giovedì 25 agosto 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°34)

Primo dormì poco e male: inseguito, tallonato anche nei sogni da figure minacciose che emergevano dall'oscurità all'improvviso, afferrandolo. Finalmente il suono della sveglia e il primo, lattiginoso, chiarore dell'alba lo strapparono a quel sonno angoscioso, a quegli incubi che spesso turbavano le sue notti. Sentì qualcuno muoversi in cucina... poi, il miagolio familiare della gatta. La Nera reclamava un po' di cibo - pensò, rassicurato dai suoni che, piano, piano animavano il caseggiato.
Pochi minuti dopo la gatta, infilata la finestra, prendeva la via dei tetti, scivolando sicura tra le tegole e lui, dopo essersi chiuso la porta di casa alle spalle, scendeva le scale lentamente, con quel suo passo misurato di contadino che non è abituato a rispettare orari di lavoro, che non è solito affrettarsi.
L'aria era umida, una nebbia leggera sfumava i contorni delle case e lo scalpiccio dei passi rompeva il silenzio. Intorno a lui facce ancora assonnate, baschi di traverso, molti camiciotti scuri di operai che andavano al lavoro... Tutto regolare - pensò Primo, sbirciando quei volti così simili tra loro, mentre sulla strada passavano due macchine, guidate da autisti in camicia nera. Dietro, sul sedile posteriore, uomini in divisa, impettiti a imitazione del Capo; fascisti tronfi e sicuri di sé.
Davanti a lui, dopo pochi passi, la fermata del tram, e... Giuseppe, confuso tra la gente in attesa.
Lo raggiunse mentre la sagoma scura del mezzo emergeva dalla nebbia. La gente saliva, spintonandosi tra imprecazioni e battute: qualcuno si attaccava ai sostegni esterni delle porte, oscillando pericolosamente.
"Tutto bene?" chiese Giuseppe
"Ho rinchiuso la gatta in cucina. Niente topi da inseguire; per oggi si accontenterà di mangiare un po' di avanzi" borbottò Primo.
Giuseppe rise, poi, accostandosi all'amico, rispose: "I topi sono troppo grossi, la Nera rischierebbe di essere il loro pranzo... eh, eh... "
"Hai ragione, ne ho visto uno proprio ieri sera, grosso e nero come la tonaca di un prete... " continuò Primo.
"Ah! Scommetto che ti ha seguito fino alla porta di casa. Per non lasciarsi sfuggire un boccone prelibato come te!" mormorò Giuseppe, lanciando all'amico un'occhiata indagatrice.
Poi, tacquero entrambi, lasciandosi cullare dal dondolio del mezzo che, a intervalli regolari, si fermava scaricando viaggiatori giunti a destinazione, e caricandone altri in attesa sulla strada.
Lo stabilimento, dove i due compagni lavoravano, era il capolinea del percorso e, di conseguenza, nell'ultimo tratto sul mezzo era tutto un salutarsi e darsi qualche manata sulle spalle, quasi gli operai si trovassero non su un mezzo pubblico, ma sul luogo di lavoro.
"Ehi Primo, vengono a farci visita i tuoi amici... questa settimana si farà festa in città! E tu Giuseppe, cosa ne dici?" Era stato uno degli operai più giovani a parlare, piazzandosi, a gambe larghe, davanti ai due amici che sedevano uno accanto all'altro.
Primo non lo degnò di un'occhiata, ma Giuseppe rispose, apparentemente dispiaciuto: "Io sono fascista, lasciatemi un po' di tempo e convincerò anche questa testa dura... Il Primo non è stupido... " e, accentuando l'espressione contrita e facendo il pagliaccio, aggiunse: "E' ottuso!"
Poi scoppiando in una risata, concluse: "O con le buone o con le cattive capirà da che parte deve stare!"
"Io ho già capito!" rispose Primo, lanciandogli un'occhiata decisa, mentre il tram si fermava sferragliando di fronte all'ingresso dello stabilimento.
(continua... )

lunedì 22 agosto 2011

Come un fiume la terra...

