sabato 31 luglio 2010

I topi abbandonano la nave di Capitan Berlosco

I topi più astuti avevano abbandonato la nave, dopo aver sentito non soltanto puzza di naufragio ma anche quelle parole sconnesse che il comandante, Capitan Berlosco, tronfio di orgoglio e prosopopea, aveva pronunciato solcando in lungo e in largo, la falcata a misura delle corte gambette, il ponte della nave. A essere sinceri non che fosse una novità, spesso il suo braccio destro l'aveva soppesato meravigliandosi che un ometto, così corto e inquartato dagli anni, riuscisse a racchiudere in sé una simile carica di arroganza, ma era stata proprio quell'arroganza a sostenere e soddisfare l'avidità del capo, la sua  inesauribile voglia di dominio, di potere e di denaro, di cui tutti, in maggiore o minore misura, avevano beneficiato.
Se una dote non si poteva non riconoscergliela - pensò Fino, così chiamato sia per il fisico longilineo ed elegante, sia per la capacità d'individuare, con sicuro intuito politico e prima degli altri, i segnali di un cambiamento,  era quella di soggiogare, quasi irretire, da grande istrione qual era, il suo interlocutore. Eh sì, il capo, alla testa dei suoi Bassotti - per non sfigurare i collaboratori era solito sceglierseli della sua altezza, ma per lui, Fino, aveva fatto un'eccezione, viste le evidenti qualità - aveva scorrazzato, instancabile e inafferrabile,  per tutti i mari, assaltando e depredando velieri e creandosi anche la fama di corsaro, quando in realtà era stato sempre e solo un predone, il capo indiscusso della Banda Bassotti.  Da quel bugiardo patentato che era,  Capitan Berlosco la sua discesa in campo l'aveva giustificata dichiarandosi al servizio di un Regno e del suo sovrano, dando alla "corsa", la razzia che era solito fare, un alone tra il rocambolesco e il donchisciottesco che avevano contribuito a fare di lui una figura quasi leggendaria. Ma poi aveva esagerato, perdendo il senso della misura, ignorando ogni regola, addirittura quelle di chi, più potente di lui, ne aveva tollerato la presenza, in cambio di denaro, molto denaro, prendendone però le distanze e iniziando a guardarsi attorno alla ricerca di complicità meno imbarazzanti.
E Fino, l'occhi azzurro freddo e tagliente che  sapeva guardare lontano... aveva capito.
Il braccio destro, diventato "sinistro" in una notte, si allontanava portandosi appresso i i suoi uomini, una vigorosa bracciata dietro all'altra sotto le stelle che tremolavano sussurrando "On n'est jamais trahi que par le siens!".

giovedì 29 luglio 2010

Identità di frontiera

                             Trieste è una città particolare della quale è facile parlare aderendo a un cliché: il mare,  il Carso e, a ruota, le mule triestine lunghe di gamba e di lingua, il Centro di Fisica ... e via discorrendo, per concludere, mi sembra scontato, con la bora che soffia, più o meno impetuosa, sulla città che profuma di  Mittteleuropa come un caffè viennese di Sachertorte.
Era con gli occhi di una giovane studentessa che io avevo osservato quella città e l'entusiasmo che ancora vivacizza i miei "amarcord" affonda le radici nella sensazione che allora provavo: poter cogliere, come un frutto da un albero, tutto ciò che la vita mi offriva. In realtà questa bellissima città, adagiata tra il mare che la riflette e il Carso che la incorona,  se non dorme sugli allori (come una  Bella addormentata nel bosco) certo sonnecchia, alternando occhiate compiaciute a un'immagine di sé che la soddisfa, a garbati sorrisi  (evitiamo la scontrosa grazia che le ha attribuito uno dei suoi illustri figli) con i quali ricambia i complimenti che le vengono indirizzati.
E' città che non sa volgere lo sguardo al futuro, preferendo vivere di passato come si può desumere, anche da esempi banali, scorrendo ad esempio la posta dei lettori fatta pervenire al Piccolo - il quotidiano più letto in città -, e scoprendo che dietro a un "foresto" non si nasconde un marocchino o un polacco o un cinese (come sarebbe ovvio ipotizzare in qualunque altra città italiana) bensì un istriano, uno dei discendenti di quell'ondata di profughi che alla fine della seconda guerra mondiale abbandonarono l'Istria, temendo le rappresaglie degli slavi. Con un dialetto, forse, più simile al veneziano poiché su quelle terre la Serenissima aveva esteso il su dominio, ma non altro, eppure... Eppure la città è ancora lì a considerare i friulani i cugini di campagna, gli sloveni "i s'ciavi" e Roma "un po' ladrona", poiché non dobbiamo dimenticare che la prima forma di "leghismo" nell'Italia settentrionale vide la luce a Trieste con il "Melone", lista autonoma che coagulava consensi attorno a un programma comune incentrato sul rilancio della città per riportarla all'antico splendore. Lo sguardo corto, rivolto alla tutela del proprio personale interesse, non fa onore a quei cittadini che, con entusiasmo, aderirono alla lista civica aprendo la strada, di lì a poco, a personaggi inquietanti  come "il senatur".
Come la rivale Venezia, Trieste si considera città dal passato imponente, ma la sua storia ci rivela che non molto ebbe a che vedere con la raffinatissima nobiltà veneziana, i suoi cicisbei, la musica di Benedetto Marcello, Vivaldi e Albinoni  (tanto per citarne alcuni) che nei palazzi lungo il Canal Grande, tra parrucche incipriate e dame invitanti che occhieggiavano dietro ai ventagli, riempiva di sonorità aggraziate  i salotti dove si ballava il minuetto e si discuteva dell'ultima commedia di Goldoni mentre, appena più in là,  l'Arsenale sfornava navi a getto continuo, come un forno biscotti e, nel Senato veneziano, la più ricca, raffinata e incredibile tra le "Repubbliche marinare" faceva esercizio di democrazia.
Diversa storia vanta Trieste che si sviluppò soprattutto come città mercantile, quando Carlo VI, deciso a farne lo sbocco sul mare dell'Impero, attribuendole la qualifica di porto franco, aprì la strada allo sviluppo di una solida economia basata sul porto e i commerci. Le caratteristiche del luogo in cui viviamo  finiscono per influenzare le nostre scelte: Venezia, imprigionata tra cielo e mare, i canali che svaporano, i palazzi che emergono dalla nebbia come miraggi che la stanchezza accende negli occhi di un viaggiatore stanco, è  luogo che evoca il conflitto di creature non più di terra ma non ancora d'acqua, l'odio/amore per quella città d'oro e di azzurro.
Ben diverso, vitalistico e improntato ad una autentica joie de vivre è il rapporto con la natura dei triestini che, abituati fin da bambini a vivere sensazioni forti, cercano l'abbraccio del vento non appena smette di ululare e placare la sua forza e saggiano la forza dei muscoli "scarpinando" lungo i sentieri del Carso o calando in mare, dopo averle ripulite e ridipinte con la cura che le casalinghe dedicano alle pulizie pasquali, le barche, con le vele gonfie di vento che chiazzano di bianco l'azzurro come nevicate di margherite i prati a primavera.
I triestini si fondono con il  mare, si abbandonano al vento e, quando se ne vanno a cercare lavoro altrove, da vecchi ritornano, e li vediamo  pescare sui moli,  bere un bicchiere in compagnia e scatenarsi nei "vitz",  sparlando delle "babe'", perché amano la loro città di un amore intenso, incapace di raziocinio, assoluto, come soltanto un amore adolescenziale può essere. La gioventù triestina è particolarmente bella e sedersi al tavolino di uno dei tanti caffè che costellano le strade consente di godersi  una sfilato di mule che sembra la passerella di un concorso di bellezza: donne belle, emancipate, sicure, abituate da generazioni ad accompagnare i loro uomini ai moli, a sventolare il fazzoletto e poi a cavarsela da sole che "un omo tien su un angolo dela casa e una dona quatro... ".
Ai parterre dei teatri veneziani e ai boudoir dei palazzi settecenteschi animati da una nobiltà decadente, ormai alle corde - luoghi chiusi che comunicano sensazioni di asfissia - Trieste oppose i moli gonfi di vento, le botteghe artigiane, le piazze dove si stipulavano affari, e una borghesia nascente - e vincente - che fece decollare commercio e ricchezza, assumendo caratteristiche che ancora in parte la individuano. Vogliosa di prestigio sociale e un po' invidiosa, da parvenu, della raffinatezza della città rivale farà sfoggio di laboriosità, impegno, rispetto delle regole e frugalità preferendo essere una provincia dell'Impero, che queste qualità apprezzava, piuttosto che la numero due dell'Adriatico.
L'attuale borghesia triestina non ha saputo trovare in sé quella forza trainante, quella capacità di innovare che sola avrebbe potuto ridare slancio alla città, ritornata all'Italia nel 1918, in uno sventolio di bandiere a Piazza Grande, ribattezzata per l'occasione Piazza Unità d'Italia, quell'Italia che tanto avrebbe deluso i triestini, facendo rimpiangere a molti di loro Francesco Giuseppe e i bei tempi andati.
Sono lontani i tempi in cui, a ondate successive, greci, sloveni, serbi, macedoni sbarcavano dalle navi mescolandosi ai burocrati austriaci, selezionati accuratamente a Vienna e mandati a gestire una delle province più turbolente del'impero, nonché, incalzati dai pogrom russi e polacchi e rassicurati dalla tolleranza della città nei confronti delle diverse etnie, gli ebrei askenaziti , la componente più colta e ironica del mondo ebraico. Mi chiedo se i gruppi etnici che, ancora oggi, convivono nella città si siano fusi. Nonostante le tante bandiere e i molti cimiteri, sono state più numerose le triestine che hanno sposato soldati americani che quelle che hanno contratto matrimonio con uno slavo. La città mitteleuropea, crogiolo di razze apparterrebbe dunque al cliché? Direi di sì, perché, se ripenso al passato ho la sensazione di udire un mormorio stizzito, il sapore di rancori ancora vivi e, serpeggiante, la diffidenza. Le ferite aperte dalla guerra, quei quaranta giorni con i neozelandesi fermi alle porte di una città stremata, in attesa, fanno ancora male. Cosa avvenne in quei giorni? I soldati di Tito fecero piazza pulita delle ultime sacche di resistenza nazifascista. Non solo. La contabilità  sinistra della guerra esigeva che si quadrassero i conti? E questo avvenne, e il Carso diventò famoso in tutto il Paese per le sue foibe. Foibe, delazioni e un forno crematorio a rendere drammaticamente nota al resto del Paese la Risiera triestina.
Questa è storia di cui ho sentito narrare da chi la visse in prima persona, e ancora ricordo le discussioni accesissime che scoppiavano a casa di mia nonna, quando ci si riuniva per le festività natalizie o pasquali e noi bambini venivamo spediti a giocare nelle altre stanze mentre le voci salivano d'intensità, fino a quando, più grande, chiesi e ottenni il permesso di ascoltare e fare domande. Forse ancora i sopravvissuti cercano, frugano nel passato alla ricerca dei responsabili.... Quanto di ciò che avvenne è da attribuirsi alla guerra e quanto è riconducibile a una responsabilità non collettiva, ma personale? Personalmente non credo che possa emergere, in circostanze eccezionali, se non ciò che si è e io odio la guerra proprio perché legittima ciò che la pace ci obbliga a censurare: la bestia che sonnecchia in ognuno di noi. Quelle discussioni, così intense e appassionate mi fecero capire che appartenevo alla gente di frontiera:  confini reali, quelli che passano tra le case e tagliano i cimiteri, ma anche confini immaginari, limiti autoimposti avrebbero sempre marcato in me territori della realtà e della fantasia. Vivere a ridosso di un confine segna, inevitabilmente, ma abitua al confronto perché è costante l'incertezza, il passato allunga un cono d'ombra che ingloba il futuro e alimenta la paura: dello scontro e del diverso, l'altro da noi, quello che vive dall'altra parte. 
Claudio Magris la chiamerà, identificandone i tratti, "identità di frontiera" a legittimazione anche di un briciolo di follia che, al di là dei limiti impliciti in ogni generalizzazione, non deriva ai triestini solo dalla bora, ma ha radici ben più profonde e lontane...

