lunedì 30 marzo 2009

Parole

Se dovessi dare un volto, un corpo alla Parola le darei di Monna Lisa il sorriso che, rappresentazione pittorica dell’ambiguità, in uno stiramento di labbra e un riflesso nello sguardo tutto contiene.
Agli occhi darei l’innocenza di un bambino,perché la parola è coltello e freccia ma solo in mano a chi di anime è assassino.
I capelli li vorrei ricci, scomposti, selvaggi come criniere di puledri al galoppo, perché bastano una enne e una o per scardinare un impero.
Il corpo dovrebbe essere maturo, ma testimone di un’antica grazia perché è l’età che ci induce al silenzio, al risparmio assennato delle parole di cui abbiamo abusato fin troppo ed è in poche parole che si può sintetizzare una vita e la sua bellezza.
Con:” E’ una splendida bambina” si nasce, con un laconico: “Non c’è più” si muore.
Nel mezzo il silenzioso affanno del vivere.

Kappa e Venezia

Kappa 22 era abituato a un apprendimento che si basava su un flusso d’informazioni estremamente ampio, di conseguenza la trasformazione da memoria individuale episodica in memoria semantica con una modalità pappagallesca, non gli era propria. Inoltre il suo modo di apprendere, scegliendosi le informazioni in modo personale e soggettivamente elaborandole, era poco strutturato, per cui quello strumento, lo chiamavano televisione, che ingabbiava in percorsi prestabiliti i cervelli degli ascoltatori che subivano passivi, l’aveva in un primo momento sorpreso. Strani esseri gli umani: non riusciva a inquadrarli . Non erano illogici, non del tutto e non soltanto. E allora com’erano?
Lui, tanto per unire l’utile al dilettevole, aveva scelto come luogo privilegiato di osservazione un paese dalla forma strana, un luogo favorito da un clima temperato e splendide città d’arte. Una di queste sembrava, come una ninfea, sorgere dall’acqua: in un appartamento che dava su un canale percorso da motoscafi e gondole, imbarcazioni scomode, nere come rondini contro un’acqua color verde bottiglia, aveva sistemato il suo armamentario di ricerca, classificazione e studio dei dati raccolti.
Dorina era la figlia del proprietario dell’albergo più bello del canale ed era la più bella “tosa” di Venezia.
Si affacciò alla finestra. Nella città, nera di turisti, lo scalpiccio dei passi si accompagnava al rumore dell’acqua che l'aggrediva, l'accarezzava e l'assediava implacabile, fondendosi con i suoi palazzi, le sue calli e la sua gente che di quella convivenza sembrava fare motivo d’orgoglio. Quando alla sera i tramonti traevano sprazzi di luce dai suoi ori, i suoi smalti, i suoi palazzi riflessi nell'acqua, appariva come un miraggio tremolante scaturito dalla fantasia di un viaggiatore sperso nel deserto. E Kappa, in quella città che era una contraddizione costante tra istanze di pratictà e desiderio di bellezza, così si sentiva.
C’è una correlazione tra il nostro cervello e l’ambiente in cui viviamo: tanta bellezza comunicava emozioni forti e qualcosa intaccava, disturbava la razionalità ferrea del cervello uranoide di Kappa.
Disturbava e basta? (continua)

domenica 29 marzo 2009

Kappa 22 e il calcio.

Il cervello di Kappa inserito in un contesto ambientale completamente diverso, caratterizzato dal succedersi delle stagioni, e sottoposto all’alternanza dei due cervelli, uno capace di elaborare solo processi logico razionali, l’altro, secondo lui disturbato dall’ingerenza delle emozioni, stava adattandosi a questa realtà nuova attraverso l’elaborazione di nuovi circuiti e nuove connessioni cerebrali che stavano assumendo anche una valenza emotiva.Si stava sviluppando un essere nuovo: un ibrido dai contorni ancora poco definiti, una creatura dalle caratteristiche inquietanti e imprevedibili. Il nostro Kappa, anche quando, nella solitudine della sua casa, ridiventava un uranoide conservava traccia nella memoria delle emozioni che aveva provato. Anche il suo corpo ricordava: il profumo del fieno appena tagliato gli rimescolava il sangue perché lo collegava immediatamente a Dorina e non trovarsela accanto scatenava in lui una sensazione di disagio, di malinconia. A poco serviva ripetersi che l’avrebbe vista il giorno successivo, Dorina era diventata per lui un pensiero, se non fisso, decisamente ricorrente.
Da Urano gli avevano comunicato una notizia certamente non rassicurante. Sulla Terra qualcuno lo seguiva, lo stavano pedinando. L’ordine era quello di fare attenzione, la massima attenzione, perché il minuscolo mezzo spaziale con il quale aveva raggiunto la Terra avevano dovuto, essendo stato individuato, disintegrarlo. Sarebbe stato troppo pericoloso farlo cadere nelle mani degli umani, data la sua complessa tecnologia d’avanguardia.
Kappa attivò il suo rilevatore personale, molto meno potente di quelli in uso sul pianeta da cui proveniva e il suo schermo che gli rimandava quell’immagine vuota gli diede una spiacevole sensazione – ormai gli succedeva con sempre maggior frequenza – di solitudine e abbandono.
Accese la televisione per uniformarsi alle abitudini degli umani, onde evitare sospetti, e si sintonizzò su un programma che trasmetteva una partita di calcio. Trovava questo sport molto divertente, chiedendosi perché Dorina non lo sopportasse. Si scolò una birra e si allungò sul divano. Esplose quasi subito in un urlo di gioia, il suo calciatore preferito aveva segnato e Kappa 22... per l'esattezza (questa sua caratteristica se la portava scritta nel Dna e nel nome) agggiornò il conto dei gol. La notte estiva, sovrastando il frinire di grilli e cicale, ronzava di televisori accesi. (continua)

sabato 28 marzo 2009

Kappa scopre le donne.