Come un fiume la terra,
la vita
incide
ferisce,
mutila
poi
carezza,
abbaglia

La tua pelle
quando esonda possiede

Sotto la luna è argento
che scintilla
e sussurra,
è grigiore di nebbia
se la campagna è brulla

E' gorgo,
che prima o poi divora,
aspettando paziente

La vita,
questa morte che aspetta,
è... una beffa perfetta.

sabato 20 agosto 2011

Sincerità alla luce della crisi


Il Presidente del Consiglio, gettati alle ortiche maschera e sorriso, esprime sbalordimento, dolore e vergogna per ciò che sta facendo, per le decisioni che è (stato) costretto a prendere. Stringi e condensa, il succo è questo: a pagare per uscire dalla crisi saranno anche i ricchi. Pochi e poco - ché i loro avvocati dalle parcelle miliardarie cosa ci starebbero a fare in Parlamento, se non fossero stati e non fossero ancora in grado di suggerire vie di fuga per salvare il malloppo? E così il Presidente, per la prima volta sincero, piange, perché il suo obiettivo non era questo; era quello di tutelarli (i ricchi). E i poveri? Farli soltanto sognare con promesse vane e vaghe. Mentendo.

E se i poveri cristi cominciavano a capirlo e a essere arrabbiati, possiamo immaginare i ricchi... traditi! Da uno di loro! Dopo lo sbalordimento iniziale, ora sì che sono furiosi, e pensare che avrebbero dovuto saperlo che "On n'est jamais trahì que par les siens!".

Le poltrone vacillano e la "Casta" trema, boccheggia, e privata dei suoi privilegi rischia, non solo di essere dimezzata, ma anche di perdere quei diritti acquisiti che i poveri cristi di cui sopra hanno perso ormai da anni. I potenti, abituati a tuonare contro gli evasori fiscali, vengono smascherati come tali: primo fra tutti il Ministro dell'Economia, tale Giulio Tremonti, che paga l'affitto della sua lussuosa residenza romana "in nero", ma non ha tentennamenti di sorta quando abbatte, a colpi d'accetta, ciò che resta del welfare state.

La politica al servizio di un'ideologia - cattolica, liberale, marxista e via dicendo - non esisteva più. Si era trasformata in un sistema di accordi, finte contrapposizioni, false promesse fatte ai cittadini solo per tenere in piedi un Potere sempre più oppressivo, inefficiente, corrotto e ladresco, a favore di pochi privilegiati. Un potere che elargiva denaro (facendo aumentare a livelli insostenibili il Debito pubblico) ai cittadini (più precisamente alle corporazioni più importanti che li rappresentano, diventate 
centri di potere) in cambio di consenso; non per governare e guidare il Paese, ma per auto conservarsi e tutelare i propri interessi.

Questo sta emergendo con chiarezza, grazie anche alla violenza della crisi che stiamo vivendo. Qualcosa si è rotto, si è spezzato... non solo nel sistema, in profondità. Un popolo ha anche un'anima, un substrato di emozioni, di sentimenti, d’ideali. Forse è da questo giardino, segreto e incolto, che dovremo ripartire, forse avremo e abbiamo bisogno di un po' di silenzio, di stordirci meno e pensare di più. Perché non basta capire, bisogna anche "sentire" prima di rischiare di trasformare l'ironia in cinismo, gli ideali in ideologie, l’onestà in ingenuità, imbastardendoci a misura di una classe politica che ormai, come il suo re, è nuda, assolutamente nuda nell'esibire le sue vergogne.

martedì 16 agosto 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°33)

