mercoledì 30 dicembre 2009

Racconto a puntate (La vita cambia)

Nonostante l’armistizio sancito da quel sorriso di riconoscimento le notti continuarono però a essere un incubo. Lei passeggiava avanti e indietro e pensava. Cristo santo si era sentita così sicura. Che cosa poteva essere mai un bambino? Tutte le donne li facevano. E invece era affogata nella cacca e non metaforicamente.
Le dicevano “Capirai da sola con quel misterioso sesto senso che guida le madri” e lei non capiva nulla, il sesto senso non era neanche un primo senso e gli altri cinque si erano persi per strada. Continuava a vagare per la casa con quel bambino urlante, rintronata dal sonno, senza capire perché piangesse invece di dormire, incapace di sopportare il vento in una città dove la bora la faceva da padrona.
Altro che incontri ravvicinati del terzo tipo, aveva scoperto a sue spese l’alieno che ogni bambino nasconde in sé e, come per tutti gli alieni, il loro primo incontro fu uno scontro, e senza esclusione di colpi. Col tempo avrebbe imparato a convivere con gli alieni ma, forse, disimparando a convivere con gli umani.
Era riuscita anche a laurearsi. Con il bambino sulle ginocchia aveva preparato la tesi; poi si era cercata un lavoro che le consentisse di conciliare famiglia e professione. Suo marito, pur non passando le notti a ninnare il figlio, non si era laureato e aveva trovato un lavoro che non gli permetteva di conciliare un bel niente. Quando nacque il loro secondo figlio, una bambina alla quale fu dato il nome di Lucrezia, si offrì volontario per una spedizione al Polo Nord, isole Svalbard, e lei non aveva nemmeno sentito la sua mancanza tanto inesistente era ormai diventata la sua presenza.
Come non entrare in crisi? Come non confrontare la sua vita con quella del marito? Lei amava teneramente, appassionatamente i suoi figli, ma aveva dovuto scegliere, scoprendo sulla sua pelle che ogni scelta è una lacerazione e una rinuncia a una parte di sé. E quelli erano anni in cui qualcuno scriveva “Tutto e subito” come motto di una generazione che non si limitava a volere ma pretendeva tutto e subito. Siamo figli della nostra epoca e lei fu figlia della sua. Dall’America il femminismo invadeva l’Europa e lei, prigioniera in casa, leggeva nelle sue notti solitarie, leggeva tutto ciò che trovava, per non perdere il contatto con il mondo, per sentirsi viva, per non affondare in quel letto troppo grande e troppo freddo che non divideva con nessuno. La sua casa si riempiva di libri, la sua testa di parole, la sua anima di dubbi. Affiorava il risentimento, convergevano in lei le rinunce, le umiliazioni, le fatiche non ricompensate delle donne che l’avevano preceduta: la generazione delle madri, passata attraverso il teatrino del fascismo e l’orrore della guerra. Donne che non avevano trovato le parole per dirlo, come titolò un romanzo femminista di quei tempi, ma che, nella ribellione delle figlie, che dettero finalmente voce al dolore, al desiderio e al rimpianto, avrebbero trovato il loro riscatto. (continua...)

Controllo, appartenenza e Fb

Dopo aver mosso i primi esitanti passi su MySpace e aver aperto un blog, mi sono iscritta a Fb. Sorvolando sulla difficoltà, strettamente tecnica, incontrata nell'usare questo spazio, non mi ha entusiasmato rendermi conto che la voglia di raccontarmi era stata ingabbiata in modalità e quantità prefissate. Con quale obiettivo? Quello di rendere più rapida, facile e ampia la comunicazione. Ma la comunicazione è confronto? Il confronto la presuppone ma non è scontato l'inverso. Io sul web ho cercato confronto e approfondimento ma devo precisare che, essendo una pensionata, questa mia ricerca non era finalizzata al conseguimento di un qualsivoglia tornaconto economico. Dopo una vita che, come per la maggior parte delle persone, si era snodata attraverso percorsi obbligati di orari, doveri, necessità, ora potevo concedermi il lusso di girovagare in piena libertà da un blog a un Social Network, sulla spinta unicamente della curiosità e dell'interesse a capire o approfondire un certo argomento. In tempi perigliosi come quelli che stiamo vivendo è scontato che molti frequentatori del web, tra cui molti blogger, abbiano scelto di privilegiare i Social Network per due motivi: perché consentono una comunicazione più immediata, schematica e quindi incisiva, e una diversa modalità di contatto. Non i contatti che si instaurano con i commentatori dei blog che possono apparire e scomparire come meteore, ma contatti con una "base" più ampia e costante nella sua partecipazione. La Serenissima come tastava il polso ai sudditi che popolavano le terre su cui si estendeva il suo dominio? Attraverso la figura dell'oste, che godeva di una posizione di prestigio poiché davanti al suo bancone passava un po' tutto il paese e, tra un bicchiere di vino e due chiacchiere, era possibile cogliere gli umori, individuare i disagi, prevenire le ribellioni dei sudditi, soprattutto di quelli più turbolenti. Fb è il bar dell'agorà dove si va a prendere l'aperitivo e dove, almeno di vista, ci si conosce tutti. E' il terreno di coltura dell'appartenenza, anche la più innocente. Forse per questo motivo - come, a mio avviso, molto correttamente si afferma ne Il nuovo mondo di Galatea - il ministro Schifani ha colto la pericolosità del Social Network più frequentato e per questo spazio e, non per il blog, ha invocato regole e limiti. Il blogger tradizionale non si aggrega, si isola e nel confronto con pochi la sua influenza si frantuma in scontri che non disturbano il potere.
Recentemente, combinando pasticci e ignorando le regole del "bon ton" informatico ho osato una sortita in uno spazio per me nuovo:Friend Feed e Twitter, ma ne parlerò alla prossima puntata.
Può essere utile leggere Diario semiserio di un viaggio viruale e Ancora blog

