto innocente e usuale di un camion carico di frutta e verdura diretto al Mercato Generale. Al volante un  uomo con il basco calato sulla fronte all'uso contadino, gli zoccoli  ai piedi, e accanto a lui un operaio? uno scaricatore? 
A tradire il Professore sarebbero bastate quelle sue mani bianche e morbide, dalle dita lunghe e sottili di chi è abituato a maneggiare l'archetto di un violino o sfogliare le pagine di uno spartito o di un libro da leggere e mai, ma proprio mai, ha usato la zappa o afferrato un martello...
Passò accanto al furgone, superandolo, una macchina nera: uomini in camicia ancora più nera lanciarono un'occhiata distratta, mentre la macchina accelerava per sparire subito dopo in un turbinio di polvere.
"Cristo, quelli erano fascisti!" esclamò l'uomo che guidava, aggiungendo "per fortuna che non ci hanno fermati... Se avessero voluto controllare i documenti...  "
"E' andata bene!" sussurrò l'uomo al suo fianco, raggomitolandosi al  suo fianco sul sedile alla ricerca di una posizione che gli conciliasse il sonno. Ma appena socchiusi gli occhi, Primo affiorò dalla memoria, lo sguardo ironico e allegro, invadendogli il cervello. Rabbia e dolore lo svegliarono di colpo, rendendolo di nuovo lucido, presente a se stesso.
"Pagheranno anche per questo, pagheranno anche per la sua morte!" sibilò, tra i denti, mentre il mezzo, affrontava una leggera salita per infilarsi in un viottolo sterrato. Anche in lui, come in Gualtiero, affioravano ricordi dolorosi, angosciosi che legandolo a quell'uomo lo infilavano di diritto in quella lunga scia di sangue e dolore che era partita da Ninetto e dalla sua ormai leggendaria ribellione.
(continua... )

domenica 23 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (Puntata n° 2 - Seconda parte)

In fabbrica la mattinata era passata in fretta, punteggiata da sguardi muti ma eloquenti, fronti corrugate  e silenzio.
Quel silenzio che sembrava sovrastare persino i mille suoni delle macchine, pesando sull'aria fumosa che ingrigiva i locali dove si lavorava. Tutti avevano evitato di guardare il posto lasciato vuoto dal compagno, i suoi guanti da lavoro un po' logori ancora appoggiati, gettati di traverso, sul banchetto. Per dimenticanza o per sfida?
Quando la sirena dello stabilimento li aveva richiamati al lavoro, i guanti erano scomparsi, il banchetto era stato riordinato e un ragazzo armeggiava rovistando incerto tra gli attrezzi.
Accanto a lui, Gualtiero dava ordini secchi, ostentando sicurezza e controllo della situazione. Il giovane operaio sudava mentre le macchine ripartivano con l'abituale stridore e la tensione si faceva palpabile.
"Qualcuno venga a dare una mano al ragazzo" chiese Gualtiero.
Nessuno si mosse.
"Pioltino, vieni tu!"
Nessuna risposta.
"Pioltino, mi hai sentito?" La voce di Gualtiero parve incrinarsi per poi aumentare di tono, fino a diventare stridula. "Sei sordo?"
Gli operai avevano smesso di lavorare, solo il martello di Pioltino si muoveva monotono e ripetitivo.
Il ragazzo accanto a Gualtiero deglutiva saliva e imbarazzo, volgendo lo sguardo ora sul volto congestionato del capo reparto, ora sulle facce degli operai. Una vena pulsava sulla tempia di Gualtiero, ingrossandosi, mentre la mandibola gli si irrigidiva.
"Benissimo! Pioltino sarai muto, ma non sei ancora sordo, il tuo incarico per la giornata odierna, è di seguire questo "nuovo" e insegnargli il lavoro da fare... " disse Gualtiero; poi, lentamente, si avviò verso la scala che portava al suo ufficio. Salì le scale e, prima di entrare, si voltò dominando dall'alto lo stanzone.
"Vi consiglio di riprendere il lavoro!"
Entrò nel suo ufficio e si chiuse la porta alle spalle, restando in attesa, l'orecchio incollato al muro, mentre la tensione che lo aveva sorretto fino a quel momento lo abbandonava e il suo corpo pesante e tozzo sembrava inquartarsi, scosso da un leggero tremore.
La Rosina entrò nella stanza. Ansiosa e pallida lo guardò, come se lo vedesse per la prima volta e, incerta, aprì la bocca per parlare.
"Ha bisogno... " balbettò, ma venne interrotta, zittita.
"Torna al tuo posto, quando avrò bisogno di qualcosa ti chiamerò... e ora lasciami lavorare!"
Gualtiero, ripreso il controllo, si lasciò cadere sulla seggiola mentre la segretaria lasciava la stanza.
La mano destra, appoggiata sulla scrivania, tremava ancora leggermente. Gli operai non lo amavano da quando era "passato" caporeparto ma, e questa era la cosa importante, lo temevano o, almeno fino a quel momento, l'avevano temuto. Ma ora?
"Me ne frego del loro amore, a me basta quello di Marilena" pensò, mentre il desiderio della moglie si faceva acuto, la voglia di sentire il suo corpo sottile sotto le mani a comunicargli calore, riconoscendolo, accettandolo, consolandolo, gli scorreva nel sangue, in un marasma di emozioni che si manifestavano e si scontravano dentro di lui, dandogli una spiacevole sensazione di vulnerabilità, di pericolo imminente, di sicurezze che credeva acquisite ma che gli si sbriciolavano tra le dita. Ricordi e rimorsi riaffioravano dentro di lui, come chiazze fangose di terra da un  fiume prosciugato dal sole: in agosto, d'estate.
(continua... )