giovedì 22 luglio 2010

Che stupida...

Erano amiche da tanto tempo, un'amicizia calda, sicura che attraverso percorsi diversi le aveva portate a condividere parecchie sofferte conclusioni alle quali erano pervenute in momenti diversi. Ora, sedute davanti a una tazza di caffè, chiacchieravano a ruota libera senza seguire uno schema preciso, privilegiavano quella comunicazione fatta di parole in libertà che si colorava, a effetto, di frasi in dialetto: ognuna il proprio.
"Te la ricordi Margherita? Il marito, che aveva un'amante, le aveva fatto credere che, nello studio dove lavorava , il responsabile avesse deciso - il momento è difficile e i clienti si devono corteggiare - di saltare la chiusura estiva, e, anche se con orari ridotti, di lavorare nei mesi di luglio e agosto" e Giovanna scoppiò a ridere, concludendo "così da poter giustificare, con un impegno di lavoro, improvviso eventuali ritardi. Ah, gli uomini... "
Lei sentì il caffè calarle sullo stomaco martirizzando la sua ernia iatale, mentre tentava di ridere, senza riuscirci. Poi, guardò l'amica e disse: "E' altamente improbabile che a Milano, con il caldo africano di queste settimane... La vita si ferma in questa città  a luglio. Ad agosto, poi, sembra 'the day after'...  "
Tentò di ridere: il risultato fu una smorfia pietosa mentre borbottava:
"Cristo! Perché non l'ho capito?"
Calò un silenzio imbarazzato.
Giovanna borbottò: "Quel porco, non dirmi che c'eri cascata... "
Lei si stava chiedendo se avesse per errore ingoiato varechina o acido muriatico al posto del caffè.
"Come ho potuto essere così stupida... "borbottò, mentre davanti agli occhi le scorrevano quelle immagini: lui che borbottava al telefonino mentre lei si allontanava per qualche secondo ma,  appena la vedeva tornare, salutava, borbottando con fare seccato "una collega... " .Lei non gli aveva mai chiesto chi fosse e men che meno perché lo chiamasse con tanta frequenza, né per quale motivo lui, così evidentemente scocciato, non avesse trovato il modo di arginare quella invadenza. Non aveva dato il giusto peso nemmeno a quelle due cravatte nuove, al maglione di cachemire che si era comperato, lui che non entrava mai in un negozio e si faceva comperare tutto da lei.
Si fidava, si era fidata di lui, anche se ultimamente, quando parlavano lui spesso le era apparso distratto, svagato, quel sorriso un po' fisso sulle labbra e lo sguardo che la trapassava come se lei fosse diventata trasparente. Il buffetto sulla guancia alla sera, prima di girarle le spalle e addormentarsi, non l'aveva insospettita: lavorava tanto, molti straordinari. Possibile che non si fosse accorta che erano troppi?
"Che stupida!" balbettò di nuovo.
"Si pensa succeda soltanto agli altri" le sussurrò l'amica, ma lei non l'ascoltava, era già in piedi, voleva tornare a casa, frugare alla ricerca delle prove, aspettarlo e guardarlo negli occhi, tra le mani una camicia sporca di rossetto, che lei non aveva mai usato.
"Ti accompagno? Sei sicura di non... "
"Sicurissima" rispose, mentre entrava in macchina e partiva. A tutta velocità.
Il telefonino la distrasse e, rischiando di finire nel fosso, identificò il numero.
Era lui.
"Che estate di m...a! Farò tardi anche oggi... "
"Una riunione improvvisa?" lei gli chiese.
"Già, ti lascio, mi stanno chiamando".
Lei ti sta chiamando -  pensò, mentre il morso della gelosia le stringeva la gola.
La giornata, intorno a lei,  moriva.
Come la sua storia.
Scivolandole come sabbia tra le dita.