Racconto a puntate (La vita cambia)

Un pomeriggio vennero a trovarla due amiche, studentesse universitarie.
“Te lo ricordi il professore di statistica? Quello che non concedeva appelli se non in sessione d’esame? Bene, siamo riusciti a …”.
Vedendo l’espressione della sua faccia, si erano interrotte.
“Non sai niente? Non leggi i giornali?”
Giuseppe che le aveva rigurgitato sulla spalla aveva incominciato a piangere.
“Hanno occupato la facoltà di lettere… ” stavano dicendo.
“Come?”.
Giuseppe si era cagato addosso.
“Vediamo che sei occupata, ci sentiremo in un altro momento… ” e, scambiandosi un’occhiata, si erano alzate per andarsene ignorando Giuseppe.
Un po’ impacciate si erano abbracciate.
“Tornerete a trovarmi?” aveva chiesto.
“Sì, certo!” le avevano risposto, aggiungendo in fretta: “Abbiamo molto da fare: le manifestazioni, i volantini, le assemblee…”
Le aveva guardate allontanarsi dalla finestra. Ridevano fra loro. Si erano voltate, agitando scherzosamente il pugno alzato: giovani, libere di giocare alle rivoluzionarie, mentre lei affondava nella sua guerra quotidiana.




Ludovica sentiva sua madre per telefono ma tra loro le parole non dette, le situazioni non affrontate gelavano il rapporto. Super organizzata e ordinatissima, quando arrivava in visita, la nonna lasciava scivolare occhiate sbigottite sulle ceste della biancheria da stirare, sul frigorifero con la roba ammuffita, sulle mani della figlia scorticate dai detersivi e sul disordine che all’interno dell’appartamento regnava sovrano.
Lei aveva ripreso a studiare: di notte, di giorno, quando poteva e come poteva.
Anche Giovanni aveva ripreso a frequentare l’università e a volte rientrava tardi. Si giustificava dicendo che gli strilli del bambino non gli permettevano di concentrarsi. Tra la scuola dove insegnava e la biblioteca dove studiava, cercava di stare con moglie e figlio il minor tempo possibile.
Lei non era più la brillante studentessa che aveva conosciuto.
Era una madre.
Una casalinga che nei ritagli di tempo studiava.
Era triste ed era qualcosa di poco allegro che stava sognando quella notte in cui, al solito, l’urlo invase il sogno facendola sobbalzare mentre con le mani sugli orecchi tentava di sottrarsi alla lacerazione di quel grido. Guardò l’orologio: segnava le tre ed era la terza volta che la svegliava. Dalla sagoma al suo fianco giunse un borbottio: “Fallo tacere!”. Trovò una ciabatta nella quale infilò maldestramente il piede, rinunciando a cercare la compagna.
“Vengo, vengo”.
Era lì e urlava con tutte le sue forze. Allungò una mano e fece dondolare la culla mentre meccanicamente sussurrava quella nenia che lo calmava facendolo riaddormentare. A volte, ma non era la notte giusta. Lo prese in braccio e riprese a canticchiare. L’urlo si andava smorzando in un lamento monotono e angosciato.
La maternità era l’alieno che teneva tra le braccia, quello scontro senza esclusione di colpi, l’impossibilità di trovare un linguaggio per comunicare? Tra il suo, l’urlo, e quello di lei, le nenie, il vuoto. I pediatri consultati avevano allargato le braccia, suggerendo pazienza e camomilla… Le nonne la guardavano incerte, vagamente accusatorie: aveva provato a farlo mangiare di più? Non era servito. E di meno? Idem come sopra. Lo cullava nel modo giusto? E la camomilla calda? E il succhiotto? E una musica distensiva sullo sfondo. No, quella no, perché si era addormentata lei rischiando di farselo cadere dalle braccia. Era colpa sua? Sembrava decisissimo a farla impazzire. Ora dormiva? Con una leggerezza da Arsenio Lupin, trattenendo il fiato, l’aveva adagiato nella culla mentre dalla finestra filtrava il chiarore lattiginoso che annunciava l’alba. Tratteneva il fiato. Lui emise un lungo sospiro, spalancò gli occhi e la guardò. La guardò per un interminabile minuto. Sembrò soppesarla, valutarla. Non piangeva. Lei muta. Lento, quasi irreale, sulla bocca gli sbocciò un sorriso. Sdentato. Gli gorgogliò in gola mentre anche lei rideva, lo prendeva in braccio e ne coglieva il tepore, l’odore, sentendo che, nonstante il sonno, la fatica e la paura, amava quel bambino, lo amava con tutte le sue forze e non avrebbe mai smesso di amarlo.(continua...)