giovedì 20 ottobre 2011

Pasticciando sul blog, con l'abituale imperizia, ho cancellato l'elenco dei blog che seguo. Ora sto tentando di rimediare... Ciao a tutti.

martedì 18 ottobre 2011

Ora Mario Draghi "capisce" i giovani. Ora?

L'altra sera, da Fabio Fazio, Giovanni Floris ha detto: " I mercati... beh, i mercati che cosa sono? Non sono poi così misteriosi, incomprensibli, dotati di poteri illimitati. Sono soltanto luoghi d'investimento del risparmio e, di conseguenza, i capitali che li alimentano si spostano al loro interno sulla base della remunerazione che all'investimento viene offerta, tenendo nel debito conto il rischio e la durata dell'investimento stesso". 

Una volta, tanto tempo fa, i mercati erano il luogo fisico degli scambi di merce: piazze, normalmente, e merce riconoscibile nei pregi e nei difetti: osservando, annusando palpando. Bestiame, prodotti vegetali e manufatti soprattutto, tanto per intenderci. E, naturalmente, compratori e venditori che incrociando offerta e domanda determinavano i prezzi. Il tutto dopo che le difficoltà del baratto avevano fatto venire, a qualcuno un po' più furbo degli altri, l'idea di una merce che fosse denominatore comune di tutte le altre: il tabacco, il sale, le conchiglie e l'oro, soprattutto l'oro; poi, complici i gestori dei Banchi fiorentini trecenteschi,  fu a un pezzo di carta, un semplice pezzo di carta, che venne (arbitrariamente ma istituzionalmente, un vero ossimoro) dato, attribuito un valore.

Era nata la cartamoneta, carta sì, ma ancora capace, frusciando tra le dita, di provocare un'emozione, una sensazione di ricchezza tattile. Ora, un tesserino plastificato, attraverso una serie di numeri ci identifica e ci autorizza a usare la nostra ricchezza. Non più custodita da un materasso, nascondiglio di facile individuazione, ma infilata in un caveau bancario (espugnabile, ma solo con lancia termica!).