martedì 20 luglio 2010

Corsi di scrittura creativa

Ho letto una discussione su Vibrisse incentrata sull'utilità dei corsi di scrittura creativa. Aiutano a diventare scrittori ? Coloro che li frequentano lo fanno con la speranza, più o meno dichiarata, di fare il salto di qualità: da scribacchini a scrittori? Non lo so, io non ne ho mai frequentato uno pur avendo avuto nella mia lunga vita un rapporto appassionato, conflittuale, esaltante e ininterrotto con la parola. Lettrice onnivora fin dalla più tenera infanzia, scrissi diari sgrammaticati e noiosi, poesie e filastrocche che lette a mia madre, ottennero non la sua approvazione, ma la mia iscrizione a un istituto tecnico per riportarmi a terra, per ancorarmi a una concretezza che mi mancava e che la dannava. Poi, in linea con gli studi fatti, arrivò una laurea in Economia e commercio.
Ma io, ostinata, studiavo bilanci di giorno e leggevo poesie di notte.
I diari si erano fatti meno noiosi, ma sempre un po' sgrammaticati, forse perché vivevo in una terra di dialetti, avevo una nonna che quando litigava con la figlia maggiore, nata in Croazia, nell'impetuosità della rabbia ricorreva alla sua lingua d'origine e zii che, quando non volevano farsi capire da noi bambini, parlavano in tedesco, perché avevano frequentato, nella Trieste di Francesco Giuseppe, le scuole tedesche. La "lingua" che si parlava e si parla  a Trieste non è l'italiano, ma il dialetto triestino e la mia scrittura è ancora infarcita di "triestinismi".
Poi il lavoro e la nascita di tre figli compressero per anni - tanti - il mio tempo, lasciandomi pochissimo spazio da dedicare alla mia passione. Continuai a leggere molto, ma rubando ore al sonno, e la scrittura cessò quasi del tutto, affondando lentamente, come me, in una lunga serie di giornate affannose  e tutte eguali, ritmate da bisogni essenziali da soddisfare, senza lasciare più il minimo spazio ai desideri, soprattutto quando, poco più che trentenne, mi separai da mio marito e mi ritrovai sola, lontana anche dalla mia famiglia e da Trieste, ad allevare tre figli.
Eppure...
Eppure quella capacità di raccontare che avevo tanto ammirato nella sorella di mio padre, la zia Maria, quell'abilità che lei sapeva mettere nell'incastrare alla perfezione la descrizione di un luogo o di un personaggio con il mistero, quel ritmo serrato che le sue storie avevano, e che facevano di lei una cantastorie nata, mi erano entrati nel sangue e stavano, come le acque carsiche della mia terra, scorrendo anche se invisibili  sotto la mia pelle e io sapevo, sentivo che prima o poi sarebbe emersa la scrittura, una scrittura arricchita e resa mia, inconfondibilmente mia, dalla mia storia e dalle mie emozioni. Se sonnecchiava o dormiva, certamente la scrittura che mi portavo dentro sognava e io guardavo il mondo con gli occhi di chi scrive. E quando, a Milano, strizzata nella metropolitana andavo al lavoro, fissando i visi stanchi della gente e notando i segni che la vita lascia sui volti, io immaginavo storie, io rubavo vite. Era una curiosità dirompente, era la necessità di vivere altre vite oltre alla mia. Immaginandole la fantasia riprendeva a volare, più veloce della metropolitana che in un rombo assordante percorreva le gallerie buie sotto la città.
Non erano bastati gli studi di tipo economico, l'insegnamento di materie tecniche, la stanchezza, i dispiaceri e la lotta quotidiana del vivere a uccidere quella divorante passione che, miracolosamente, quando il ritmo della vita rallentò, i figli se ne andarono, il pensionamento mi liberò dal giogo de "Il Sole 24Ore" e dei bilanci, riemerse, intatta nell'aspetto fantastico, ma purtroppo ancora  non perfetta stilisticamente.
Potrebbe servirmi un corso di scrittura per migliorare lo stile? Se fossi più giovane, certamente, ma alla mia età la capacità di apprendimento è quasi nulla, la memoria fa difetto... No, è troppo tardi per scrivere meglio.
Non è troppo tardi per scrivere, perché non è mai troppo tardi, per essere se stessi.
Ai giovani che amano scrivere consiglio l'iscrizione a un corso di scrittura creativa, anche se, ripeto, cantastorie, magari arruffoni come me, si nasce e non si diventa. Soprattutto, e mi sembra ancora un miracolo, tali si rimane anche vendendo felpe su un banchetto del mercato o portando a compimento studi imposti e non amati. Inossidabile e inattaccabile come tutte le passioni, la scrittura non affoga nella polvere, non affonda sotto la farina, non si perde nelle pieghe di un abito stirato, ma dà sangue, spessore e sapore alla vita. Se c'è, sempre cercherà la sua strada per uscire allo scoperto.
Un corso di scrittura potrebbe farla emergere.

lunedì 19 luglio 2010

I giudici di Palermo

                         Era siciliano, Falcone, il giudice Falcone, come i mafiosi che tallonava, interrogava, deciso a combattere - perché di guerra si trattava - il fenomeno mafioso. Non avrebbe approvato il termine fenomeno, perché per lui i mafiosi erano criminali come tutti gli altri e l'organizzazione mafiosa una ben oliata associazione finalizzata al crimine. Togliere alla mafia quell'alone di mistero e invincibilità che ne faceva sussurrare il nome a bassa voce fu come togliere l'aureola a un santo, e tanto bastò per portare a casa la prima vittoria. Poi il colpo da maestro dei "pentiti", mentre continuava e si rafforzava la collaborazione con il giudice Borsellino, in quella Sicilia arsa di sole, profumata di zagare, dove chi intralciava la mafia aveva due uniche possibilità: farsi comprare o farsi uccidere. Lui non si fece comprare e lo Stato gli assegnò una scorta. Cinque uomini armati per tenere a bada la morte. Aveva paura? Non nascose mai di averne, anche se la sua paura non si notava e il sorriso contagiava sempre gli occhi: scuri, neri e morbidi occhi di siciliano da cui trasparivano l'intelligenza e la consapevolezza distaccata della sua gente.
Il fumo di una sigaretta sempre accesa tra le dita, a velarne lo sguardo in cui la paura si era accucciata in attesa della morte, resa certa dall'uccisione dell'amico Falcone, tradiva invece in Borsellino, nel giudice Borsellino, la tensione costante, la consapevolezza dolorosa di essere un bersaglio già individuato e sotto tiro. Falcone fu fermato da una carica di tritolo quando le sue indagini arrivarono ai portoni delle banche, ai conti correnti della mafia, perché a quel punto, seguendo la strada lastricata di oscenità di quella che Bocca chiama "la via dei soldi" sarebbero emerse le complicità con la politica, le mazzette pagate, e a chi pagate, e nome e cognome degli "uomini cerniera" , la nuova mafia in camicia azzurra e abito grigio ferro, capace di riciclare il "denaro sporco", sul mercato internazionale dei capitali.
Borsellino fu fermato da un'altra carica di tritolo, mentre suonava il campanello per salire a salutare la madre. Erano passati pochi mesi dalla  morte di Falcone. 
La sua agenda scomparve. 
Chi furono i mandanti? 
I sospetti - pesantissimi - sono al vaglio dei giudici. 
Fermeranno anche loro? 
Politica e mafia s'intersecano, si aggrovigliano. 
Si coalizzano?
Domande inquietanti, pesati, troppo pesanti e inquietanti per un Paese serio, corretto.
Soprattutto se, come temo, non avranno risposta.