Quando aveva partecipato al corso, per affrontare la sua missione sulle Terra, Kappa, diventato Ka per gli amici, aveva diligentemente incamerato tutte le nozioni attinenti all'argomento delle emozioni e aveva messo quella nota, appuntata lì come un segnale di pericolo.
Innamoramento, passione e, ossessione. Ossessione? Cos'era? Cercò il significato della parola: era una passione patologica, una malattia dell'anima? Meglio affidarsi, per capire, al cervello umano, meno capiente, ma più versatile di quello uranoide. Nel suo pianeta era il computer che decideva le unioni, non quell'attrazione tra i due sessi che poteva sfociare in patologia. Gli umani chiamati ebrei ritenevano che per ogni uomo ci fosse al mondo la donna "giusta" per lui, la sua "bash'ert", ma erano piuttosto fumosi sul modo di identificarla, Kaballà permettendo. Perché quando non capivano gli umani inventavano, con quei loro cervelli, per metà razionali e per metà sentimentali, sfiorando la verità scientifica, poichè senza l'immaginazione, da cui scaturiscono i sogni, non si può scoprire nulla. Un umano un giorno gli aveva detto "Se un uomo non avesse sognato di volare, oggi non ci sarebbero gli aeroplani..."
Comunque, lui a Dorina riusciva a resistere solo se, come una macchina che andasse a benzina e a gas, attivava il cervello uranoide e disattivava quello umano. C'era inoltre in lei qualcosa che lo insospettiva. Faceva troppe domande, voleva sapere troppe cose di lui, della sua infanzia e della sua famiglia.
Un giorno gli aveva detto: "Da dove vieni? Dalla Luna?" e quando lui aveva risposto " Da Urano", aspettandosi una risata, perché aveva capito che per gli umani nulla era meno credibile della verità, lei l'aveva guardato fisso senza rispondere, un'ombra nello sguardo che significava sospetto, dubbio.
Quando se n'era andata, aveva scartabellato tra i suoi appunti. Era una caratteristica umanoide che apparteneva soprattutto alle femmine: si chiamava intuito. Un squarcio di luce fugace che consentiva la comprensione di un problema complesso senza averne analizzato i passaggi e le connessioni logiche e consequenziali.
Dorina non sapeva chi fosse, ma sapeva, senza poterlo provare, che c'era in lui qualcosa di diverso e inquietante. (continua)

venerdì 27 marzo 2009

Kappa 22 non sa più quanto contare

Kappa 22 conto fno a?, era decisamente in crisi, perché quando aveva scelto la testa, con relativo volto e cervello, per la sua spedizione sulla terra, l’aveva fatto con una certa leggerezza pur sapendo, dato il corso full immersion sugli umani, che i messaggi di tipo emozionale per gli umani si trasformavano in sentimenti tradotti poi in parole. Ma lui, sebbene fosse un giovane, ben preparato funzionari del Servizio Contatti con la Terra, anche abbastanza sicuro di sé, forse, aveva sottovalutato le difficoltà dell’incarico che gli era stato assegnato.
Quanto imprudentemente aveva invitato quella giovane donna al bar a prendere una birra e, soprattutto, con quale leggerezza aveva risposto alle sue domande? Lui, Kappa 22, non aveva mai provato emozioni, il suo cervello da uranoide ne era immune, ma quel maledetto cervello umano invece l’aveva preso in contropiede, restando basito di fronte ai fianchi e alla falcata delle gambe
di Dorina, così si chiamava, senza parlare di quella voce che sembrava il mormorio di un ruscello, un tintinnio di campanelli d’argento interrotto da risatine musicalmente sonore come cascatelle d’acqua festante.
Le aveva anche promesso di telefonarle, dandole il proprio numero di telefonino, sempre senza contare non fino a 10, nemmeno fino a due, e lo sapeva benissimo che non avrebbe dovuto dare a estranei la possibilità di rintracciarlo.
Ma la cosa assurda era che appena faceva rientrare la testa da uranoide nel torace e si metteva la testa da umano, la voglia di telefonare a Dorina gli invadeva il cervello, esautorava il pensiero razionale, lo distraeva a un punto tale da renderlo un mezzo babbeo. Era quello che gli umani chiamavano innamoramento. Negli appunti c’era un riferimento a una nota. In calce una parola misteriosa che non riuscì a decifrare. (continua…)

Kappa 22 si sente strano

Kappa 22 conto fino a tre per l’esattezza, vinto il prestigioso “Bloggo quindi sono” si svegliò nei giorni successivi tormentato da una sensazione di malessere. Revisionò i propri circuiti, corresse alcune impostazioni legate ai suoi programmi giornalieri e cercò di distrarsi scorrazzando in lungo e in largo nella blogsfera. Una primavera umida, malaticcia occhieggiava dalla finestra della sua stanza e lui l’osservava incuriosito perché sul suo pianeta le stagioni non esistevano e questo contribuiva alla stabilità caratteriale dei suoi abitanti. Sul pc aveva visto immagini dell’estate, quei cieli azzurri e la gente seminuda che riempiva le strade, mangiando all’aperto e cambiando addirittura il colore della pelle. Decise che quella stagione lo incuriosiva e accelerò il tasto cronologico. Il sole pallido improvvisamente acquistò forza, il giardino della sua casa, quando alzò gli occhi, era una distesa di verde interrotta da ciuffi di fiori, rose rampicanti, dalie multicolori e ortensie lilla e rosa
Il caldo lo prese alla gola e gli fece spalancare le finestre. Entrò l’aria estiva portandosi dietro l’odore dell’erba e la polvere della strada. Il sangue gli si rimescolò dentro, mentre un’euforia nuova e immotivata lo spingeva a uscire. Regolò la temperatura del suo corpo che, avvolto in una similpelle umana, stava salendo dandogli una sensazione di strana leggerezza alla testa rientrata nel torace, e sostituita con una da umano piazzata sul collo. L’aveva scelta lui la nuova testa: piccola, ben modellata, grandi occhi scuri, capelli mossi dai riflessi dorati e quella bocca sottile e ben disegnata dalla quale sgorgavano parole e sorrisi che gli attiravano la simpatia dei presenti.
Una ragazza lo guardò, invitante, maliziosa. Compatibile con le sue caratteristiche? Non gliene poteva fregare di meno che lo fosse. Gli passò davanti e lui sentì il suo profumo.
Girò i tacchi e la seguì, lo sguardo arpionato ai suoi fianchi sculettanti e quando lei si voltò e, con un sorriso che le illuminava gli occhi, gli chiese il suo nome, rispose soltanto Kappa, dimenticandosi di contare fino a dieci prima di dare informazioni a soggetti potenzialmente pericolosi, come gli era stato insegnato (continua…)