Oggi, nell'epoca della moneta scritturale, nell'etere, a velocità  supersonica, con file di numeri allineati sui monitor dei pc da solerti impiegati bancari si crea e distrugge ricchezza come se si giocasse, improvvisamente ritornati bambini, a Monopoli. "Diecimila Btp in vendita alle 9 e trenta del mattino... Il Governatore della Bce cosa dice? Ah! benissimo: aumentano il tasso d'interesse? I prezzi dei titoli sul mercato quindi scenderanno. Cosa aspettate? Vendere, vendere... "

Benissimo un aumento del tasso d'interesse? Per l'economia reale mica tanto: significa pagare rate di mutuo più alte, prestiti alle imprese più onerosi e fare la spesa al supermercato spendendo di più. Ma chi se ne frega dell'economia reale; è quella di carta, l'economia finanziaria, che ha bisogno di oscillazioni forti: al rialzo o al ribasso non importa, anzi, meglio al ribasso per ottenere guadagni più veloci e consistenti.

Ma ci saranno pure dei rischi? Ma svegliatevi! i rischi li affrontate voi, pigmei della finanza, noi banchieri abbiamo allevato e allenato squadre di ragazzini in doppiopetto e camicia azzurra che hanno trovato il modo di scaricarli su altri i rischi. Su di voi, su di voi che accantonate i soldini per la pensione (nelle SGR, nei fondi pensionistici, nelle assicurazioni sulla vita o in quelle integrative pensionistiche), su di voi che ci chiedete informazioni, ma soprattutto consigli. Che noi elargiamo a piene mani. Non vi abbiamo forse consigliato Bond argentini, azioni Cirio e Parmalat?

Ma, dato che l'appetito vien mangiando e i guadagni facili a qualcuno (quasi a tutti!) hanno dato alla testa, i banchieri hanno esagerato. Quando il mercato immobiliare, gonfiato come un palloncino, è scoppiato, e quei "prodotti derivati" (che incorporavano garanzie, le case acquistate a debito, che perdevano valore di ora in ora) hanno cominciato a puzzare (è per questo che come i rifiuti più pericolosi li hanno definiti tossici?), gli americani, che un po' bambinoni lo sono sempre stati, e che dell'indebitamento hanno fatto uno stile di vita e della crescita ininterrotta un sogno (quello americano, appunto!)... beh, si sono trovati con il culo per terra: loro e le banche.

Solo che loro e noi cittadini europei (spagnoli, greci e italiani) siamo colati a picco (molti americani vivono ancora in tenda o in roulotte) mentre le banche sono state salvate dagli Stati dei vari Paesi: indebitandosi per salvarle; a discapito del lavoro dei giovani, penalizzando l'assistenza medica, quella all'infanzia, agli anziani, la salvaguardia del territorio, l'istruzione, la sicurezza delle città e dei cittadini che le abitano.
A me avevano insegnato che "Chi rompe paga e i cocci sono suoi"...
Ma era tanto tempo fa, tanto tempo fa quando ancora i mercati non si criminalizzavano ma si regolamentavano, a tutela del risparmiatore e non a tutela dei guadagni bancari. Per questo motivo molte banche erano pubbliche e esisteva una vigilanza bancaria; quindi regole e controlli. Perché tanta efficienza e celerità nel varare leggi e norme destinate  a "fare cassa" per gli Stati e nessuna regola per imbrigliare i predoni della finanza?  
Ora, anche l'ex Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi "capisce" i giovani. Ma guarda!Ora?

lunedì 17 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n° 1 - Parte seconda )