Primo camminava lento, distratto dai suoi pensieri, ripensando alle parole pronunciate dal Professore la sera prima, al termine del loro ultimo incontro. Non si trovavano mai nello stesso posto, sarebbe stato troppo pericoloso... I fascisti avevano occhi e orecchi dappertutto. Si fermò a schiacciare con il piede il mozzicone di sigaretta che aveva tenuto tra le labbra, per sbirciare alle sue spalle. Un fruscio, una sagoma indistinta più scura del buio già incombente, gli avevano dato la sensazione di essere seguito. Sentì il sangue scorrergli più veloce nelle vene, allertandogli i sensi e tendendogli i muscoli, mentre la paura amplificava ogni suono e ingigantiva, rendendola minacciosa, ogni ombra. Nulla, la strada era quasi deserta; pochi i passanti, e dall'aria innocente.
Riprese il cammino verso casa. Forse aveva ragione il Professore... Non era il momento di organizzare attentati: avevano poco tempo, pochi uomini su cui contare... Era più  importante cogliere il malcontento, utilizzarlo creando collegamenti: una rete - così la definiva il professore - una rete invisibile ma capillare: lavorando nelle fabbriche, nelle campagne, con pazienza, tenacia e senza azioni di forza che, data la superiorità dei fascisti, si sarebbero concluse con processi, condanne... l'invio al confine e l'indebolimento di quella che era ancora una opposizione gracile e disorganizzata.
Di nuovo quel passo che ora rallentava, ora accelerava, ma sembrava incollato al suo. Si fermò, con la scusa di accendere un'altra sigaretta, e sbirciò alle sue spalle... una sagoma scura, il cappello con la tesa abbassata a nascondere gli occhi, le mani in tasca. Come lui, si era fermato, apparentemente alla ricerca di un numero civico, reso scarsamente visibile dal buio della sera.
Primo riprese a camminare. Anche l'altro. Svoltò a sinistra, ad angolo retto, imboccando la strada di casa. Anche l'altro. S'impose di non correre, i pugni già contratti, pronto a difendersi... Il portone di casa gli si parò davanti, la chiave sembrò incastrarsi. Poi un cigolio rassicurante, uno sguardo a sinistra, uno alle sue spalle... Nessuno!, solo quell'atrio buio e maleodorante e il tonfo del portone che si chiudeva alle sue spalle. Mentre saliva le scale, la voce della Nina,
che al solito sbraitava contro i figli, l'abbaiare del cane del pensionato del secondo piano e gli altri abituali rumori del caseggiato gli sembrarono musica celestiale, marcia nuziale capace di rallentare il battito impazzito del suo cuore. Entrato in casa, si precipitò a spiare oltre il vetro della finestra, ma senza cogliere nulla di sospetto.
Mentre grondante di sudore crollava sul letto, dal campanile della chiesa che dominava la piazza alle spalle del suo caseggiato, cominciarono a echeggiare, uno dopo l'altro, rintocchi di campana, lugubri e lenti come rintocchi di campana  a morto.
(continua... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/08/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_12.html

domenica 14 agosto 2011

Dov'è finito il sorriso di Berlusconi?

Avrebbero potuto bloccare - immediatamente, appena scoppiata la crisi - le vendite a termine allo scoperto. Invece i nostri hanno aspettato, mugugnando sulla liceità di un intervento che avrebbe imbrigliato, anche se soltanto per un breve periodo, la libertà del mercato, aggiungendo che tale divieto avrebbe avuto valore soltanto all'interno dei mercati regolamentati, puntualizzando che, nel 2008, all'applicazione del divieto era seguito un calo consistente nelle quotazioni dei titoli bancari... e via discorrendo.  Chi compie queste operazioni - introdotte inizialmente con fini di copertura dal rischio e divenute poi, date le altissime possibilità di guadagno, operazioni speculative e madri, con sofisticati opportuni aggiustamenti, di quei figli mostruosi che sono i prodotti derivati - non è certo l'idraulico o il commesso del negozio all'angolo: sono le banche, sì sempre le banche che fanno, però, il loro lavoro. Sporco, ma legale.

Le imprese private (categoria alla quale in gran parte le banche appartengono) hanno come obiettivo il profitto, non la tutela degli orfani o l'assistenza agli anziani, quindi fanno ciò che per statuto e per legge possono e devono fare. Per legge? Ma allora sarebbe sufficiente emanare leggi che regolamentassero il loro operato? Già fatto! Quando? Dopo la crisi del '29, negli Usa, ma  anche in Italia. Avete mai sentito parlare della creazione dell'IMI e dell'IRI? La BCE oggi fa quello che fece L'IRI: compra titoli che il mercato considera carta straccia... Allora, negli anni Trenta erano azioni, le azioni delle maggiori imprese italiane e il prezzo da pagare fu la nascita di un'economia mista e di quegli ibridi giuridici che furono spa con il pacchetto di maggioranza in mano pubblica (il conflitto d'interesse non è un problema nuovo e nemmeno la spartizione delle poltrone nei consigli d'amministrazione). Gli americani, autentici fautori di un'economia liberista, appena superata la crisi, ricollocarono  i titoli sul mercato, creando organismi di controllo, come la Sec, ben più seria della Consob, anche se ispirata agli stessi principi.