giovedì 26 marzo 2009

Perche' non un blog

Dopo aver scritto oltre duecento post una domanda mi frulla in testa: “Perché non un blog?”
Nel mio primo post, piena di sacro fuoco, inneggiavo alla mia stanza virtuale, perché era questa l’immagine che il blog mi suggeriva, ma in realtà io di spazio ne avevo e ne ho, se non troppo, certamente più di quanto ne abbia mai avuto. Per anni ho condiviso tutto o quasi con tre figli e credo che avrei dato l’anima per un buco, grande anche poco più di un cesso, che fosse mio, esclusivamente mio. Quando ho aperto il blog non era di spazio che avevo bisogno, ma di contatti umani. Ammettere di sentirsi soli, che non equivale sempre a essere soli, richiede coraggio, il coraggio di essere se stessi, di gettare la maschera di una sicurezza che è solamente di facciata. Richiede anche umiltà. L’umiltà non mi appartiene.
Perché non un blog? Perché se pensi di risolvere i tuoi problemi caratteriali o esistenziali(c’è un collegamento?) scrivendo post su un blog ti sbagli di grosso. Perché in Rete ci si misura, ci si studia, spesso si dice ciò che si pensa. Spesso ma, come nella vita reale, non sempre.
Assume grande rilievo ciò che si dice attraverso la scrittura, quindi ciò che si scrive. Spesso del nostro interlocutore non conosciamo nemmeno la faccia, men che meno la voce - se non usiamo skipe. Se il linguaggio gestuale è il più difficile da falsificare e le parole sono buone donne al servizio di chi le usa il dubbio di una comunicazione fasulla si fa certezza. Su Face Book ci sono persone che hanno alla voce amici centinaia di nominativi. Ma, ragazzi, l’amicizia è una delle grandi gioie e consolazioni della vita, è calore, affetto, aiuto. Con il blog si moltiplicano le occasioni d’incontro, ma è difficile far decollare rapporti autentici. I rapporti autentici hanno bisogno di tempi lunghi, pazienza, incontri faccia a faccia quando le parole non dette affiorano negli occhi di chi ci sta accanto. Ci sono sguardi che esprimono in un lampo ciò che le parole faticano a comunicare. Si possono instaurare rapporti d’amicizia, autentica, anche su internet, ma con le stesse difficoltà che richiederebbero in un contesto reale e non virtuale.
Ci si aiuta? Se si ha bisogno di informazioni la rete è efficientissima, ma nel blog ci si parla addosso, come qualcuno che nella propria stanza pronunciasse a suo uso e consumo un monologo. E se vengono a mancare i commenti… Io sono andata in giro e ho commentato su alcuni blog, ma sono rimaste parole isolate come messaggi gettati in mare in una bottiglia. Parole, parole, parole soltanto parole che mi hanno dato l’illusoria sensazione di comunicare ma che della comunicazione avevano soltanto il cicaleccio. E, impegnata a scrivere – tre, quattro post per settimana – ho trascurato i rapporti reali aumentando di fatto la mia solitudine.
Diverso è il discorso di un blog aperto per conoscere persone nell’ambito di una scelta professionale e qui la blogsfera dispiega tutto il suo valore. Non posso analizzare questo aspetto perché non ho un’esperienza personale a questo riguardo. Ho notato, per quanto mi riguarda, che la Rete non ha modificato il mio carattere che rimane sostanzialmente chiuso, timido e poco disinvolto, ha soltanto fatto da cassa di risonanza ai miei limiti, perché i grandi numeri della blogsfera hanno reso probabile ciò che i piccoli numeri della vita mi avevano illusa potesse essere casuale.
Mi ha dato maggiore consapevolezza, non è poco ma, nel mio entusiasmo iniziale, mi sarei aspettata qualcosa di più.

martedì 24 marzo 2009

Kappa 22

Gli abitanti di Urano erano molto incuriositi dagli uomini, dalle loro bizzarre abitudini, dalla loro illogicità. Quando finalmente, perché in effetti questi umani erano abbastanza fessacchiotti,(ma soprattutto perché disperdevano le loro pur notevoli energie in mille rivoli di rabbia, frustrazione, invidia, ambizione sfrenata, passione e altre simili amenità che definivano emozioni) cominciarono a usare il computer e a scribacchiarele cose più strane sui, sui – come li chiamavano? – blot, no blog, decisero che avrebbero potuto utilizzarli come luoghi privilegiati di osservazione per studiare quegli strani bipedi. E così uno di loro, "Kappa 22 conto fino a tre per l’esattezza", si appollaiò su uno sgabello e iniziò a postare.

I giorni successivi si dedicò alla lettura di altri post, dove lasciò commenti particolarmente arguti e quindi incominciò a linkare siti a grande velocità. Quando si rese conto di essere diventato popolarissimo, incominciò a iscriversi ai vari Blogbabel, Miglior blog, Chi meglio di te e via discorrendo.

Non capiva per quale motivo gli umani ci tenessero tanto a queste classifiche pur intuendo che la faccenda rientrava nel campo delle emozioni,nella fattispecie quelle derivanti dal successo, altro concetto per lui di difficilissima comprensione, dato che non serviva né a mangiare, né a dormire e nemmeno a fare l'amore, una ginnastica che per gli umani era essenziale.
Sull’onda del successo approdò a Technorati, sito valutativo ad alto livello mondiale che decretò la sua bravura. Non erano passati ancora due mesi e il nostro Kappa contendeva il terzo posto mondiale a un certo “Sputa nell’oceano” e a "Giusi con la i”.
Uno dei suoi post vinse il premio “Bloggo quindi sono” con un racconto di fantascienza, originalissimo, frutto, secondo la giuria, di una capacità fantastica al limite della paranoia, spumeggiante come coppa di champagne, un verosimile tanto vero e poco simile, no tanto simile e poco vero, no tanto poco verosimile, ma...(e qui si accapigliarono i critici) da lasciare sbigottiti i componenti della giuria.