Gualtiero prese la cartella di Primo e la depose sulla scrivania, afferrò la penna, annotò la data della morte, tamponò con la carta assorbente, appose il timbro "archiviato" e allungò la mano per suonare, ma le sue dita scivolarono lente sul campanello che avrebbe dovuto far accorrere la Rosina.
Archiviato, riposto nella cantina della memoria, cancellato per sempre - pensò, mentre qualcosa baluginava nella sua testa, esplodeva nella memoria un ricordo lontano. Acquattato, là dove si nascondono i segreti, un volto, un nome e le sensazioni di allora: identiche, incancellabili. Primo che si difendeva, Primo che capiva, tremava, veniva ucciso. Come Ninetto, il bracciante dal coraggio leggendario, Ninetto che aveva lottato come un leone prima di morire, afferrando la gola di Desmo con quelle sue mani callose e forti di contadino,  e stringendola, stringendola fino a fargli quasi uscire gli occhi  fuori dalle orbite, il viso ridotto a una maschera contorta e violacea, il respiro che diventava rantolo sempre più affannoso, sempre più lento... fioco. Era a quel punto che lui,  Gualtiero, aveva sparato: quasi senza riflettere, d'istinto. Ninetto era crollato in ginocchio, guardandosi stupito le mani che si andavano colmando di sangue, ma aveva trovato ancora la forza di alzarsi e avanzare barcollando verso di lui, per togliergli dalle mani il fucile. Senza riuscirci.
Poi, quando Desmo aveva ripreso fiato, legato Ninetto a una grossa pietra, l'avevano gettato nel fiume, che ingoiatolo l'aveva trascinato chissà dove. Forse a valle fino al mare o forse, ingabbiandolo tra i canneti, l'aveva inchiodato sul fondo. Da quel giorno Ninetto e il grande fiume erano diventati per lui inscindibili, entrambi custodi di un segreto inconfessabile.
Anche allora, com'era nella natura violenta del suo carattere, l'idea di dare una lezione a Ninetto, una lezione definitiva, era partita da Desmo, ma era stato lui, Gualtiero, a non opporsi e ad accompagnare l'amico sul luogo dell'agguato... Poi, poi tutto era andato storto. Forse Desmo, ubriaco, si era lasciato sfuggire qualcosa, forse al paese la scomparsa di Ninetto era stata attribuita ai fascisti e quindi al loro capetto locale - che era proprio Desmo - o magari era stata una vendetta decisa da altri per colpe di Desmo che lui nemmeno  conosceva. E così era scattato un altro agguato e questa volta Desmo aveva avuto la peggio.
Dopo la morte dell'amico non si era sentito più sicuro, e quando avevano ammazzato anche il "Biondino" aveva avuto paura, una paura maledetta che potessero risalire fino a lui o che il grande fiume, come un dio irato, facesse affiorare il suo segreto. Così, soprattutto per paura e vigliaccheria, aveva lasciato il paese, ingannando anche Marilena.
Le bugie sono come le ciliegie, una si tira dietro l'altra - pensò, gettando il fascicolo di Primo in uno scatolone, mentre la sirena dello stabilimento, sovrastando ogni altro rumore, bloccava gli impianti per la pausa del pranzo.
(continua... )
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venerdì 14 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°40)

"Primo morto?! Morto come?" 
Abitualmente Pioltino saliva, con altri quattro operai, all'ultima fermata del tram e, rumorosamente, dava la sveglia ai compagni che, abitando più lontano, cedevano a un supplemento di sonno appisolandosi, cullati dal dondolio del mezzo, approfittando del tempo che impiegava il tram per completare il suo percorso attraverso le vie cittadine. Ma in quella mattina d'inizio estate, nessuno si era addormentato, nessuno aveva raccontato barzellette o scherzato, e nemmeno litigato, come abitualmente avveniva. 
Tutti sedevano cupi o si aggrappavano ai sostegni metallici, quasi temessero di cadere ad ogni sobbalzo un po' più violento.
"Assassinato!, Assassinato come un cane... "
"Ma chi... ?" chiese Pioltino, più a se stesso che agli altri che lo circondavano.
Giuseppe sbottò: "Chi? Chi secondo voi?"
Un silenzio pesante, spaventato, gli rispose, mentre la sagoma della fabbrica emergeva dalle brume del mattino e il suono della frenata si alzava stridulo nell'aria, seguito da uno scalpiccio di passi, più lenti del solito, quasi esitanti, come se affrontare il lavoro di sempre, la fabbrica e lo sguardo dei compagni fosse diventato più difficile e, improvvisamente, pericoloso. 
Gualtiero non era nel suo ufficio: stava, rigido e vestito di scuro come a una parata ufficiale, nel locale che consentiva l'accesso allo stabilimento. Faceva un breve cenno con il capo, ripetuto, monotono, come se salutasse ogni operaio. Il suo volto, privo d'espressione, appariva pallido, quasi cereo, gli occhi scuri, solitamente attenti a cogliere ogni particolare, sembravano fissarsi sul nulla, inquietanti più che rassicuranti...
Poco dopo il lavoro riprendeva, con le macchine che dialogavano nuovamente tra loro, sbuffando e sibilando, e i carrelli che scivolavano lungo il pavimento tra manciate di scintille pronte a incendiare l'aria... come sempre, come ogni mattina. 
Uguale eppure diverso. 
Al suono della sirena si notò il cambiamento: mancava il suono delle voci. Una cappa di silenzio avvolse la fabbrica, infilandosi in ogni fessura, in ogni angolo...
Minaccioso, più di mille parole urlate, quello fu il canto funebre per Primo. 