Poi, in sordina, il sistema di norme creato a tutela del risparmiatore venne smantellato, rottamato... Perché? Be', conteneva i guadagni delle banche e - dimenticavo - tra i sostenitori del Far West bancario (ampi spazi dove poter scorrazzare liberi per i predoni del credito) ci fu, allora, l'attuale Ministro del Tesoro, Giulio Tremonti.

Oggi sono le obbligazioni del Debito pubblico il problema più spinoso. Chi investe cerca titoli sicuri ed è facile intuire quanto  basso sia il livello di credibilità del Paese del bunga, bunga... , quindi si cedono titoli italiani e si acquistano titoli tedeschi o francesi. Per evitarlo lo Stato rende i titoli più appettibili alzandone i rendimenti, ma così facendo aumenta il Debito pubblico, imponendo manovre finanziarie finalizzate al conseguimento della parità di bilancio, necessariamente recessive, socialmente devastanti... e avanti di questo passo, in un balletto mortale di cifre che sta portando il Paese allo  sfascio. La BCE, che è una banca, chiede bilanci credibili e subordina l'acquisto dei titoli di Stato italiani a politiche "virtuose".

Ma il Paese non conosce virtù, il Paese è stato educato - educazione purtroppo in buona parte riuscita - alla corruzione, all'amoralità dilagante, al pressapochismo, alla superficialità. E la parte sana (del Paese) è stanca, demoralizzata, arrabbiata, terribilmente impoverita, tartassata da provvedimenti che la vedono sostenere il peso maggiore di un risanamento pasticcione e confuso, preparato  in tutta fretta da un apparato di governo che si è occupato, per anni, soltanto di norme 'ad personam', in grado di tutelare il presidente del Consiglio, per evitargli la galera.

E ora? Ora aspettiamo che i parlamentari - persa una settimana delle loro dorate vacanze - rientrino dalle ferie e, ritemprati (il potere stanca!) si rimettano al lavoro. Pardon!, si mettano al lavoro, organizzino, elaborino, facciano... Facciano qualcosa, facciano finalmente qualcosa per il Paese: per il Paese, non per loro!

venerdì 12 agosto 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°32)

Primo non era uno sprovveduto: Giuseppe l'aveva conosciuto in fabbrica ma non si sarebbe mai fidato a esporsi, rievocando ricordi tanto dolorosi e dichiarando il suo odio per i fascisti, se "il Professore", non gli avesse parlato di lui... Ah, il Professore, come tutti lo chiamavano, era uno in gamba, uno che usava la testa, ragionava, spiegava che il fascismo andava combattuto con i pugni, l'anima e il cervello...
Giuseppe era l'aggancio, nello stabilimento, con quel gruppetto - erano ben pochi - che si stava organizzando in città contro i fascisti. Sarebbe stato l'uomo ombra di Primo, che era già conosciuto in fabbrica per le sue ribellioni e il suo coraggio. Giuseppe non si sarebbe esposto, fingendo all'occorrenza addirittura di avere troncato i rapporti con Primo; così il segugio, quel Debosi a cui nulla sfuggiva, si sarebbe accanito sulla preda sbagliata.
"Hai notato quel tipo, non quello smilzo, quello giovane, seduto al tavolo dietro al nostro? Ci sta osservando da quando siamo entrati. Io non l'ho mai visto in fabbrica, tu lo conosci?", chiese Giuseppe.
Primo alzò la testa, incrociando lo sguardo dello sconosciuto.
"Mai visto" borbottò alzando il bicchiere, poi, fingendosi un po' brillo, si alzò salutando Giuseppe e si avvicinò all'altro tavolo, non prima di avergli sussurrato: "Quello ci sta osservando; rimandiamo a domani, alla fermata del tram... ".
"Qui c'è qualcuno che deve rientrare dalla mamma; ah, ce li mandano in fabbrica che hanno ancora il latte sulla bocca! C'è posto per me, ragazzi?" Primo, mentre Giuseppe si dileguava, si sedette, crollando quasi sulla sedia, anzi sulla panca, accanto allo sconosciuto. Poi, con quell'arroganza che tutto concede a chi è un po' brillo, si rivolse al ragazzo, chiedendogli: "E tu da dove sbuchi? Non ti ho mai visto in fabbrica... Ah, a proposito, non mi sono presentato" aggiunse rialzandosi, e accennando un goffo e traballante inchino, precisò: "Io sono Primo! Poca fantasia da parte del mi babbo, ma in campagna era così, non si perdeva tempo a cercare il nome adatto per un figlio: quello con i capelli colore del sangue lo chiamavano 'Rosso' o, se erano fantasiosi, 'Carota'... e poi, poi tutta la schiera dei 'Primo', 'Quinto', 'Settimo'... ". "E, se erano prolifici, sarebbe arrivato anche 'Decimo'... " rispose il ragazzo, alzando il bicchiere e dicendo "Ah, a proposito, io sono Benedetto, consacrato - si fa per dire - al Santo, perché il giorno della mia nascita, finalmente, dopo mesi di siccità estiva, arrivò la pioggia!" Primo gli appioppò una manata sulla spalla e rise, mentre l'altro continuava: "Non mi hai ancora visto in fabbrica, perché vivo rintanato nel magazzino, a impilare scatole... "
"Ah, capisco... "
"Un altro litro, Rosina, Marina... oh, come diavolo ti chiami? e poi andiamo tutti a casa... " disse ad alta voce uno degli uomini seduti al tavolo, mentre qualcuno si stava già alzando e la ressa e il rumore nel locale diminuivano. Le prime ombre della sera entravano dalla finestra, ingoiando fatica, sospiri, smorzando risate che lasciavano spazi sempre più larghi al silenzio.
La Giorgina, stancamente, passava lo straccio sul bancone unto, ciabattando avanti e indietro, accompagnata dagli sguardi golosi, arpionati al dondolio dei suoi fianchi, degli ultimi uomini che si attardavano nel locale.
(continua... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/08/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_10.html