domenica 18 luglio 2010

Un altro sconosciuto alla mia porta

                    Omer ha cambiato casa, al suo posto sono arrivati due ragazzi del Kosovo. Hanno un bambino che nei lunghi mesi invernali, non ho quasi mai visto. La madre, una ragazza dai capelli chiari, l'ho incontrata l'altro giorno: lo sguardo attonito di chi non capisce... dalle parole alle regole, agli usi, fisso su di me. Mi ha fermata ed è cominciato tra noi un dialogo gestuale, inframmezzato, più che da parole, da borbottii, esclamazioni e sorrisi. L'ho fatta entrare in casa, lei si è guardata attorno stupita, curiosa. Il piccolo Tipi, in braccio a sua madre, mi osservava. Non rideva, né sorrideva, limitandosi a guardarmi, con quello sguardo da piccolo uomo che non si aspetta nulla di buono. Mi ha colpita la differenza di atteggiamento rispetto a Omer e alla moglie. Espansivi, solari, il sorriso immacolato che scoppia risaltando sulla pelle nera si muovono con movenze feline, il corpo sciolto che sembra ritmare nei movimenti sonorità che soltanto le loro orecchie sono in grado di cogliere. Ridono sempre, e  lei , la moglie di Omer, gira da mesi con Michela, la figlia che sta per compiere un anno, legata sulla schiena, in modo da avere le mani libere, all'uso africano. L'ho vista nascere e crescere questa bambina, dormire, sbadigliare, imparare a sorridere pelle contro pelle con sua madre, l'orecchio appoggiato alla sua schiena forse per sentire il battito del suo cuore  mentre si addormentava senza una lacrima e si svegliava allegra, i denti che sembravano una manciata di riso nella bocca grande e piena come quella di suo padre.
La madre di Tipi è diffidente, sembra spaventata, anche quando afferra il bambino per dargli un bacio è brusca, priva di quella calma che trasuda dal corpo pieno dell'altra madre e lo sguardo che avvolge il figlio lascia affiorare un fondo di paura, una preoccupazione che rifiuta ogni forma di condivisione. Vengono da una terra contesa e martoriata, vengono da una guerra feroce e sono guardinghi. Sembrano cercare soprattutto lavoro - lei si è offerta di darmi un aiuto in casa  - non contatti umani e men che meno amicizia. Le offro un caffè e Tipi, affascinato dall'arcobaleno di colori della mia libreria, abbandona il riparo che le braccia della madre sembrano offrirgli e punta come un bombardiere sui miei libri, lanciandosi subito dopo alla scoperta della casa. Lo afferro appena in tempo mentre tenta di arpionarsi alla mia gatta che dopo una soffiata di avvertimento si rintana nel cesto della biancheria da stirare.
Dopo un po' se ne vanno, lei con quel portamento altero e pieno di orgoglio che mi richiama alla mente quello di mia nonna, il bambino lanciandomi un' ultima occhiata, senza rispondere a quel "ciao, ciao" che continuo a  ripetergli, strabuzzando gli occhi e tentando buffetti sulle sue guance per farlo sorridere.
Il giorno dopo lei mi stira delle camicie e io riempio di facce sorridenti un foglio, sillabando a Tipi lentamente parole semplici. Esitante prende un pennarello e lo struscia sul foglio.
                          Quando se ne va, mentre sua madre borbotta un ciao tra i denti, lui mi fissa, si concentra e articola quel "cia-o" che subito dopo affonda in un sorriso. Il piccolo uomo venuto dal Kosovo ha accettato la mia offerta d'amicizia - penso e vado sul computer a tradurre in albanese una frase di Tolstoj ringraziando Omer che mi ha insegnato ad aprire la porta a uno sconosciuto e al suo mondo. La frase che voglio tradurre è la stessa che ha affascinato Omer  e che è diventata il suo motto, la chiusa alle sue lettere, il suo cavallo di battaglia: ".Al di là della nostra cultura non c'è il vuoto, c'è un'altra cultura... "(Lev Nikolaevic Tolstoj)

venerdì 16 luglio 2010

Non turarsi le orecchie.

 Ci sono morti - quelle delle donne per mano degli uomini - che non suscitano scandalo, perlomeno non l'indignazione che dovrebbero provocare. Perché? Ieri sera ho visto un programma televisivo che ha riassunto l'ennesima storia di una morte annunciata: una donna giovane, massacrata di botte per sei mesi e poi, quando finalmente aveva deciso di lasciare il suo aguzzino, quando aveva capito che era ormai solo un giocattolo nelle mani di un uomo violento, il volo, dopo un tentativo di strangolamento che le aveva fatto perdere i sensi, giù dal terrazzo del loro appartamento. Un volo dal quarto piano, con la disinvoltura con la quale si  potrebbe gettare dal terrazzo un mozzicone di sigaretta.

 Intorno a questa ragazza un mondo di donne: la figlia, la madre, la sorella e le amiche. Tutte sapevano, tutte tacevano. Perché? E sprattutto perché taceva lei, la diretta interessata? La vittima predestinata. Per timore, per vergogna? Ma restando avrebbe rischiato di morire, andandosene avrebbe avuto almeno la speranza di salvarsi. Vergogna di cosa, di chi? Non è vergognoso soprattutto farsi trattare in questo modo? Eppure chi, per un motivo o per l'altro, si è trovato ad avere rapporti con donne invischiate in relazioni con uomini violenti conosce questo lato oscuro, questa zona d'ombra che le attanaglia. Perché? Sulle motivazioni  penso che soltanto la psicologia possa fornire delle spiegazioni alla luce di un'osservazione che sia in grado di analizzare caso per caso. Come le "morti bianche" queste morti "rosa" perché riguardano le donne e "rosse" perché subdolamente vengono ancora riportate a comportamenti, anche se estremi, di amore/passione, stanno diventando, anzi sono già, un'emergenza nazionale.

Si dovrebbe inquadrare il problema, che è particolarmente complesso, esaminandolo in base a ottiche diverse. Quella giuridica attinente alla denuncia dei maltrattamenti da parte della vittima di violenza, quella psicologica orientata a scandagliare le motivazioni profonde di comportamenti che esulano da quella che si definisce banalmente "normalità". Il sostegno, l'allontanamento in strutture atte a proteggere la persona in pericolo dovrebbe essere di competenza dei servizi sociali ai quali spetta il compito di monitorare queste situazioni di crisi. Ultimo importantissimo supporto quella forma di controllo sociale che la comunità, sia a livello di luogo di lavoro, condominio o addirittura, semplice passante, ha sempre esercitato, ma che -soprattutto nelle grandi città e nei loro disumanizzanti quartieri dormitorio -  si va perdendo.

