Io, vecchia signora malata, oso dire di aver acquisito
almeno una certezza: alla base della mia malattia, questo scimmia maledetta che
mi segue aggrappata al collo da ormai dieci anni, c'è il dolore, ma non quello
del corpo, il dolore dell'anima. Mi rivolgo alla platea (numerosa) dei
parkinsoniani che ho avuto modo di conoscere tramite Facebook. Chi di noi - e
la sottoscritta è tra questi - non ha minuziosamente descritto la disperazione vissuta al momento della diagnosi e non ha suggerito modi per imbrigliarla, contenerla, trasformandola addirittura
(ma correttamente) in fonte ispiratrice di capacità creativa, "terzo
occhio" di osservazione sul e del mondo, e via discorrendo. Noi parkinsoniani
siamo sicuramente fantasiosi, ma quanti di noi hanno puntato il dito sul "dolore
di prima"?
In quella drammatica visita conclusasi con una diagnosi che ci è piombata addosso come una ghigliottina, quale medico ci ha chiesto: "Ma lei, signor/a Pinco palla, come sta? E' serena, mediamente soddisfatta del suo lavoro? Che rapporto ha con il suo compagno, con i figli? " C'è qualcuno tra questi illustri clinici che abbia osato chiedervi: «Lei vive o sopravvive?»
Il Pk colpiva, ora non più, soprattutto persone sulla sessantina…
Età emblematica, di cambiamenti profondi e… solitari. Crisi vissute in
appartamenti improvvisamente silenziosi e ordinati dai quali la vita ritiratasi come una marea, si lascia dietro, come una manciata di conchiglie abbandonate sulla
spiaggia, ricordi, qualche rimpianto e, spesso, anche sogni spezzati. Cambia la società, cambiano i bisogni, i desideri e…
cambiano le malattie. Il Pk colpisce individui giovani, anche giovanissimi.
Perché? Non sarebbe un discorso da approfondire? Se l'infelicità peggiora il Pk
diagnosticato e viene combattuta con una valanga di psicofarmaci, fino a che
punto può favorire l'insorgenza della malattia, in soggetti predisposti
geneticamente?
E allora lancio una sfida: chi vuol parlare dello «stato d'animo»
che ha preceduto la malattia?