mercoledì 10 agosto 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°31)

L'osteria aveva quell'odore aspro e denso - di umanità accaldata, vino e sottofondo di voci e risate un po' false - che rende questo posto rassicurante come un faro luminoso per ogni marinaio sperso tra le onde di un mare in tempesta. Luogo di progetti un po' folli, che il vino rende per una sera credibili, l'osteria è anche il palcoscenico privilegiato in cui tessere complotti, organizzare incontri, ordire piani, mentre il tavolino si riempie di bottiglie vuote e negli occhi rinasce la speranza o s'acquieta l'angoscia.
Seduti a un tavolino d'angolo, Primo e Giuseppe parlavano a bassa voce.
"Lo conosco Debosi... , era amico di Desio - quello però ha avuto ciò che si meritava! - ma è sempre stato più nell'ombra... Io me lo ricordo, e come potrei aver dimenticato il suo viso?, anche se ero un ragazzo. Devi sapere che mio padre i fascisti non li aveva mai potuti sopportare. Una sera vennero alla cascina, faceva già buio, erano parecchi... gridavano, Desio davanti a tutti. Era chiaramente il capo! Il Debosi dietro a lui, incerto, sudato - più adatto a fare lo spione, lui non amava, come non ama ora, sporcarsi le mani - e non andarono per il sottile. Uno sparì in cantina ad arraffare del vino, due scomparvero con mia madre in camera da letto. La sentivo gridare, piangere... implorare. Gli altri sbeffeggiavano mio padre obbligandomi ad assistere. 'Impara, ragazzo, questo è ciò che merita chi si mette contro i fascisti', dicevano. 'Ti faremo cagare anche le budella... Chissà che non ti passi la voglia di parlare a vanvera... '. Mio padre non emise un gemito, si piegò sotto i pugni, si contrasse quando, ormai a terra, lo colpirono i calci, ma non una parola gli uscì dalla bocca. Poi, ultima umiliazione: l'olio di ricino. Ricordo il puzzo di merda e il viso di mia madre, il  suo sguardo opaco, vitreo, la sua mano che cercava di accostare i bordi della camicia strappata... Lui non mi ha riconosciuto, sa chi sono, ma non credo mi abbia ricollegato a quel ragazzino spaurito, terrorizzato... anche perché era ubriaco. Sono diventato un antifascista quel giorno e... per sempre".
La mano di Primo si contrasse a pugno, le vene viola sulla pelle callosa si gonfiarono, mentre gli occhi s'incupivano, intorbiditi d'odio e furore. Giuseppe, seduto davanti a lui, taceva.
Il silenzio si protrasse per alcuni secondi; poi Primo sibilò: "Desmo ha già pagato, e anche il "Biondino" - come lo chiamavano - un giorno non è tornato a casa... "
"Mah.... ?"
"Non ha importanza sapere chi... La giustizia può avere volti diversi, ma sempre giustizia è!" lo interruppe, brusco, Primo.
Dal tavolo vicino, occupato da un gruppo numeroso di operai del loro stesso stabilimento, un ragazzo piccolo e tarchiato, li osservava tendendo l'orecchio: il rumore all'interno del locale e il tono appena sussurrato della conversazione tra Primo e Giuseppe rendevano impossibile l'ascolto, ma non impedivano di cogliere la gestualità del linguaggio e quegli sguardi potevano far pensare solo a un dialogo tra i due estremamente coinvolgente.
(continua... )
http://falilulela.blogspot.com/2011/08/storia-di-nebbie-e-acquitrini-puntata_08.html