Poi è evidente che un Paese che taglia gli organici e blocca i rinnovi contrattuali delle forze dell'ordine, e taglia i fondi agli enti locali, si schiera dalla parte dei prepotenti... e sorvoliamo sulla liceità di una sentenza che giustifica il marito "picchiatore", indotto agli schiaffoni dall'ostinazione della consorte. Discorso a parte meriterebbe anche la stampa per le modalità che caratterizzano la descrizione di certe notizie. Frasi trite, leggerezza nell'individuazione delle presunte cause che sono all'origine del dramma se non la  sensazione in chi legge che addirittura si stia strizzando l'occhio al marito violento. La crescita anche culturale di un Paese non può prescindere dalla correttezza, preparazione e competenza dei suoi giornalisti ai quali spetta il compito delicatissimo di informare.

Non dovrebbe essere considerato -  e non è, ripeto non è - un comportamento da "impiccione" bussare alla porta dell'appartamento di un vicino per chiedere spiegazioni sentendo urla e schiamazzi. Potrebbe essere il primo semplice aiuto da fornire per rompere l'isolamento, per indurre a una confidenza, per tendere la mano a una donna maltrattata, per ribadire, con un sorriso, che non è lei a doversi vergognare, per ripeterle che schiaffoni a e altro non se li merita, bastano e avanzano le parole e, quando non è possibile il confronto, ricordarle che  il diritto ha ormai preso il posto della clava. Io penso che questo tipo di aiuto, questa disponibilità  - che è sempre più difficile trovare - possa e debba costituire la prima, inderogabile forma di supporto, da parte di tutti, alla sofferenza e al rischio di morte che molte, troppe donne vivono ancora sulla loro pelle.
Sole, drammaticamente sole.
Per spezzare la loro solitudine può bastare premere un campanello.
E non  turarsi le orecchie.

mercoledì 14 luglio 2010

Dinosauri?

Maschi dalla mascella volitiva, il portafogli stipato di carte di credito - il pelo sullo stomaco alto un dito - avevano invaso le città dando la scalata ai palazzi del potere economico.
"Prendi i soldi e scappa!" " era stato il loro grido di battaglia. Fare razzia il loro lavoro.
Unica fantasia concessa: la finanza creativa.
Ora, con la ventiquattrore firmata, i vestiti di lusso e le camicie con il monogramma ricamato a mano, contemplano il disastro. Attoniti come bambini. Derubati dell' illusione che i soldi si potessero moltiplicare. Per incanto. Lo chiamavano leverage, effetto leva. Si erano sentiti i primi della classe, i furbi, gli scaltri, quelli che avevano capito tutto. Avevano venduto l'anima per un pugno di dollari. Ora appaiono per ciò che erano: nudi e vuoti.
Io aggiungerei anche stupidi, figli di una cultura priva di spessore, ma soprattutto di valori
di una scuola disastrata, di famiglie che spesso hanno abdicato ai loro compiti educativi.
E ora, ora cosa faranno? Ora che il mondo sta per cambiare – forse è già cambiato? – come si ricicleranno?
Estinguendosi? Come i dinosauri?

La vita è scrittura e la scrittura è vita.

Perché si scrive? Non per sbarcare il lunario, anzi quanti furono gli artisti, gli scrittori, che dedicando  alla loro passione spesso soltanto le ore della sera, già stanchi e provati dalla fatica della giornata, in quei ritagli di tempo che la notte concedeva, scrissero, lasciandoci romanzi memorabili scaturiti  da quell'intreccio di passione, capacità e stanchezza che, forse, favoriva l'abbandono. Sospesi tra sonno e veglia, affidavano alla notte, perché li custodisse nel suo ventre capace, i loro più intimi pensieri, le stringate conclusioni di riflessioni interminabili e segrete, la magia di parole riposte e lontane. Lavoravano durante il giorno, occupazioni spesso modeste, oscure e  scrivevano di notte. Gli occhi febbricitanti di Kafka, arsi e neri di passione e intelligenza non denunciano forse notti insonni popolate di fantasmi che la sua penna tratteggiò individuandone le sembianze? Allora, se non per denaro, è per diletto che si scrive? Non direi e, da donna che ha partorito creature, posso affermare che un romanzo viene alla luce, come un figlio, con fatica, dolore... sforzo. E' prima un marasma indistinto di emozioni e situazioni: confuse, a volte appena abbozzate, tutte da definire. In mezzo alcune immagini, perfette in tutti i particolari, ma avulse dal contesto che si innalzano come picchi su una pianura a sottolinearne il piattume. In questo marasma lo scrittore affonda le dita e pian, piano o forsennatamente - poiché il cammino, il percorso artistico è individuale e quindi personalissimo - individua un percorso, avanzando come in un deserto, apparentemente alla cieca, ma in realtà seguendo una melodia che il suo talento, magico pifferaio che lo ammalia e lo schiavizza, orchestra. Tappa dopo tappa lo segue come una coda una storia, la storia che lui sta creando e che si nutre di ciò che lui è, è stato e sarà, ma che da lui è destinata a staccarsi e a vivere in piena autonomia, gravida non solo delle sue emozioni, ma della capacità che lui ha di esprimerle ritrovandosene dentro le tracce. Come un figlio, al termine della gravidanza, la storia è lì, completa - bella o brutta che sia - pronta per iniziare una sua vita autonoma.
E lo scrittore? Gli mancherà quella storia con la quale si è fuso e confuso per un tempo più o meno lungo? O si sentirà sollevato, sgravato e libero di andare, il passo più lieve, lo scatto che sottintende una riconquistata libertà?Sarà più libero e... e più solo. E un'altra storia comincerà a frullargli nel cervello e questa volta, forse, il viaggio sarà per mare, affronterà l'ignoto, vento in faccia e aria che sa di mare. Perché chi scrive è un viaggiatore dell'anima, è un inquieto, appassionato, esploratore delle emozioni, è la madre che partorisce una storia e il padre che ne traccia il percorso consequenziale e, ripeto, non lo fa né per denaro, né per diletto: scrive  perché non potrebbe non farlo, perché per lui la vita è scrittura e la scrittura è vita. Tutto qui.