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n° 39)

Un urlo di donna squarciò il silenzio, rimbombando nella strada improvvisamente animata: imposte, come occhi insonnoliti infastiditi dalla luce, si schiusero, gente si affacciò ai davanzali e si  sporse dai parapetti dei terrazzi. Domande s'incrociarono nell'aria senza ottenere risposte se non quel nome, quel nome che passava  di bocca in bocca, di casa in casa... E' Primo, è Primo! Lo hanno assassinato!
Due uomini lo raccolsero, mentre dalla tasca del suo camiciotto scivolano le chiavi di casa. Qualcuno spalancò il portone; la gente del caseggiato, i più coraggiosi o forse soltanto i più indignati, già sulle scale, facendo ala al suo passaggio si appiattiva contro il muro.
Gli uomini che lo avevano raccolto, lo deposero sul letto, con delicatezza,  e accesero la luce sul comodino. Una donna spalancò a le imposte, quasi mimando un rientro normale dopo una giornata di lavoro.
Qualcuno aveva chiamato la Gendarmeria, ma fu  un medico ad arrivare per primo. Gli bastò un'occhiata per valutare la situazione. "Lo hanno aperto come un maiale da macellare" borbottò, chiedendo dell'acqua per lavarsi le mani.
Una donna piangeva, un'altra pregava, e nell'atrio pieno di gente due gendarmi, finalmente arrivati sul posto, cominciarono a raccogliere testimonianze confuse... Nessuno sembrava avere visto in faccia gli assalitori.
"Sarà stata una rapina" ipotizzò una delle due guardie, mentre dalla gente che li circondava saliva una voce: "Per rubargli cosa? La sola ricchezza di Primo era il suo coraggio!" Un' imprecazione tagliò l'aria; qualcuno gridò: "Gliela faremo pagare!", mentre altri uscivano dall'appartamento per tornarsene a casa, spaventati da quelle parole e dalla richiesta dei gendarmi di fornire le proprie generalità.
Pochi minuti dopo l'ingresso si svuotava all'ordine di "Sgomberare, sgomberare!" intimato da uno dei due uomini in divisa, mentre l'altro raggiungeva la camera da letto per parlare con il medico che stava redigendo il certificato di morte.
Un uomo con l'impermeabile, vedendo i gendarmi, abbassò la tesa del cappello sul volto e, con calma, raggiunse  la porta d'ingresso dell'appartamento, confondendosi tra la gente.
Pochi minuti dopo spariva protetto dal buio della strada.
(continua... )