lunedì 8 agosto 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°30)

"E' più pericoloso del Bepi, questo qua , perché sembra uno di noi: stesso dialetto, stessi modi... un bicchiere di vino buono e poche parole quando si mangia insieme. Si fa chiamare Gualtiero, non Debosi che è il suo cognome, ma è un fascista, è 'nero' dentro, nero come l'inferno. Con me fa il furbo e si dimostra 'alla mano', dicendo in giro, con quella sua aria bonaria, rassicurante, che viene dalla campagna, anche lui, che ci conosciamo... E poi scivola via con il discorso; non approfondisce: sa che non gli converrebbe... " borbottò Primo tra i denti. Giuseppe, accanto a lui, gli rispose: "Ci vediamo dalla Giorgina, alla fine del turno... Così ne parliamo, e non lasciarti scappare una parola di troppo con gli altri. Qui non ci si può fidare di niente e nessuno"
Il compagno annuì, pensieroso, dopo aver lanciato un ultimo sguardo al sorvegliante che si stava allontanando.
Il rumore nello stanzone era assordante e i due operai erano riusciti a scambiare tra loro quelle poche parole soltanto approfittando di una fase della lavorazione che li obbligava a compiere il lavoro, anche se per pochi minuti, fianco a fianco.
Intanto Gualtiero era tornato nel suo ufficio. La Rosina alzò la testa dal fascicolo che stava esaminando e lo fissò interrogativa. Gualtiero, irritato, si lasciò cadere pesantemente sulla seggiola dietro alla scrivania passandosi una mano sulla faccia sudata. "Ci brucerà i polmoni questo  fumo, vacca ladra!", poi, con fare imperioso "Passami il fascicolo di Primo Modotti" le disse.
Lei si alzò, la gonna stretta, tesa sui fianchi rotondi, che lasciava indovinare le cosce piene, bianche come il latte. Aveva, la Rosina, la pelle chiarissima, quasi diafana, tipica delle donne dai capelli rossi. Non era particolarmente bella, ma era giovanissima e soda, come una mela appena staccata dal ramo. E quella spruzzata di lentiggini sul viso la vivacizzava, dando ai suoi occhi un calore di miele. Gualtiero la seguiva con lo sguardo ogni volta che si muoveva nella stanza e, quando gli passava accanto, ne fiutava l'odore, socchiudendo gli occhi e immaginandola in sottoveste, quella sottoveste di cui intravedeva il pizzo quando, prendendo appunti, lei appoggiava il quaderno sulle gambe accavallate.
Aprì il fascicolo: sapeva parecchio di Primo... Era da tempo che lo seguiva; conosceva le sue abitudini, chi frequentava all'interno dello stabilimento...  Sapeva tutto, o quasi, della sua ragazza, della famiglia da cui proveniva. All'uscita dal lavoro, spesso, si fermava all'osteria della Giorgina a prendere un bicchiere di vino e, si sa, il vino scioglie la lingua!
Gualtiero ridacchiò soddisfatto pensando che era sempre stato abile a collocare le trappole in campagna mentre, scartabellando tra i fascicoli, faceva una lista dei frequentatori abituali, e non, dell'osteria della Giorgina e segnava, siglandoli, i nomi di coloro che conoscevano Primo.
"Posso andare?" chiese timidamente la segretaria, distogliendo Gualtiero dai suoi pensieri e riportandolo alla realtà.
Lo stabilimento, ormai vuoto, era silenzioso; poche le luci accese a indicare ancora qualcuno al lavoro.
Fatto un cenno d'assenso, senza nemmeno alzare gli occhi, sentì sbattere la porta dell'ufficio; soddisfatto si concentrò su quanto stava facendo, mentre nella sua testa prendeva forma la trappola che, secondo lui, avrebbe potuto incastrare Primo.
(continua... )
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giovedì 4 agosto 2011