martedì 13 luglio 2010

C come corpo

Cosa evoca la parola corpo?
E' parola ambigua, potente, questa che riporta alla bellezza di un corpo di ragazza o alla decadenza di una carne greve di anni, alla forza tutta muscoli del maschio e a  uno dei termini di quel dualismo che ci esprime e ci ingabbia nell' unione/contrapposizione di anima e corpo. Fatti di carne e di emozioni, percorriamo le strade del mondo offrendo agli occhi di chi ci guarda un'immagine di noi che è prima di tutto immagine corporea. Scintillante specchietto per le allodole il corpo ci presenta in società, dando di noi un'immagine, l'immagine che decidiamo debba dare. Lo manipoliamo, lo modifichiamo e... ci inventiamo. Tacchi, calze velate, bustini, tinture per capelli, ciglia finte, reggiseni imbottiti, quando non bisturi e liposuzione, nasi spezzati e rifatti, tette gonfiate e bocche esagerate, il tutto al servizio di un inganno assurdo, allo scopo di mettere in scena al posto della vita la sua copia recitata, stabilendo a priori di essere qualcosa che non siamo, basando la nostra autostima su un'immagine che ci contenga - forse proteggendoci - e ci mostri.
Mostri o mostri?
La diversità, lievito del mondo, capace di stuzzicare la curiosità verso tutto ciò che è diverso, bandita. Il mercato che s'impossessa bulimicamente delle nostre paure e ci fagocita, soprattutto noi donne, all'insegna di quel grido - essere alla moda - che diventa uno stendardo sotto la cui egida si aggregano marciando in fila migliaia di donne verso il Paese di Bengodi al quale avranno accesso solo le taglie 38/40, magre, scattanti, sempre giovani, sempre belle, denti bianchissimi, segni  legati all'età combattuti con la tenacia, la fatica e la spesa che  potremmo usare per sfuggire al cancro. Massima concessione: se non belle almeno un tipo. Provate a sedervi in un bar e concedetevi il lusso di osservare la gente che vi sfila davanti. Adolescenti grassi fino all'obesità, debordanti da jeans a vita bassa, vi sfileranno davanti, improponibili vecchiette, dalla carne flaccida esibiranno volti parkinsoniani  dalla mimica bandita dal ricorso al botulino, gambe segnate dalle vene varicose si trascineranno su tacchi astronomici, corpi sforacchiati da spilloni da balia, vergati di scritte tatuate, trapassati da orecchini che si rincorrono lungo tutto l'arco dell'orecchio attireranno il vostro sguardPerché questo accanimento sul corpo? Perché tanta attenzione, tanta cura per qualcosa che è comunque esteriore? E' la cultura dell'immagine d'accordo, ma a cosa dobbiamo questa voglia di immagini che riflettono a monte il vuoto? In un mondo accelerato, vorticoso l'immagine più della parola, soprattutto scritta, dà l'idea rapida, spesso fallace ma immediata, di qualunque cosa. Non c'è tempo per approfondire, per pensare, per vagliare criticamente la realtà che ci circonda. Bisogna vivere, vivere a mille, senza faticare troppo. In un mondo all'insegna della provvisorietà nel quale tutto cambia: lavoro, amori, città, morale , gusti... anche noi cambiamo. Dopo un divorzio nulla di meglio di un nuovo volto. E capire le motivazioni del fallimento di una storia? Non è importante: basta cercarsi un nuovo partner.
Al mattino, prima di  uscire, come quei rapinatori che svaligiavano le banche camuffati da presidenti degli Usa,  ci s'infila la maschera calandosi nei panni della donna in carriera, dell'artistoide/artista, della bambolona tutta curve e via discorrendo.
Soltanto che, a lungo andare, la maschera diventa il volto... del singolo e del Paese. E quella del Paese a me non piace proprio per niente e nemmeno mi piace la maschera più acclamata, con i suoi rialzi nelle scarpe e i capelli finti, sfumatura rossiccia, e il sorriso e il pianto a comando. Che maschera rappresenta? Quella del Vincente? Che pena quel volto che si va disfacendo, pezzo a pezzo, e che orrore il vuoto che sotto s'intravede. Meditate gente, meditate... Il tempo non s'inganna, con il corpo non si scherza: ne abbiamo uno soltanto  e quando l'attenzione che gli dedichiamo diventa eccessiva, qualcosa non quadra più e non è  soltanto con il nostro corpo che dobbiamo dialogare, non soltanto con lui, ma anche con le nostre emozioni, con il cervello e l'anima... non dimenticando la nostra complessità e la fatica del vivere.
E, last but not least, se non vi vedete belle, ragazze che vi specchiate incerte nelle vetrine controllando la vostra immagine, provate a guardarvi con gli occhi di chi vi ama e il vostro corpo, anche se non perfetto, si rivelerà bellissimo.









sabato 10 luglio 2010

Pelle di madre

          C'era una volta, tanto tempo fa e chissà se esiste ancora, una clinica con le finestre delle camere che davano sul mare, su quel mare che, spalancandosi davanti a quella città battuta dal vento, le assicura una via di fuga, quasi un'uscita di sicurezza, appagando insopprimibili bisogni di bellezza e libertà

          Tra lei e il mare, nella stanza 65 in quel lontano marzo del '68,  un mazzo, enorme, di tulipani gialli. Acceso come un sole nascente in un mattino d'estate, le avrebbe sempre ricordato la nascita di suo figlio, il primo risveglio in quella nuova pelle, quella pelle sconosciuta e diversa che è la pelle di madre. Come si era sentita? Sfinita, dopo quel parto interminabile e le doglie che le avevano arpionato i fianchi per ore, sempre più ravvicinate, incalzanti, fino a quella sala parto dove aveva pensato, ma anche sperato, di morire, in quei frenetici minuti ritmati da voci affannate, concitate, da quelle esortazioni "spinga, spinga, spinga più forte, ancora, non ci siamo, ancora.. " culminate in quel pianto stizzito, in quel fagottino nato con i pugni chiusi che tra le sue braccia aveva strillato con maggior forza, boxando contro l'aria, gli occhi dal taglio orientale che sembravano vedere il mondo e... trovarlo disgustoso. 
Ricordava ancora la stanchezza ma anche l'orgoglio e la tenerezza che le erano montati
dentro, invadenti come un'inarrestabile marea.

      Le era sembrato impossibile che quel bambino con il quale aveva condiviso tutto per mesi ora non fosse più sangue del suo sangue, pelle della sua pelle, respiro del suo respiro. Aveva avvicinato la culla al letto per poterlo controllare. Dentro, vaga ma presente, la paura di non trovarlo, di vederlo svaporare, sparire come un miraggio nella calura estiva. L'aveva osservato cercando in lui i lineamenti del marito o i suoi, quei segni distintivi che sanciscono l'appartenenza a un ceppo familiare... ma senza trovarli.

           L'ostetrica attaccandolo al seno la prima volta aveva esclamato:"Ma che caratterino!" e lei si era un po' offesa e il mattino seguente quando il medico le aveva consegnato la cartella clinica dicendole: "Tutto a posto, si torna a casa!" aveva accolto la notizia con gioia. Chissà perché all'ultimo controllo della temperatura, però, il termometro aveva evidenziato un bel febbrone obbligando il medico a  prolungare la degenza  e a  imporre la somministrazione di farmaci. Il pupo non aveva apprezzato e, vuoi il calore malato della pelle di sua madre, vuoi il sapore del latte reso diverso dai farmaci, aveva pianto con tutte le sue forze, rifiutandosi di ciucciare, si era graffiato le guance e aveva tentato di strapparsi i capelli. A lei quel latte non bevuto era stato tolto con un "tiralatte" provocandole una ferita ai capezzoli. Beh, per farla breve, le era venuta la mastite che avrebbe reso il suo allattamento per giorni e giorni un inferno.
Poi, finalmente, la febbre era scomparsa e lei era ritornata a  casa.

      Il pupo mangiava, anche se con faccino schifato,  e aumentava di peso. Lei piangeva allattandolo, prima per la mastite e poi per la mancanza cronica di sonno. Le lacrime di una madre avvelenano il latte, o lo rendono indigesto? Se lo sarebbe chiesta  tante volte, ma senza riuscire a trovare una risposta. L'incontro con l'alieno venuto dal mondo dei sogni, quello che ospita i bambini fantasticati ai quali s'ispirano gli spot pubblicitari, senza cacca e senza pianti, con sorrisi e sguardi d'intesa a mamme sottili come giunchi, fresche di parrucchiere e avvolte in abiti frou frou, si era trasformato in uno scontro.
Senza esclusione di colpi.

      Oggi, a distanza di tanti anni, mi chiedo, quando l'eco di tragici fatti di sangue che coinvolgono madri e figli bambini, mi giunge all'orecchio, perché il lato in ombra della maternità, quel cono buio che può inglobare un neonato a causa dei problemi preesistenti di una madre, non venga analizzato, studiato e pubblicizzato come dovrebbe. Mi chiedo perché la mistica della maternità che vede la donna non come persona con la sua complessità e quindi i suoi limiti, ma come madre perfetta per sua natura, quasi per diritto divino, sia così dura a morire. Madri non si nasce, si diventa, con fatica e con impegno, attraverso errori e correzioni di rotta, attraverso incontri e scontri con quell'altro da sé che è il figlio, in un cammino comune, in un viaggio che ci arricchisce e ci insegna ma che, come tutti i viaggi, è pieno di incognite e anche di sorprese. E non sempre piacevoli.