sabato 8 ottobre 2011

Ancora sui confini, immaginari o meno

Scarna , scheletrita, privata di ogni fronzolo, resa dura ma splendente come un diamante illuminato dalla luna in una notte solitaria, la scrittura  di Cormac Mc Carthy mi prende alla gola in Città della pianura, romanzo che conclude la "trilogia della frontiera".
E così il tema del confne - che mi porto dentro da sempre, che mi sorregge e mi schianta - ritorna. Torna una divisione che non può separare la terra, i suoi fiumi, gli alberi, la sabbia - e il vento che la solleva e la pioggia che la bagna e il sole che la fa ardere - ma può dare l'illusione di una diversità così profonda da diventare identità. Nel romanzo un fiume divide - come una ferita - una terra dall'altra, il Texas dal Messico.
Due lingue che si confondono, due culture che s'incontrano scontrandosi, gelose di un'identità in cui, più che mai, la geografia dei luoghi ne determina la Storia. Nei ranch, spersi nella polvere, uomini e cavalli stringono non solo alleanze di necessità, ma amicizie che intiepidiscono le notti passate sotto le stelle, quando si dorme avvolti in una coperta, la sella per cuscino, i lupi che ululano, i serpenti che strisciano... e il calore è solo quello del fuoco che si sta spegnendo e del cavallo che respira - o sospira? - battendo gli zoccoli sulla terra dura e secca per rassicurarti e rassicurarsi. In quelle solitudini di cieli sconfinati e bui e di terre inospitali e solitarie, vivono i cowboy... e lì nascono le loro storie, esplodono le passioni, affiora la saggezza della vita e l'incapacità di accettarne i limiti, la noia del vero e il bisogno di mistero, il mistero che ti rende vivo solo per dilazionare la tua morte fino al momento della comprensione perché "chi sa... muore". Altrimenti che senso avrebbe vivere?

martedì 4 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°38)

'E anche questa giornata di lavoro è finita, vacca boia!' - pensò Primo, incamminandosi verso casa. Aveva volutamente evitato l'osteria dove si fermava di solito a bere un bicchiere con gli operai dello stabilimento, ben sapendo  che Giuseppe, invece, sarebbe passato di lì, si sarebbe seduto a un tavolo e, per tutta la serata, avrebbe infilato qua e là, al posto giusto e al momento giusto, la parola più adatta per fare credere ai compagni di lavoro di avere preso le distanze da lui, Primo.
L'aria si faceva sempre più pallida, smorta, la sera allungava sulla città le prime ombre. Primo camminava di buon passo, fermandosi, ogni tanto, con l'apparente scusa di dare un'occhiata a una vetrina, per controllare che nessuno lo seguisse.
Eccolo! Allora non si era sbagliato! Solito cappello ben calcato in testa a coprire il volto, stesso impermeabile, stesso passo lento cadenzata al suo. Lo stava seguendo, era evidente! Il sangue accelerò, la paura gli fece tremare le mani, già strette a pugno, nelle tasche del camiciotto. Cosa voleva quell'uomo? Era un agguato che intendeva tendergli? Aspettava un complice, nascosto in qualche androne, per saltargli addosso, una pugnalata o un colpo di pistola e via!? Non doveva accelerare il passo, non doveva fermarsi, non doveva, non avrebbe dovuto permettere al terrore di aggrovigliargli i pensieri nella testa.
Aveva paura Primo, la paura che prova ogni preda quando capisce di essere stata avvistata dai cacciatori, quando sente alitarle sul collo il fiato dei cani da caccia, e corre, corre con tutte le sue forze, anche se sa, è ben conscia, di correre verso la morte.
Gli passarono davanti agli occhi il volto di sua madre china su di lui a rimboccargli le coperte, e un volo di rondini, l'ultimo prima di emigrare lasciandosi l'inverno alle spalle, una sarabanda di rondini impazzite che scendevano in picchiata verso il prato, trafitte dagli ultimi raggi di un sole estivo... e la Maria, il corpo bianco sull'erba ancora fitta, che gli si stringeva addosso, tremante, sussurrandogli: "Non ti vedrò più, ho un brutto presentimento... Scappa Primo, nasconditi. Nasconditi!"
E, all'improvviso, sbuca da un portone un altro uomo, e un altro ancora... Sono in tre e lui è solo. Li ha addosso, tenta di difendersi, ma non ce la fa, non può farcela. Il pugnale affonda e non fa quasi male perché uccide lui, Primo, ma uccide anche la paura. Ha ancora il tempo per pensare "Vacca boia, le donne... Le donne non sono soltanto belle, stupendamente belle, hanno anche intuito! Le donne sanno... sentono. Come la Maria!"
Scivola lungo il muro, piomba a terra. Uno scalpiccio intorno a lui ed è tutto finito.
(continua... )

lunedì 3 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°37)