Storia di nebbie e acquitrini (puntata n°29)

Era cominciata così... Poche parole pronunciate all'orecchio, un nome sussurrato... Poi, Gualtiero aveva abbandonato del tutto il lavoro di operaio, occupandosi soltanto del controllo del prodotto ma, soprattutto, occhieggiando in giro. Fiutando l'aria come un segugio aveva riprovato sensazioni dimenticate, le stesse vissute dal ragazzino, appena fatto uomo, che, fucile a tracolla, si alzava alle prime luci dell'alba per acquattarsi tra i canneti... In attesa, paziente allora come oggi, convinto che una sagoma nera avrebbe sicuramente trafitto l'azzurro del cielo, per essere inseguita e raggiunta dal colpo sparato dal suo fucile.
"Allora Primo, come andiamo oggi? E' ricominciata la nebbia eh... Fuori c'è un 'fisso' che non si vede oltre il proprio naso... "
"Hmm... " aveva grugnito in risposta l'uomo seduto accanto al banchetto, la testa china sul pezzo sul quale stava lavorando, prima di alzare gli occhi e lasciar scorrere lo sguardo sul sorvegliante, dicendo: "Sta arrivando l'autunno, gli uccelli cominceranno a migrare... Eh capo, se li ricorda quei cieli neri di uccelli migratori? Bastava alzare il fucile, sparare, e venivano giù come neve, come grandine".
Primo era uno degli operai da tenere sotto controllo: era furbo e coraggioso. Veniva dalla campagna, come lui, aveva fatto il bracciante agricolo e Gualtiero, anche se vagamente, lo ricordava. Soppiantato Bepi, il precedente sorvegliante, ora era lui, Gualtiero, a occupare l'ufficio al primo piano, con il suo nome sulla porta e, dentro,  la Rosina, la sua segretaria, a dar luce alla stanza con la sua chioma rossa e ad aggiornare i fascicoli, intestati ai singoli operai. Quello riguardante Primo era uno dei più pesanti: contrassegnato con una stellina rossa, era oggetto di frequenti controlli e, appena due giorni prima, dopo averlo ripreso in mano, Gualtiero vi aveva segnato a matita un punto di domanda.
Era stato programmato un comizio al quale avrebbero partecipato i più importanti gerarchi di Mussolini. L'apparato locale, preposto alla sicurezza, era stato allertato e Gualtiero aveva partecipato all'ultima riunione.
C'era stata una soffiata, un loro informatore aveva sentito qualcosa... Voci, peri il momento soltanto voci di una possible aggressione, ma bisognava vigilare, stare attenti; indagare, senza dare nell'occhio, seguendo tutte le piste.
Il segugio aveva fiutato la preda, ma non l'aveva ancora scovata.
(continua...)
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Che spettacolo pietoso

Il Paese precipita - elencare i numeri del disastro sarebbe un'operazione superflua, essendo la situazione sotto gli occhi di chiunque voglia prenderne atto - e il Presidente del Consiglio che cosa fa, che cosa dice al Parlamento e alla Nazione? Balbetta, farfuglia, promette...

Non una parola di scusa per quanto fatto, e soprattutto non fatto, in anni di governo... Ma chi se ne frega, a questo punto, di un pentimento (tardivo), sono altri i problemi, altre le urgenze.

Ci aspettavamo un piano per arginare la crisi, o almeno tentare di farlo. Invece nulla. Promesse, soltanto promesse. Vaghe.

Negli occhi dell'uomo, che finge sicurezze che più non ha, la paura... La paura che la poltrona, lo scranno cui s'aggrappa, si trasformi in nudo tavolaccio di cella, come la carrozza di Cenerentola in zucca allo scoccare della mezzanotte.

E questo, questo sarebbe l'uomo che dovrebbe salvarci dal disastro? Diminuendo il numero delle auto blu in circolazione? Accorciando di una settimana le dorate vacanze dei parlamentari?

Se divario c'è stato fra cittadini e politica, non è mai stato così profondo. 
Incolmabile.