                   La madre perfetta rientra nello stereotipo femminile che ingabbia la donna  in schemi rigidi che non le appartengono, rassicuranti per la collettività, ma profondamente penalizzanti  e potenzialmente pericolosi per lei, soprattutto oggi, con le famiglie lontane, il lavoro che non tiene conto delle esigenze di una madre, la paura  del licenziamento - che i nuovi contratti di lavoro indirettamente consentono - e la mancanza di contatti  umani che isolano la neo-mamma già in difficoltà come persona. Qualcosa si muove, ma con fatica, con estrema fatica, incontrando ostacoli di ogni genere.
Perché?

giovedì 8 luglio 2010

Ultima danza

C'è in chi recita una storia
un abuso di memoria
un'innata tracotanza
verso
il tempo che divora

un'assenza
una mancanza che non è solo di panza

c'è talento,
non c'è gloria
se li mandi alla malora
ma una fantasia che vola

su tappeti di parole
puoi danzare o bestemmiare
mica solo svolazzare

un potere ti divora
ma
impalata all'uso turco
ti dissangua
la tua stessa assurda storia
pezzo a pezzo come un morbo maledetto
ti si succhia
e ti divora.

Fiore,
linfa di giaggiolo
su cui ronza un calabrone
guarderai l'estrema danza
che ti uncina al pungiglione
mentre l'ultima tua storia
la più bella
quella vera
non vedrà la primavera.

Sempre amarcord

Dopo tanti anni, quella sera ci eravamo date appuntamento: la scusa, un film da vedere nella sala dal maxi schermo in quella specie di luna park che era il centro commerciale da poco inaugurato appena fuori dalla città.  Lorena, Maria  Teresa e io.Nella luce del tramonto che la luminaria al neon illividiva, tra baci e abbracci,  quel pensiero molesto: quelle tre donne di mezza età, eravamo noi?  Quelle ragazze - quanto tempo era passato? - che  dietro un'aria spavalda avevano nascosto la loro  timidezza, ma anche i sogni e le speranze.?
Lorena, il viso largo e solido di figlia di contadini, le lentiggini di chi il sole se l'è bevuto tutto da bambino sull'aia insieme con le galline o nel fienile a correre dietro al gatto, mi ricordava quel mondo gramo, fatto  di stalle e fatica e il gelo e la pioggia di quei mattini nebbiosi, in inverni in cui nevicava un giorno su quattro e gli alberi sembravano spettri gelati  sfuggiti alla notte, inargentati dalla galaverna che, se non andavo errata, era così che in Emilia chiamavano la brina gelata.
Lo sguardo ora aveva incrociato quello di Maria Teresa che, magra e nervosa,  era vestita di lilla e di azzurro cielo, come allora... Ma  se lo poteva permettere con quel suo corpo da bambina che un entusiasmo inossidabile e appassionato per la vita e i suoi misteri tendeva ancora come un arco pronto a scoccare una freccia.
Quanto tempo era passato da quando con i libri sottobraccio ogni mattina ci ritrovavamo a scuola, il sorriso grande come la nostra disponibilità, spesso  nei corridoi a parlare o ad ascoltare qualcuno nei guai? E poteva sembrare non avessimo una vita nostra, quasi fossimo  parte dell'arredo come le lavagne e i banchi pasticciati, pieni di cuoricini e invettive, martoriati come trincee di guerra, perché resistere a sei ore quotidiane o giù di lì di indottrinamento culturale, di nozioni le più disparate, ritagliandosi uno spazio mentale ben protetto per non crollare di noia, doveva essere spossante per gli alunni come una guerra di logoramento.
I colleghi nell'intervallo ci offrivano il caffè, parlando di politica, perché noi "eravamo quelle di sinistra", le compagne; le gambe però te le guardavano se, per ricordarci di essere donne, anche donne, ogni tanto arrivavamo con le scarpe con il tacco e a me , appena entravo in classe, gli alunni chiedevano: "Come mai così bella oggi, prof?" e io arrossivo e tagliavo corto dando l'avvio a una lezione un po' speciale che spostasse l'attenzione su ciò che dicevo e non sui piccoli ma significativi segnali di cambiamento, perché, in effetti, un uomo l'avevo conosciuto, dopo anni di domeniche ai giardinetti con i figli e notti solitarie che il divorzio mi aveva regalato.  E loro, i ragazzi, se n'erano accorti che ero più distratta,  che a volte, mentre passeggiavo su e giù per la classe spiegando, sembravo estraniarmi - anche se per un istante soltanto - lo sguardo che si perdeva, sorpreso nel vedere il ciliegio giapponese  in fiore, un'esplosone di fiori. In una notte soltanto? Come me?
Lorena, Maria Teresa e io, il Trio Lescano ci chiamavano, parlottavamo in quei pochi minuti tra un'ora di lezione e l'altra...  tra noi di noi. Di cosa? Scuola, figli, uomini...  I discorsi delle donne, legati a quel nostro minuto, snervante e quotidiano pulire, ascoltare, servire. Ci scambiavamo libri sul femminismo, commenti buttati là in fretta perché a leggere non avevamo rinunciato. Io dormivo pochisssimo, ma loro non erano da meno e ci sfidavamo confrontando quegli orari da bergamino emiliano - le cinque, le sei del mattino - ed era Maria Teresa che vinceva, perché la sveglia lei la puntava anche sulle quattro, quattro e mezza.
Ora, mentre ci scambiavamo notizie sui figli, ormai grandi, uno dei miei lontano, io non riuscivo a nascondere la tristezza di non vederlo quasi mai. Affiorava la delusione...  Le aspettative dei genitori amano le grandi altezze e per i figli è quasi impossibile soddisfarle, anche e soprattutto perché le loro, aspettative intendo, sono diverse. E gli uomini? Anche se Lorena ed io eravamo divorziate, l'argomento aveva scatenato risate, forse sopra le righe,  troppo rumorose comme temporali estivi. Ma, per fortuna gli anni delle gelosie furibonde, delle liti e della passione si erano acquietati sotto l'incalzare delle rughe... La politica, il femminismo, i libri ancora ci accendevano lo sguardo di bagliori che, pur non divampando, non si spengnevano e bastava un soffio a rianimare il fuoco.
Nella sala buia, mentre scorrevano sullo schermo le immagini di un film della Campion, ci eravamo soffiate il naso nello stesso istante: tutte e tre ritrovandoci, come allora, sul filo di seta sottile ma tenace delle emozioni condivise.
La promessa è stata quella di rivederci, di non lasciar passare tanto, troppo tempo...
La notte ci ingoiava, poco dopo, avida, mentre alle nostre spalle le luminarie del centro commerciale sbiadivano e i ricordi risalivano alla memoria come bolle d'aria nell'acqua di uno stagno.
Siamo ancora il Trio Lescano -  ho pensato e la notte mi è sembrata meno scura.

sabato 3 luglio 2010

Ultima puntata de "La casa delle bambole"