Un critico - che non si capiva bene perché fosse Il Critico dato che non sapeva scrivere, ma gli umani dicevano che sapeva criticare e demolire gli scritti altrui e anche questo tra gli umani sembrava normale - apostrofò il nostro il giorno della premiazione dicendo: “ Immagino lei sia un abitante di Urano…” Il nostro annuì e Il Criticò miagolò uno “Spiritosissimo” al suo indirizzo..
Kappa 22 si limitò a contare fino a uno, non valeva la pena di consumare i propri fusibili per un simile idiota.(continua)

domenica 22 marzo 2009

Agora'

Cosa si cerca sul web? – si chiese, accendendo il pc. La giornata era grigia, pervasa da quella nebbia umida che caratterizza il clima della bassa padana. L’agorà – si rispose. La piazza che i paesi, anche i più piccoli, hanno: per incontrarsi e confrontarsi davanti a un bicchiere di vino o a una tazza di caffè. E’ una piazza virtuale che si raggiunge senza stiparsi su un mezzo di trasporto e senza rischiare multe per un divieto di parcheggio. Non è nemmeno necessario mettersi n tiro. Si può andarci in camicia da notte o in tuta da ginnastica. Ah dimenticavo si può fingere di essere ciò che non si è, o essere assolutamente sinceri ( come oseremmo soltanto con uno sconosciuto incontrato su un treno).
E, come da qualunque occasione d’incontro, può nascere di tutto: da un’amicizia, a un matrimonio, a un affare, a un imbroglio, a un omicidio. Tutto, con un semplice clic.

sabato 21 marzo 2009

Paghiamo meno imposte, paghiamole tutti.

Ho riflettuto molto arrivando, per il momento, alla conclusione che il punto di partenza in questa maledetta crisi, sia stabilire innanzi tutto una cosa: è una crisi, sia pur gravissima, di un sistema ancora funzionante oppure è il sistema economico-finanziario (e conseguentemente di valori) che è diventato obsoleto, superato e che pertanto è destinato a scomparire? Si dovrebbe stabilire a priori, ma è probabile che la risposta venga data a posteriori.
L’economia finanziaria che, apparentemente, ha salvato il capitalismo da una delle sue cicliche crisi, si è rivelata un boomerang, un’invenzione più raffinata della “catena di Sant’Antonio”, ma altrettanto truffaldina. L’economia finanziaria è parte integrante di un sistema capitalistico e i problemi non sono stati una conseguenza del suo esistere, ma del suo modo di funzionare. E qui entrano in ballo responsabilità gravissime dei sistemi di controllo e della politica.
La crisi del ’29 aveva prodotto negli Usa come in Italia una normativa finalizzata alla tutela del risparmio e alla corretta erogazione del credito. Perché è stata sostituita con regole del gioco che limitavano i poteri di controllo degli organi ad esso preposti e lasciavano mano libera alle banche?
“ E’ il mercato, bellezza!” qualcuno potrebbe rispondere, ma il mercato, quello che negli ultimi anni è diventato il dio-mercato si è rivelato un marchingegno improntato al conseguimento di un unico obiettivo: il profitto. Quindi la normativa che si proponeva di conseguire profitti e tutele è stata sostituita da norme che davano la priorità al profitto a scapito della sicurezza.
E’stata fatta una scelta ben precisa: continuare a incrementare i consumi per produrre ulteriormente. E se si contrae la capacità di spesa? Si compera a debito: soldi facili per tutti, soprattutto negli Usa. L’ho già scritto in questo blog. Consumi alimentati dai debiti. E per tenere alto il consenso case per tutti nella previsione di un aumento infinito del valore degli immobili.
Premessa manicomiale che ha scatenato la crisi dei subprime americani.
Il presidente del Consiglio, come prima mossa, ma la mia impressione è che non ce ne siano molte altre dietro l’angolo, ha consigliato agli italiani di spendere, dando l’esempio e acquistando un’altra faraonica magione da aggiungere alle molte che già possiede. Continuare a mandare le mogli a fare shopping – che un po’di distrazione non guasta - , andare in vacanza e via discorrendo. C’è un piccolo problema: oltre all'aumento vertiginoso della Cassa Integrazione e dei licenziamenti, dobbiamo registrate anche il mancato aumento degli stipendi, che il buon Trentin disancorò dalla scala mobile, avviando la concertazione con la Confindustria, e il pacioso Prodi dimezzò come potere d'acquisto, promettendoci l'Eldorado europeo e facendoci entrare nell’area euro.
L’unico modo di aumentare la disponibilità di spesa degli italiani è quello di ridurre l’incidenza delle imposte sui redditi di lavoro, abbattendo contemporaneamente il peso degli oneri integrativi su salari e stipendi, e migliorando in questo modo anche il conto economico delle aziende. (Per chi se ne fosse dimenticato sto facendo mia l’ipotesi del cuneo fiscale). E il minor gettito, con eventuale peggioramento del debito pubblico? Presto fatto: lo recuperiamo attraverso la lotta all’evasione fiscale. E qui il discorso si fa politico: può un governo che fa gli interessi della parte abbiente della popolazione, rischiare il proprio consenso elettorale? La risposta mi sembra scontata.
Lo slogan che mi frulla nella menta non è "lavoriamo meno, lavoriamo tutti" ma "paghiamo meno imposte, paghiamole tutti"!

giovedì 19 marzo 2009

Giovani

Cambia tutto. E’cambiata anche la guerra, la loro guerra: quella che stanno combattendo i nostri figli uccide in un altro modo. Uccide i progetti, ne fa strage. Uccide i loro figli prima ancora di farli nascere: li uccide non nel ventre, ma nel cervello delle donne. “E’ un lusso che non possiamo permetterci” sussurrano le ragazze e si prendono un cane o raccattano un gatto randagio, che l’istinto materno non è un’invenzione né un bisogno indotto. Gli schiavi lavoravano gratuitamente, obbedivano e perdevano la liberà di decidere? Gli insegnanti che nelle scuole private non ricevono lo stipendio, le operaie e gli operai che si sentono proporre stipendi dimezzati come alternativa al licenziamento, cosa sono: lavoratori o nuovi schiavi? I padroni – se erano morti sono resuscitati – comandano e non resta che obbedire. E loro, i ragazzi, che hanno le orecchie lunghe e vedono lontano, sanno, come lo sapevano gli indiani, che li stanno sterminando e che per loro non ci saranno verdi pascoli…In aggiunta dovrebbero, compunti, ascoltare anche le nostre ramanzine?
Attenzione generale Custer, si ricordi del Little Big Horn!