Gli operai, fino a quando la stagione lo consentiva, mangiavano fuori, in un cortile interno, polveroso e secco, adibito a deposito momentaneo di macchinari non più funzionanti o superati tecnologicamente. Coloro che  arrivavano per primi  si accaparravano improvvisati posti a sedere tra una lamiera e l'altra, spintonandosi tra loro e prendendosi a male parole. Ma erano tafferugli che nascevano dal bisogno di sgranchire i muscoli contratti e scaricare la tensione del lavoro svolto. Chi arrivava in ritardo si doveva accontentare, sistemandosi alla meglio per terra, con la schiena contro il muro dello stanzone  del reparto che si affacciava sul cortile. Il profumo del cibo si spandeva nell'aria, dalle tasche dei camiciotti sbucavano i cucchiai e incominciava la solita litania contro le donne che avevano preparato il cibo.
"Sempre minestrone... e con dentro l'orzo" sbottava Pioltino.
"E cosa vuoi che ti prepari tua moglie, un pasto da re, con quei quattro soldi che le consegni a fine mese?"
"Che fantasia!" replicava imbronciato Pioltino, aggiungendo: "Almeno ci mettesse il riso al posto dell'orzo".
"Lascia che la fantasia se la tenga per la notte... e, per quanto riguarda il cibo, 'tutto ciò che non soffoca, ingrassa' ".
Primo rise, poi, rivolgendosi a Giuseppe gli disse: "Sei silenzioso, oggi: c'è qualcosa che non va? Anche tu non hai trovato il pasto di tuo gusto?". Giuseppe non rispose, limitandosi a un gesto sgarbato con la mano, quasi volesse zittire il compagno. In silenzio continuò a addentare il pane, scuro e gramo, che conteneva una fetta di formaggio sottile come un'ostia da chiesa.
Benedetto osservava.
Per qualche minuto le bocche masticarono cibo e non parole, un fiasco di vino cominciò a girare e si accese qualche cicca. 
"Allora ragazzi, vengono a farci visita gli alti papaveri... " disse Primo, ma fu interrotto da Giuseppe che, stizzito, borbottò: "Ma finiscila Primo! Non sai parlare d'altro? Venga chi vuole, tanto la nostra vita non cambia".
"Non è vero, non è vero, ma bisogna lottare... " rispose Primo, ma l'altro, masticando parole tra i denti, l'aria evidentemente contrariata, si era già levato in piedi. Qualcuno si alzò per seguirlo, sospirando.
Benedetto si avvicinò al gruppo e chiese: "Contro chi dobbiamo lottare?"
"Contro i padroni per primi e poi contro i fascisti che, o sono padroni, o sostengono i padroni".
"Primo, sii prudente... " sussurrò una voce.
La sirena che concludeva la pausa pranzo sferzò l'aria, imperiosa, facendo accelerare il gruppo.
Dopo pochi secondi lo stabilimento riprendeva a ansimare come un pachiderma ferito.
(continua... )


sabato 1 ottobre 2011

Storia di nebbie e acquitrini.(puntata n°36)

