Gualtiero si accarezzò il mento, pensieroso: Benedetto era solo un ragazzotto spaurito, privo d'iniziativa e non molto sveglio, Giuseppe non era riuscito ancora ad inquadrarlo... gli sfuggiva, come sembrava fare, però, anche con Primo. L'aveva visto a volte, vuotata la gamella, alzarsi, piantando in asso i compagni - Primo compreso - e prendere la porta, tornando al suo posto di lavoro, l'espressione infastidita di uno al quale " 'an roto i bali".
Su Primo, invece, non aveva dubbi. Quello era proprio un antifascista con tutti i santi crismi: deciso a farsi ammazzare pur di spazzare via Mussolini e le sue "camicie nere"; la testa piena di sogni: l'eguaglianza, la solidarietà, lavoro per tutti, donne e uomini eguali... fandonie, chimere, roba da romanzo. E sì che era nato in campagna: era uno del suo paese, figlio di contadini come lui, come lui abituato a cuocere sotto il sole falciando il grano, a infangarsi di merda nelle stalle, a lavarsi con l'acqua gelata e andare a dormire con lo stomaco vuoto, pasteggiando a castagnaccio. Ma anche il padre era stato un antifascista, se lo ricordava, e nemmeno la lezione che gli avevano dato gli era servita; gli avevano fatto cagare anche il pranzo di Natale - a suon di olio di ricino - ma le idee che aveva in testa, no! quelle gli erano rimaste conficcate nel cervello e, evidentemente, le aveva passate al figlio, così come si passa il colore degli occhi o la forma delle mani.
Lui non ricordava quasi nulla di quella spedizione punitiva in casa di Primo: avevano già fatto irruzione in altre case del paese e aveva bevuto troppo; forse si era anche addormentato per qualche minuto, raccattato poi da Desmo che se lo era ficcato in spalla come un sacco di grano, ridendo. Ma lui, Primo, ricordava, sapeva? Doveva sapere! Quegli occhi scuri, febbricitanti, che gli piantava in faccia, insolente, senza nemmeno togliersi il basco dalla testa, tradivano un odio, un odio impossibile da ignorare. E disprezzo, un disprezzo senza fondo!
"Avanti" borbottò, in risposta a quel discreto battito di nocche che veniva a distrarlo dai suoi pensieri.
"Ci sono queste lettere da firmare".
La Rosina gli era già accanto, bianca di pelle, rossa di capelli che, mentre si chinava, gli sfioravano il viso facendogli venire una gran voglia di tuffarcelo, il viso, in quel mare rosso e di afferrarle il volto e prendersi la sua bocca, mangiarsela, così come in campagna, d'estate, si mordono le ciliegie, imbrattandosi le labbra di rosso.
Ma lei era già dall'altra parte della scrivania, le guance accese e gli occhi sfuggenti, quasi avesse intuito il suo desiderio e si fosse ritratta, di botto, come chi, inavvertitamente, sfiori il fuoco.
"Vai, vai!" le impose brusco, riprendendo il controllo di sé, mentre nell'aria, rimbombava il suono della sirena che dava il segnale della pausa per il pranzo del personale.
(continua... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/09/storia-di-nebbie-e-acquitrini-n35.html
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