mercoledì 18 marzo 2009

Nostalgia di Venezia

Le vie strette mi ricordavano la geometria del ghetto che, da bambina, a Trieste, attraversavo per arrivare alla casa di mia nonna. Identica la mancanza di luce, l’arcobaleno dei panni stesi ad asciugare, le rachitiche piante sugli stretti davanzali. Percorrevo le calli incrociando i canali che esibivano casa ferite dall’acqua, macchiate di muffa verdastra che intaccava l’intonaco facendone affiorare l’ossatura in pietra o mattoni. Mi avevano parlato tanto di questa città e io la osservavo, un po’ delusa, fino a quando, socchiusi gli occhi, cercai di sentirla oltre che vederla: questa Venezia sbilenca che sembrava galleggiare sull’acqua, come un paese visto in sogno, ondeggiante, come i santi portati a spalla tra i fumi d’incenso di una processione. Non era una città vera, era una città sognata, un luogo della fantasia. Le mie orecchie percepivano quel frangersi leggero dell’onda contro qualsiasi cosa ferma quasi a volerla scardinare e quella parlata molle strascicata, rigorosamente dialettale, quasi a voler rivendicare un passato da gran dama che può ancora imporre le sue debolezze come scelte. Perché se l’acqua che cinge Trieste, la mia città, è ampiezza, respiro, promessa di avventura e di fuga, a Venezia, umida e stantia, l’acqua assedia e non incornicia. Città nella città, colma i suoi canali, circonda le sue fondamenta, mormora e sussurra. Acqua stantia che non si rinnova, è acqua di laguna nella quale la città si riflette, con i suoi eccessi di ori, smalti, marmi pallidi e aerei come pizzi, finestre che si allungano verso il cielo lasciando intravedere interni preziosi. Splendida e decadente, è, non a caso, il fondale perfetto per il gioco delle maschere. La finzione che la maschera rappresenta e esaspera richiede un palcoscenico adeguato e la città si presta al gioco perché tutto a Venezia: gondole, calli, Piazza San Marco, la luna che scivola sul Canal Grande, è spettacolare, unico e teatrale.

lunedì 16 marzo 2009

Cambiamento

Si era innamorata di lui al primo sguardo, anche se era poco più di una bambina. Alto, biondo, occhi chiarissimi, pivot della squadra di pallacanestro.
Lei andava alle partite soltanto per vederlo.
Aveva quindici anni, sembrava ne avesse tredici.
Acerba come quell’estate appena iniziata, si arrotondava, sopraffatta da quell’urgenza di cambiamento che non riusciva a controllare, spiando rondini nere contro l’azzurro del cielo, sotto quel sole torrido che, come lei, sembrava non voler abbandonare il giorno, in quelle notti vive, elettrizzate dal frinire delle cicale. L’acacia del giardino profumava di miele.
Girava con il golfino, da quando sua madre le aveva comperato un reggiseno e sua sorella, più grande di due anni, ridendo le aveva detto: “Bene, il tuo bel giocatore si accorgerà di te”. Non era successo: lui continuava a non vederla, paludata com’era in gonne scozzesi troppo lunghe, camicie troppo accollate e inseparabile golfino grigio topo.
Poi, un pomeriggio, con il caldo che rendeva molle l’asfalto, aveva preso la corriera ed era andata a Sistiana, a fare un tuffo prima di cena. Il sole stava calando all’orizzonte sulla spiaggia deserta: una bava di vento, che si animava dello stridio dei gabbiani, le accapponò la pelle, mentre si tuffava intravedendo qualcuno sul molo. Ora nuotava con lunghe decise bracciate, scivolando sottacqua, ingoiando azzurro, riemergendo, gli occhi colmi di nuvole in corsa. Lo vide, abbronzato, gli occhi del colore del mare, che usciva dall’acqua. Si stava sdraiando …proprio davanti a lei. Ebbe un attimo d’incertezza, poi la donna che stava diventando ebbe il sopravvento. Raddrizzò le spalle emergendo dall’acqua che le spumeggiava intorno in un traforo di spruzzi. Sollevando le braccia, alzate per togliersi i capelli dal viso, riluceva di gocce iridescenti, giovinezza e bellezza.
Lui la guardava. Lui la guardava! Sorpreso, incredulo.
Mentre si accoccolava sull’asciugamano, esitante le disse: “Ci conosciamo?”
“ No” lei rispose, girandosi dalla parte opposta.
La crisalide, diventata farfalla, aveva voglia, in quel momento, soltanto di volare.

sabato 14 marzo 2009

L'ingrediente che non può mai mancare

La cucina era gravida di vapori e profumi: rosmarino, timo, menta, mentuccia, origano, ginepro. Lei, avvolta in un grembiule azzurro, mescolava, tritava, annusava e assaggiava.
Crepes ripiene di spinaci, e sua nonna si materializzava: un donnino alto una spanna. Occhi dallo sguardo tagliente che s’intenerivano solo quando lei, la nipotina prediletta, l’abbracciava chiedendole: “ Nonna, me lo fai lo strudel di mele?” E sua nonna s’infilava il grembiule, la divisa d’ordinanza della casalinga, mentre lei si metteva in moto, decisa ad aiutare, ma finendo per essere più d’intralcio che d’aiuto.
“ Il pangrattato appena scottato, deve diventare solo biondo, un filo di burro, una mescolata e via…È già troppo, è già troppo” le gridava, strappandole la padella dalle mani.
Poi distribuiva il composto sulla pasta e …arrotolava, con maniacale precisione chiudeva lo strudel su entrambi i lati e infornava.
Non avrebbe mai osato cimentarsi in quell’opera d’arte – pensò, mescolando gli spinaci passati in un soffritto di pangrattato e aglio. Sarebbero rimasti a consumarsi a fuoco bassissimo per alcune ore, poi abbondante parmigiano e via nelle crepes, sottilissime – un vero e proprio velo. Quindi qualche fiocchetto di burro, salvia, parmigiano e forno caldo.
Le crepes: il piatto della riconciliazione, del superamento di un momento difficile o del Natale. Servite sui piatti di porcellana del servizio, che usava soltanto in circostanze particolari, avrebbero gareggiato in leggerezza con i fiori e gli uccelli che facevano il girotondo sui bordi.
Mescolò di nuovo: richiedevano un’attenzione costante e lei sapeva che sarebbe stato sufficiente il tempo di una breve telefonata per farli aderire al fondo della pentola e, come diceva la nonna ” farli diventar amari”. Riscaldò il latte con la stecca di cannella per il gelato di vaniglia e la memoria le parò davanti agli occhi i figli bambini, che ancora pendevano dalle sue labbra, avidi delle sue storie, capaci, con quei gelati alla vaniglia che nel suo freezer non mancavano mai, di far dimenticare malumori e amarezze.
Seduti a chiacchierare in salotto, mentre lei preparava il caffè “ Ve lo ricordate il gelato alla vaniglia della mamma? Mai più mangiato un gelato così…” li aveva sentiti dire, facendole pensare che il cibo fosse fatto anche d’amore, ingrediente capace di dare quel tocco particolare a un piatto ben riuscito. Il cibo curato come coloro che amava, osservato con la stessa attenzione, misurato con il bilancino come quando si prendeva uno dei ragazzi, lo faceva sedere davanti a sé, con una fetta di coke di semolino e uva passa tra le dita e, contando anche le virgole gli chiedeva “Cosa c’è che non va?” e lui, mentre ingollava lacrime e semolino, incominciava a parlare.
Ora per farli parlare non sarebbe stato più sufficiente sfornare un buon dolce. Ora erano diventati adulti, uno era lontano, le altre sempre di fretta, come passeri sorpresi su un ramo pronti a volar via. Lei cucinava pochissimo, e i piatti che preparava per sé sapevano di cartone o erano sciapi, risentendo insomma di quella mancanza di attenzione che riservava a se stessa.
Assaggiò gli spinaci. Perfetti: una crema dalle mille sfumature di gusto, un’apoteosi di sensazioni che partivano dalla bocca e invadevano il corpo, come una marea una spiaggia.
Ridacchiò soddisfatta: sulla tavola accuratamente preparata un raggio di sole giocò con le sfaccettature dei bicchieri di cristallo. Per un istante si sentì, giovane, intatta, dimenticando che la festa era in suo onore. Cominciò a contare le candeline, mio Dio quante: settantasette, settantotto, settantanove...ci siamo, c'erano tutte. Ottanta!

