sabato 22 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Daviça e Blanko s'intrufolarono al centro della stanza, facendosi largo tra le coppie che ballavano. Blanko, capo del villaggio, veniva trattato da tutti con la deferenza un po' invidiosa che circonda chi esercita il potere. La sua stazza, decisamente al di fuori della media, la capigliatura rosso fuoco, che in battaglia aveva consentito ai suoi uomini d'individuarlo e seguirlo come se quel demonio fosse sbucato dritto, dritto dall'inferno per guidarli all'attacco, avevano attirato su di lui l'attenzione dei funzionari della Serenissima di cui era diventato l'interlocutore privilegiato, contribuendo a assicurare la coesistenza non sempre pacifica, ma fruttuosa, tra l'etnia slava dei villaggi interni e quella istro-veneta che popolava le coste.
Blanko, nel paese che viveva di agricoltura e pastorizia, si occupava del commercio del legname che ricavava dai boschi che circondavano il villaggio e che, portato a valle con un sistema di carrucole e funi molto ingegnoso, veniva caricato sui velieri che partivano , facendo rotta verso Venezia, per rifornire l'Arsenale. Ma in quella sala dove l'aria sapeva di spiedini d'agnello e la grappa di prugne scorreva a litri, mentre le portate dell'interminabile pranzo di nozze venivano servite dalle donne e il virtuosismo dei musicisti incatenava le coppie al centro della stanza in balli ora sfrenati, ora struggenti e appassionati, gli occhi di Blanko e il bagliore ammaliante del sorriso, lontani da doveri, litigi e mediazioni erano presi solo dal corpo pieno della moglie che, nel ballo, sfiorava il suo.
"Era tutto tranquillo fuori, Blanko?"
L'uomo annuì facendola roteare nella danza, la sua risata che sovrastava piena il fracasso che aleggiava mentre le coppie si scambiavano le donne intrecciandosi nella danza. Dariça si moveva leggera, flessuosa e gli occhi degli uomini la seguivano di soppiatto golosi. Era stata un'ottima ballerina in quella breve stagione in cui alle sagre e alle feste aveva ballato ritovandosi sempre più spesso tra i piedi quel gigante d'uomo che per lei aveva fatto a pugni più di una volta, rendendola orgogliosa della propria avvenenza.
I bambini e i ragazzini giocavano a rimpiattino sotto ai tavoli seguiti dallo sguardo vigile delle anziane del villaggio che confabulavano tra loro spettegolando e lasciandosi andare ai ricordi. Balenavano negli occhi, imprigionati dalle rughe, gli amori, i tradimenti e le passioni che la musica, i balli, il vino facevano affiorare, mentre i novizi uscivano diretti alla casa dello sposo.
Blanko si chinò verso la moglie e le sussurrò: "E se mandassimo te a istruire la novizia sui doveri coniugali?"
"Ho ancora molto da imparare" la donna gli gorgogliò di gola in risposta, drappeggiandosi lo scialle sulle spalle, mentre cercava il figlio con lo sguardo. Blanko si chinò verso il ragazzino che li aveva raggiunti e se mise a cavalcioni sulle spalle, ridendo e dando di gomito alla moglie, mentre il bambino lo afferrava per i capelli con uno sguardo che tradiva la sua apprensione. Ora la sposa, precedendo il gruppo dei parenti, si era incamminata lungo il viottolo che le prime ombre della sera confondevano con i prati che, punteggiati di margherite nella primavera avanzata, lo costeggiavano. Qualcuno cominciava a ciondolare, le gambe stroncate dal vino e la voce roca da ubriaco che rispondeva stizzita ai rimproveri della moglie.
L'interminabile festa di nozze si spostava a casa dei parenti dello sposo, ma i novizi avrebbero salutato tutti e si sarebbero ritirati a consumare il matrimonio al piano superiore della casa. Nel letto d'acero bianco le lenzuola candide sarebbero state esposte al mattino alla finestra, macchiate, a riprova della purezza della sposina. Le beghine del villaggio sarebbero andate alla prima messa per controllare e avrebbero pregato non si sa se per quella notte d'amore o per l'invidia di non averla potuta avere.

Ultima recita a Venezia

Erano anni che non tornava a Venezia, in quella città che era stata fondale perfetto delle sue recite e, quindi, dei suoi cambiamenti. Almeno i più importanti. La prima volta in cui l'aveva vista le aveva dato in dono le radici, a consentirle un'appartenenza che fino a quel momento non aveva posseduto. Era da quelle viuzze strette, avare di sole, che venivano i bisnonni, e a quelle tose chiare, bionde e snelle lei assomigliava nel fisico, mentre nel carattere che andava delineandosi il gusto dell'ambiguità, il desiderio di mascherarsi e svelarsi cominciavano a affiorare, anticipando quella sensibilità sofferta che sarebbe stata la struttura portante della sua caratterialità.
Aveva attraversato i suoi ponti e goduto dei suoi tramonti da innamorata, più dell'amore che degli uomini che glielo avevano fatto scoprire, mentre i palazzi, come comari chiacchierone schierate ad assistere a uno spettacolo, facevano ala allo splendore della sua giovinezza.
Era tornata a Venezia con gli alunni e con i figli, a spiegare, didattica, con la guida tra le mani, a chi quella bellezza non voleva o poteva cogliere, particolari di un insieme che era rimasto nebuloso, indistinto. Forse a causa sua? Avrebbe dovuto esprimere le emozioni che la attanagliavano a tradimento scoprendo piazzette sfiorate dal sole, abitate da gatti acciambellati sui davanzali tra vasi di basilico nell'umidore greve delle calli? Avrebbe dovuto indurli a tacere per sentire la voce dell'acqua e i sussurri che gli amanti, imprigionati nei giochi e nelle bugie dell'amore, si scambiano nelle notti estive?
Ma lei non amava scoprirsi o forse non poteva farlo. Quando le bugie nella gondola barocca l'avevano fatto arrossire più dei velluti svelati dalla luna, quella luna troppo grande per i riquadri stretti di cielo che le calli possono concedere, lei si convinse che la verità, come la luna, si deve prendere a piccole dosi...
Poi gli anni passarono, troppo impegnata a crescere i figli per avere tempo e voglia di cambiare, finché una mattina prese il treno e tornò a Venezia. Splendeva la città, appena sfiorata di sghembo da quella luce che gli ori impreziosivano, sfumandola nell'aria. Sbilenca ondeggiava facendole percepire la fatica e l'orgoglio della sua lotta quotidiana con l'acqua che la segnava di ferite. Rispecchiandosi in quelle ferite, lei capì che la libertà non può che essere lotta quotidiana e sorridendo annuì, lanciando un pezzo di pane a un gabbiano, mentre prendeva il notes e cominciava a scrivere. Era questo che voleva fare nell'ultimo scampolo di esistenza che la vita le concedeva - pensò, mentre il sipario calava, come sempre quando si è capito tutto o quasi, implacabile, sulla ultima recita della sua vita.