"Cosa stai cercando: numeri, parole?"
"Non lo so... " mi rispose Gloria.
Poi aggiunse:  "E' una storia d'amore, anzi di passione e... di morte".
"Qual è la parte che  hanno avuto i miei genitori? Vorrei saperlo..."
Lei mi guardò, poi aggiunse: "Se mi darai l'informazione che mi consentirà di fare giustizia... Be', forse...".
"I protagonisti della storia d'amore... " attaccai io.
M'interruppe, ripetendo imperiosa: "Dimmi!".
"E' una canzoncina che mia madre m'insegnò e  che improvvisamente mi è tornata...".
Impaziente, con un secco "Scrivimela!", accennò con un gesto ai fogli che stavano sul tavolino.
Afferrai una penna e scrissi: "Ambarabà, ciccì coccò... " ma tralasciai la parte che dava quei tre numeri: 23, 21 e 28. Poi fissai Gloria negli occhi, dicendole: "Be', questo è quanto ricordo con assoluta precisione".
Un lento incredibile sorriso le fiorì sulle labbra, mentre i suoi occhi, illuminati dal riflesso della lampada, sembrarono accendersi come il fuoco di un bivacco, comunicando la stesso calore, la stessa sensazione di conforto. Sfogliava con attenzione il libro, dandomi l'impressione di avere colto il significato di quella serie di numeri, trasfigurata dalla felicità alla quale sembrava abbandonarsi mentre il suo collo fletteva, le spalle si scioglievano quasi avesse posato a terra quel sacco di pietre, quella zavorra di dolore e odio a cui aveva attinto per continuare a cercare, a frugare nelle pieghe di un passato che non poteva, che non doveva essere dimenticato.
"Nostro padre si chiamava Giovanni... " mormorò aggiungendo "e questo libro gli apparteneva".
"Ecco perché mia madre ha voluto che mi chiamassi Giovanna" la interruppi.
Lei ebbe un momento d'incertezza, sembrò annaspare alla ricerca di qualcosa e guardandomi disse: "Sei sicura non ci siano altri numeri?"
Cosa dovevo fare? L'informazione che le avevo appena dato si era rivelata quella giusta. Ora ero in vantaggio in quella partita senza esclusione di colpi che stavamo giocando e ne approfittai per dirle: "Voglio mia figlia, Gloria, lasciala libera e... "
Senza consentirmi di finire la frase, sibilò tra i  denti  "Non fare la furba con me, non correre inutili rischi! Dammi questi ultimi dannati numeri e... facciamola finita!"
"Perché dovrei fidarmi?" le risposi, diffidente.
"Puoi concederti di non farlo?"
"Dai l'ordine di liberarla e avrai l'ultima informazione, quella che ti consentirà di portare a termine il tuo piano".
Gloria sembrò riflettere, le guance arrossate dall'agitazione ora sfogliava il libro, fermandosi  su una pagina mentre l'occhio le cadeva sul foglio che le avevo dato e il suo viso esprimeva lo sforzo di capire.
"Quanti numeri mancano?" chiese.
"Tre" le risposi.
"Dammi il primo e darò l'ordine di liberare tua figlia".
"Ven... " cominciai. Esitante.
Lei pendeva dalle mie labbra.
"Ventitré!"
Sfogliò il libro andando alla pagina 23, poi però lo aprì sulla pagina 21, leggendo un'annotazione a matita.
Quindi  sollevò la testa e mi sorrise dicendo: "Nostro padre si è fidato di tua madre, le aveva giurato che, finita la guerra, l'avrebbe rintracciata... Oppure, nell'ipotesi peggiore, le avrebbe mandato un messaggio, l'ultimo, da conservare e... l'anello che lei gli aveva regalato".
"E il trait d'union tra loro due fu l'uomo che mi fece da padre" sussurrai.
                         "Nostro padre raccolse e annotò su questo libretto tutto ciò che riuscì a sapere sul campo, ma come commenti apparenti alla storia narrata, poi, quando capì che stava morendo frantumò tra persone diverse (sapeva che pochi prigionieri sarebbero usciti vivi da Auschwitz) le informazioni necessarie per interpretare quelle annotazioni. Ogni destinatario passò l'informazione, prima di morire, al prigioniero meno provato.
Tuo padre fu uno dei pochissimi a salvarsi, un altro sopravvisse per qualche settimana grazie alle cure di un medico americano...".
"Così nostro padre riuscì a mantenere la promessa fatta a mia madre e a conservare traccia di ciò che la sua gente aveva subito" dissi.
"E la canzone?"
Di chi era quella voce maschile? Mi voltai: l'uomo che aveva fatto la domanda  era seduto accanto a me.
"E la canzone Giovanna?"
"Ma lei chi è? Come conosce il mio nome?"
"Allora rispondimi tu, Gloria" continuò l'uomo, il volto pallido come il camice che indossava.
Gloria rispose: "Nostro padre che aveva esibito già prima della cattura un nome falso, scoprì  subito l'identità di quel prigioniero finito nel suo blocco e gli fece credere di aver ricevuto l'anello da un prigioniero morente al quale aveva giurato di cercare questa misteriosa donna di nome Bianca.... Anche alcune annotazioni su questo libro riportavano questo nome e  i primi due numeri, giorno e mese, della data di nascita della madre di Giovanna. E' intuibile che l'anno fosse stato comunicato a qualcuno che non riuscì a sopravvivere. Soltanto l'anello ci permise di aprire la cassetta di sicurezza dove trovammo un riferimento alle annotazioni riportate in calce al  libretto rosso. Mancava l'ultimo anello della catena: quella canzoncina che era arrivata alla madre di Giovanna in qualche modo, quella filastrocca che lei le cantava la sera, a bassa voce, affidandola alla notte e ai sogni, ricordando l'uomo che aveva amato e chiamandola... "
A questo punto Gloria s'interruppe.
"Come ti chiamava tua madre, Giovanna?" le chiese dolcemente l'uomo.
"Quando il babbo non sentiva mi chiamava diversamente... ma era un segreto tra noi. Lei mi metteva a letto, cantava... "
"E?" disse l'uomo.
"Mi chiamava con un'altro nome!"
"Quale?"
"Non lo, non ricordo" gli risposi.
"Lo chiediamo a Gloria?"
"Non può saperlo" replicai, seccata per quell'intrusione ma anche succube di quella voce, di quella rassicurante presenza biancovestita.
"Ora sì, ora tu e Gloria sapete tutto una dell'altra: ognuna di voi racchiude l'altra" replicò quella voce maschile.
"Ambarabà ciccì, coccò... " cominciai a cantare con una voce che non mi apparteneva: una voce da bambina. che mi stupì.
"Come ti chiamava tua madre Giovanna?"
"Mi chiamava... "
"Ti  chiamava?"
"Gloria" gli risposi
"Come mai?"
"Non lo so" singhiozzai mentre qualcosa mi si spezzava dentro. L'uomo davanti a me sussurrava qualcosa, qualcosa che non capivo bene... Luccicarono elmetti e quella macchia rossa che sembrava una rosa appuntata sull'abito di mia madre si animò, allargandosi. Era sangue, sangue che le scendeva tra le dita arpionate all'abito mentre le sue mani si tendevano disperate a d afferrare il nulla... Io impietrita guardavo il suo corpo che si afflosciava, cadendo lieve sulla ghiaia del viottolo che costeggiava il roseto. L'urlo di mio padre si perdeva  nell'aria mescolandosi a parole sconosciute, aspre, che crepitavano ordini.... Ancora il suono spezzato e ritmato di un'arma e il cane,  balzato fuori dalla cuccia, si accasciava senza un guaito davanti ai miei occhi atterriti. Poi il silenzio  si congiungeva alla notte, a quel cielo senza stelle che tutto ingoiava: le finestre del manicomio, il laghetto e i roseti. Anche Giovanna sbiadiva, lentamente ma inesorabilmente, svaporando come una goccia d'acqua nella calura estiva. Gloria sbatteva le palpebre, spalancando occhi increduli di donna su un mondo che ricominciava ad assumere contorni definiti.
Tra quelle vite fatte a pezzi da un dolore infinito, una - almeno una - si ricomponeva, mentre il medico, passandosi una mano sul volto segnato dalla stanchezza, si chiudeva alle spalle la porta allontanandosi lungo il corridoio.