giovedì 12 marzo 2009

Non ci sei, nè ci sarai

Non ci sei, né ci sarai. Ci sei stata: come hai potuto, come hai saputo, come tutti noi.
Da donna hai pagato il prezzo più alto, anche tu come me, come tua nipote.
Aspro il rancore ha venato di durezza anche le parole dell’affetto, le ha cristallizzate, e i cristalli si rompono, lo sai. Solo due coppe fragili sui loro steli troppo lunghi sono rimaste nella credenza del soggiorno a testimoniare ciò che era, poteva essere e non fu. Abbiamo riso, poco, ma abbiamo lottato, tanto. Troppo? E’ difficile essere donne, la bellezza è una mela avvelenata e tu lo sapevi mentre ci spiavi con quegli sguardi scintillanti, neri di rimmel, la bocca piena e il tuo profilo aristocratico che il furore rendeva tagliente. E’ difficile essere donne se non si ha almeno la fortuna di essere un po’ ottuse per poter non capire, non vedere. Se ‘la morte si sconta vivendo’ la bellezza si sconta perdendola senza averla mai fatta nostra, come una stella cadente a cui ci fossimo affidati per illuminare il nostro percorso - un giorno mi dicesti. Il filo rosso che unisce senza soluzione di continuità le madri alle figlie e alle nipoti per noi è stato catena di cui liberarsi, giogo da cui affrancarsi, eppure le madri mancano. Come la luce nelle giornate d’inverno, come un ‘bravo’ ben meritato, come una porta aperta quando suoni un campanello, come quello sguardo – irritantemente critico – che per una vita ti sei sentita addosso e che ora non c’è più. Stupita verifichi che non provi sollievo, oh no!, soltanto la sensazione che a nessuno gliene freghi, più di tanto, di cosa tu faccia o dove tu vada, mentre tu non mi mollavi, mai! E, vuoi ridere?, anche di questo ho nostalgia…

Era questo che chiedevi

Cosa assai strana il tempo:
Passa svelto
Gira lento.
Da bambina
Era a scuola che la noia dilagava,
Più grandina dai parenti
Che eran poco divertenti
Poi, di colpo,
Diplomata, a Trieste fui mandata
Per studiare, fare esami
Costruire il mio domani.
Furon gli anni miei più belli
Soffia il vento, geme il mare
Giovinezza non scappare
I tuoi baci eran di miele
Nelle tasche avevi il fiele
Una chiesa, dei gabbiani
Beccan riso dalle mani
Sposa lieve,
Sposa bianca come neve
Con quel si tu t’ingabbiavi
Ma ancor non lo sapevi
Strilla il pupo, geme il mare,
Cristo, cosa devo fare?
Altra pupa strilla in culla
Tu ti senti un po’ fasulla,
ma la mamma devi fare,
far la spesa
a scuola andare
Soffia il vento, geme il mare
E la culla ancor riappare
Non c’è pace nel tuo cuore
Geme e piange con il mare
Tu non sai più cosa fare
Ti tormenti, ti avveleni
Ma un bel giorno molli i freni,
prendi i figli, i loro giochi
due valigie di balocchi
e piangendo te ne vai.
Sì lo sai che saran guai,
si lo sai che creperai
di paura,
di sgomento,
di fatica
di spavento
Soffia il vento, geme il mare
Il tuo orgoglio vuoi salvare
E la testa tua rialzare
La tua vita vuoi tenere
Stretta ancora tra le dita
soffia il vento e geme il mare
La tua vita ora
Decolla
Vola
Danza
Caracolla
Sei gabbiano
Ma perdente
Ma non te ne frega niente
Volar libera volevi
Era questo che chiedevi
Ed è questo che ora hai

