giovedì 8 marzo 2012

Una ammattì, ma senza mai dare in escandescenze...

Se qualcuno mi regala un rametto di mimosa, giuro su Dio, che me lo mangio con tutte le foglie - pensò, mentre zittiva la sveglia e a tentoni, nel buio, cercava le ciabatte. Si alzò e andò in cucina, la gatta che le si strusciava sulle gambe cercando cibo e coccole. Come biasimarla? In estrema sintesi, non era ciò che anche lei, ogni mattina, per anni, aveva desiderato e cercato, anche oggi, otto marzo del duemiladodici?
Il caffè gorgogliò sommesso nella moka, la gatta ricevette il suo cibo e una distratta carezza, lei si accontentò di quel caffè... amaro e scuro. Quante donne stavano compiendo quello stesso gesto, sentendo nella bocca quello stesso gusto amaro? - si chiese. Aveva troppo tempo per pensare. Nella vita delle donne c'è sempre qualcosa di troppo. O di troppo poco. Anche nella vita degli uomini? Passati gli anni ruggenti del femminismo, diventata vecchia e, suo malgrado, un po' saggia, li guardava (gli uomini) in modo più distaccato, ancora e sempre alla ricerca di un dialogo, un confronto tra diversi, forse impossibile, ma certamente auspicabile. Di quegli esseri alieni continuava a capire poco, solo l'amore e il desiderio avevano creato, a volte, un fragile e momentaneo legame esaltando, non appiattendo, la differenza.
Ora, come una vecchia ritenuta saggia, guardava e ascoltava: storie diverse nell'intreccio, ma fondamentalmente simili nella sostanza. 
I ricordi arrivavano a folate... La cucina azzurra di nonna Lucrezia, la matriarca che aveva partorito dodici figli, seppellendone quattro. Degli otto rimasti solo  i maschi si erano salvati, le quattro femmine erano state stritolate, in buona parte dalla Storia, ma anche "mammina" ci aveva messo del suo. Eppure tutti quei figli li aveva amati, difendendoli come una lupa selvatica... Sradicata dalla sua terra, non si era mai inserita in quella realtà triestina, tra quelle donne considerate le più belle, fiere e libere del Mediterraneo. Aveva chiuso sotto chiave le figlie, facendole appassire come "pensée" scordate in un libro mai più sfogliato, preoccupata più della loro verginità in pericolo che della loro felicità. Eppure, oggi lo poteva ben dire, l'aveva fatto con le migliori intenzioni, pensando di agire "per il loro bene". Le zie le ricordava sottomesse, dolcemente infelici; sempre affettuose e silenziose. La più intelligente era ammattita, ma senza mai dare in escandescenze, e tutti avevano accettato la cosa con un dolore contenuto e una vergogna mai apertamente dimostrata.
Portarla da Weiss, l'allievo di Feud cui spettò il merito di introdurre, partendo da Trieste, la psicanalisi in Italia, no? No, nemmeno lo zio, diventato il maggior esperto di Borsa sotto Francesco Giuseppe, ci pensò.
No, il coraggio, quel suo coraggio che ancora, a tratti, lo sguardo tradiva, glielo aveva lasciato in eredità la nonna materna, quel donnino d'acciaio che aveva sfidato i benpensanti del paese sposando, lei vedova quarantenne e madre di due figlie, un uomo molto più giovane. Era rimasta famosa in famiglia la frase lapidaria "El me piasi e me lo ciogo" con cui aveva troncato ogni tentativo di farle cambiare  idea.
Le due figlie, sua madre e sua zia,  non le avevano mai perdonato questa scelta o, forse, il coraggio che sottintendeva subendo, inacidite, due matrimoni borghesemente infelici.
Ora le vecchie di casa erano sua sorella e lei: nubile la prima, divorziata la seconda, nonché madre di tre figli: uno celibe, una divorziata e una nubile.
Le prime, sua sorella e lei, a entrare nel mondo del lavoro: posto fisso, senza grandi (né piccoli) voli. Sue figlie, nonostante gli studi fatti, nemmeno quello: licenziata una, in "nero" l'altra. Il maschio, come lo zio triestino, nel campo della Finanza. All'estero.
Tre nipotini: due maschi e una femmina, che non vedeva mai.
Otto marzo segnava il calendario; ormai era giorno fatto. Per la strada poca gente, quasi nessuna donna...
Qualcuna nemmeno si muove, tanto domani è il nove! - pensò, respirando la sua solitudine.