Gualtiero si accarezzò il mento, pensieroso: Benedetto era solo un ragazzotto spaurito, privo d'iniziativa  e non molto sveglio, Giuseppe non era riuscito ancora ad inquadrarlo... gli sfuggiva, come sembrava fare, però, anche con Primo. L'aveva visto a volte, vuotata la gamella, alzarsi, piantando in asso i compagni - Primo compreso - e prendere la porta, tornando al suo posto di lavoro, l'espressione infastidita di uno al quale " 'an roto i bali".
Su Primo, invece, non aveva dubbi. Quello era proprio un antifascista con tutti i santi crismi: deciso a farsi ammazzare pur di spazzare via Mussolini e le sue "camicie nere"; la testa piena di sogni: l'eguaglianza, la solidarietà, lavoro per tutti, donne e uomini eguali... fandonie, chimere, roba da romanzo. E sì che era nato in campagna: era uno del suo paese, figlio di contadini come lui, come lui abituato a cuocere sotto il sole falciando il grano, a infangarsi di merda nelle stalle, a lavarsi con l'acqua gelata e andare a dormire con lo stomaco vuoto, pasteggiando a castagnaccio. Ma anche il padre era stato un antifascista, se lo ricordava, e nemmeno la lezione che gli avevano dato gli era servita; gli avevano fatto cagare anche il pranzo di Natale -  a suon di olio di ricino - ma le idee che aveva in  testa, no! quelle gli erano rimaste conficcate nel cervello e, evidentemente, le aveva passate al figlio, così come si passa il colore degli occhi o la forma delle mani.
Lui non ricordava quasi nulla di quella spedizione punitiva in casa di Primo: avevano già fatto irruzione in altre case del paese e aveva bevuto troppo; forse si era anche addormentato per qualche minuto, raccattato poi da Desmo che se lo era ficcato in spalla come un sacco di grano, ridendo. Ma lui, Primo, ricordava, sapeva? Doveva sapere! Quegli occhi scuri, febbricitanti, che gli piantava in faccia, insolente, senza nemmeno togliersi il basco dalla testa, tradivano un odio, un odio impossibile da ignorare. E disprezzo, un disprezzo senza fondo!
"Avanti" borbottò, in risposta a quel discreto battito di nocche che veniva a distrarlo dai suoi pensieri.
"Ci sono queste lettere da firmare".
La Rosina gli era già accanto, bianca di pelle, rossa di capelli che, mentre si chinava, gli sfioravano il viso facendogli venire una gran voglia di tuffarcelo, il viso, in quel mare rosso e di afferrarle il volto e prendersi la sua bocca, mangiarsela, così come in campagna, d'estate, si mordono le ciliegie, imbrattandosi le labbra di rosso.
Ma lei era già dall'altra parte della scrivania, le guance accese e gli occhi sfuggenti, quasi avesse intuito il suo desiderio e si fosse ritratta, di botto, come chi, inavvertitamente, sfiori il fuoco.
"Vai, vai!" le impose brusco, riprendendo il controllo di sé, mentre nell'aria, rimbombava il suono della sirena che dava il segnale della pausa per il pranzo del personale.
(continua... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/09/storia-di-nebbie-e-acquitrini-n35.html


Attenzione ai "gattopardi"

Eh no, ragazzi, un uomo solo non avrebbe mai potuto fare tanto! Berlusconi sarà stato un lavoratore inde(fesso), avrà avuto sullo stomaco un pelo da far impallidire un orso, sarà stato (ed è) un bugiardo da Guinness dei primati, ma è stato solo il presidente del Consiglio di un Paese democratico.Una democrazia giovane, ma non giovanissima; fragile, ma protetta ancora da leggi efficaci e poteri divisi e autonomi, anche se sotto attacco.

E allora? Milioni di persone obbligate a votarlo, questo Berlusconi? No, milioni di persone che hanno scelto di votarlo. Milioni di persone plagiate da un pifferaio magico? No, milioni di persone che hanno scelto di ballare sulle note della sua musica.

Come i morti viventi, già identificati dalla mafia, il Presidente è già un tradito, saranno i suoi a farlo fuori, com'è nella migliore tradizione di ogni tradimento che si rispetti.

Sarebbe più utile iniziare a spostare l'attenzione sui traditori, sui servi ancora apparentemente plaudenti, sugli oppositori ancora belanti e balbettanti, e sul  Paese, quel Paese che lo ha votato (e che ora lo abbandona), e quel Paese che non lo ha votato, ma lo ha tollerato... 

Aguzzate lo sguardo, ragazzi, e travestiti da iene, sciacalli e pecore, vedrete circolare ancora indisturbati i "gattopardi", i più astuti, i più pericolosi; sì, proprio loro: già pronti a cambiare tutto per non cambiare niente...