martedì 10 marzo 2009

La ricetta della torta di mele non l'aveva scordata

Era un inverno lungo, freddo e particolarmente nevoso. Larghi fiocchi scendevano dal cielo planando sul caco e sul pesco dell’orto. Per fortuna aveva un frigorifero enorme, con relativo freezer. Erano sempre pieni, avrebbe potuto resistere all’assedio della neve e del ghiaccio per mesi – pensò, sbirciando oltre i vetri della finestra. Uscì e, arrancando, si diresse verso la legnaia, riempì il cesto e poi si chinò per afferrarlo.
“Le do una mano”.
Stupita, sollevò gli occhi incrociando lo sguardo dell’uomo che, apparentemente emerso dal nulla, le stava di fronte. Si guardò intorno: la neve dava una sensazione d’irrealtà alimentata anche dal silenzio che gravava sulla collina. Sul viottolo, le impronte dell’uomo che giungevano fino all’ingresso della legnaia, spiccavano scure sul candore. Non lo conosceva, certamente non era un vicino. Chi era e soprattutto cosa voleva da lei? Per un attimo provò una sensazione di panico, ma la padroneggiò piantando gli occhi addosso allo sconosciuto e dicendo: ”La ringrazio, ma sono perfettamente in grado di cavarmela da sola”.
Allungò la mano per afferrare il cestino. L’uomo la osservava, attento, il respiro che si condensava davanti alla sua bocca. Era vestito con gusto sobrio ma che denotava una certa accuratezza. Sicuramente non era un barbone e non era uno straniero. Portava pantaloni di velluto beige, una camicia a scacchi, intonata ai pantaloni e al maglione color verde muschio che indossava. Stranamente non aveva un giubbotto, un cappotto. Sembrava uscito di casa in fretta. Lo sguardo le cadde sulle scarpe: indossava scarponcini di camoscio di ottima qualità, bagnati. Quindi aveva percorso a piedi la strada che portava a casa sua. O era venuto in macchina? Si guardò attorno cercando le tracce del passaggio di un’automobile. Non vide nulla.
“ Ha paura?”
Rimuginò per un istante su quella domanda. No, non aveva paura, ma capiva che avrebbe dovuto averne. La casa più vicina era a parecchi metri di distanza. Poteva scorgerne le finestre che davano sul viottolo che portava alla sua casa. Le imposte erano chiuse, sprangate. Chissà dov’erano i vicini?
L’uomo continuava a fissarla, immobile, in attesa. Di che cosa?
“ Fa veramente freddo…”
Lei si accorse che lo scuoteva un tremito leggero. Tremava anche lei nell’abito da casa, sotto lo scialle con cui si era avvolta le spalle. Lo guardò negli occhi, notando che erano belli, di un colore che ricordava quello delle foglie in autunno, teneri e un po’ attoniti. Anche lui la guardava, calmo. Apparentemente tranquillo, anche se in fondo agli occhi c’era qualcosa: uno smarrimento, una domanda, ma una domanda che non esigeva una risposta. Forse perché la conosceva già? Assurdamente pensò per un istante che fosse una domanda retorica. Reminescenze scolastiche?
“ Devo fare colazione, l’acqua per il tè sarà evaporata. Vuole qualcosa di caldo?”
“ Grazie, sono gelato” le rispose. Lei, precedendolo, entrò nella casa e si diresse verso la cucina.
Nel caminetto bruciava della legna. Dalla radio accesa la voce dell’annunciatore gracchiava qualcosa sul tempo. L’uomo disse: “ Nevicherà ancora…” avvicinandosi al caminetto e allungando le mani per riscaldarsi.
Lei preparò il tè e riscaldò la torta di mele che aveva fatto il giorno prima.
“Si sieda”, gli disse appoggiando la teiera sul tavolo. Il tè fumava nella tazza, lui la prese tra le mani per riscaldarle. Il calore del fuoco e quello della tazza avevano calmato il suo tremore. Non parlava, sembrava fissasse un punto sul muro: in realtà seguiva un suo pensiero fisso e le sopracciglia inarcate, a formare una ruga dritta in mezzo alla fronte, denunciavano il lavorio della mente.
“ Mangi anche una fetta di torta: è fatta in casa”.
Sembrò accorgersi di lei, del tavolo sul quale posò una mano quasi a verificare che fosse reale, della cucina, della torta che, lentamente, si portò alla bocca. “ Ottima”, disse e sorrise.
Sorrise anche lei.
“Che ci fa in giro… a quest’ora del mattino? Con questo tempo?”
L’uomo la guardò, negli occhi la domanda esigeva ora una risposta.
“ Lei lo sa?”.
“ Che cosa?”, gli rispose.
“ Lo sa chi sono?”.
“ No! Come potrei saperlo?”.
“ Non lo so nemmeno io. “
Appoggiò la torta sul piattino e si prese la testa tra le mani: “Non so più chi sono, eppure anch’io possedevo una casa come questa, ma non ricordo altro, in questo momento.”
Qualcuno stava suonando alla porta d’ingresso.
Lei andò ad aprire. Entrò una donna dalla taglia corpulenta.
“ L’avevo detto io che vi avrei trovato qui, tutti a due. Ci farete impazzire al Centro Assistenza. Vi correte dietro come due innamorati, ma lo sapete che avete settant’anni e che la responsabilità è nostra, qualunque cosa dovesse accadervi? Ma come ha fatto a prendere le chiavi dalla borsetta di sua figlia senza che lei se ne accorgesse? E’ da ieri che la cerchiamo e questa mattina è scomparso anche lui".
Per un attimo riprese fiato, poi "Senza di lei non sa stare…”., mormorò.
Lei la guardò stupita. Ecco perché non aveva avuto paura – pensò e, gentile com’era nella sua indole, le disse: “ Vuole una tazza di tè? Ho anche la torta di mele, l’ho fatta io.”
La nevicata che andava aumentando d’intensità aveva già cancellato, come la malattia i ricordi, le orme sul viottolo che appariva nuovamente intatto, vergine nel silenzio ovattato della collina.

lunedì 9 marzo 2009

Storie di donne

"Quando Nina Simone ha smesso di cantare" di Darina Al-Joundi e Mohamed Kacimi, storia autobiografica di un'adolescenza e giovinezza vissute in guerra, porta il lettore per manonei labirinti senza tempo e soprattutto senza senso in cui la guerra imprigiona anche i civili,trasformandoli in anime perse, morti viventi dallo sguardo raggelato e folle che è il solo che possa convivere con la morte. La protagonista attraverso una scrittura scarna, denudata di ogni enfasi, deprivata di aggettivi che qualifichino l'orrore, va alla scoperta dell'amore, della sessualità, della coscienza di sè, nella devastante cornice della guerra e nell'illusoria sensazione di essere, almeno interiormente, libera: per indole e per educazione.
La pace nel suo paese, però, non la libererà dalla guerra. Sarà il suo essere donna all'interno di una cultura in cui non si riconosce, saranno i pregiudizi, l'esigenza di scegliere la propria vita al di fuori e al di sopra di ogni tipo di appartenenza, a imporle nuovamente un "esterno" inaccettabile. Fuggirà allora e definitivamente dalla sua terra dove "gli uomini sono ossessionati dalle apparenze, ingabbiati dalle tradizioni, consunti da Dio, divorati dalle loro madri, rosi dai soldi..." alla ricerca di un modo e un tempo per dimenticare e, forse, ricominciare.

sabato 7 marzo 2009

Qualcuna nemmeno si muove, tanto poi arriva il nove

“A tuo padre sarebbe piaciuto avere un maschio”. Breve momento dedicato al sospiro, di rimpianto per quell’ometto rimasto nel mondo dei sogni, poi, fasulla, la rassicurazione “Ma è stato felicissimo quando sei nata tu.”
Ma va! Almeno mia madre avesse aspettato qualche annetto a dirmelo, in modo da mettermi nella condizione di replicare. Dal televisore del soggiorno mia figlia canticchia all’unisono con Cristina D’avena “Oh lady, lady, Lady Oscar, come un moschettiere batterti sai tu…” Anche la sottoscritta si è battuta come un moschettiere, chissà se mio padre sarebbe stato orgoglioso di me? Ormai non posso più chiederglielo.
Oggi è il sette marzo: la nebbia si sfalda, sfuma, intravedo di nuovo il profilo delle colline, morbide come fianchi di donna. La bellezza femminile, che è di tutte le donne, di questi nostri corpi lisci e curvilinei disegnati con il compasso, ma che in alcune deborda, straripa e incanta. E ingabbia. “Per una donna conta soltanto la bellezza” e l’occhio di mia madre mi soppesava, critico, scivolando sulle mie prime rotondità, appena accennate, sul mio viso in ansia.
“ E…io? Sono bella?” “Tua sorella è più bella” , poi, nuovamente fasulla, la rassicurazione “ma sei un tipo”. Cosa vuol dire “un tipo”? Lo specchio mi inchiodava, rimandandomi un’immagine che non riuscivo a definire, che gli altri dovevano delineare consegnandomela accompagnata da una valutazione di merito. Se fossi piaciuta sarei stata bella. Dovevo piacere. Le donne devono piacere
A costo di massacrarsi camminando sui trampoli, strappandosi peli, soffocandosi in corpetti, forandosi le orecchie, liposuzionandosi e arrivando a fracassarsi il naso come pugili per ricostruirselo alla francese. Ancora oggi? Soprattutto oggi!,almeno così sembrerebbe, poiché viviamo nella società dell’immagine, in una società dove il predominio maschile è ancora una certezza e dove la crisi economico –finanziaria in atto sta rimandando a casa le donne. La battaglia per l’emancipazione femminile langue, le donne sono disorientate, non sanno in quale direzione muoversi.
Molto più tutelate delle loro madri e nonne sotto il profilo giuridico, rischiano ancora molto a uscire sole di casa alla sera, pagano spesso con la vita la decisione di ribellarsi al marito o al compagno, sono gravate della cura dei figli molto più degli uomini e discriminate sul lavoro, ma, ciò che è più grave, non hanno ancora affrontato, in massa, la palude melmosa e invischiante del loro rapportarsi con l’affettività nei legami con la madre, il compagno, i figli e le altre donne. C’è ancora molta strada da percorrere, in salita e accidentata, ma le donne sono forti, molto forti anche se, spesso, poco coscienti della loro forza, della tenacia, dell’intelligenza, dell’intuito e della sensibilità femminili.
Dalla copertina di “ Wired” Rita Levi Montalcini si mostra in tutta la sua decadenza di donna e grandezza di scienziata e oggi mi sembra un segnale positivo. Un giornale nuovo, al suo primo numero non esibisce una delle tante “bellone” di turno, ma punta il suo obiettivo fotografico su una donna, quasi centenaria, che non ha avuto figli e che, quando viene intervistata, non parla dei suoi amori, ma dei suoi progetti professionali e delle sue scoperte di scienziata, ammettendo anche, con insopprimibile grazia femminile, la sua vanità che ancora oggi le fa scegliere gli abiti che indossa, i gioielli e l'acconciatura con grande cura. La scelta editoriale di questo giornale mi gratifica, oggi come donna, molto più di un rametto di mimosa.
Forza ragazze di belle speranze: questa donna straordinaria con il suo sguardo altero e consapevole ci indica una strada: seguiamola!

mercoledì 4 marzo 2009

Perché la lettura

Perché leggo? Perché senza la lettura non ci sarebbe la scrittura. Perché sono una collezionista di parole, perché quando da bambina ne inventavo una, e me la sottolineavano con la matita blù, mi sentivo come se mi avessero chiuso una porta in faccia.
Leggo perché con le parole ho costruito tane nelle quali infilarmi per scappare dalla vita, ho descritto le mie angosce, ho espresso i miei desideri, ho fatto chiarezza sui miei bisogni.
Perché ogni parola è una chiave che dà accesso all'ignoto, perché con una chiave si apre una porta e si chiude un portone. Perché è un bagaglio leggerissimo che mi porto dietro e che mi ha salvata in circostanze difficili, invisibile ma insostituibile.
Perché rispetto alla comunicazione gestuale, quella verbale gode di un'ambiguità che la carica di mistero, perché consente di fingere e permette di svelare, di spaziare, di sentire un gusto senza mangiare, di vedere un luogo senza esserci mai stati, di provare un'emozione senza vivere il fatto che l'ha generata.
Perché in un mondo ancorato al denaro, e di questo schiavo, è gratuita. Perché amo della parola l'ambivalenza che può renderla pietra, lama di coltello, bolla di sapone o soffio di vento.
Amo la lettura perché non è abitudine ma passione, è amore a prima vista, forse l'unico che non ti tradisce, non invecchia e non ti abbandona. Mai.

martedì 3 marzo 2009

Vecchie ricette per nuove crisi?

E' crisi nera, nerissima ragazzi...Cosa fare? Il capitalismo, che ha dimostrato fino a questo gravissimo crac di essere sempre stato in grado di trovare al proprio interno un antidoto ai suoi peggiori mali, sta collassando come sistema economico, nonché come sistema sociale di valori, oppure sta soltanto affrontando una delle sue più difficili crisi? Questo sarebbe il primo punto da chiarire perchè o i governi stanno tenendo in vita uno zombi, clinicamente già morto, oppure la strada imboccata per uscire dalla crisi, anche se con storture ed errori, ha un senso. Nei paesi che sono stati i fautori del libero - liberissimo - mercato stiamo assistendo ad una virata senza tentennamenti verso forme di economia mista. Niente di nuovo sotto il sole: ci pensò già Roosvelt con il "New Deal" e noi, in Italia, dando vita all'I.M.I e all'I.R.I. Ma è la strada giusta? Sono operazioni di salvataggio (bancario) che hanno il respiro corto o costituiscono una inderogabile priorità per la salvaguardia, nel caso dell'Italia, del Sistema Paese? L'intervento non dovrebbe essere ben più articolato? Se non salviamo le banche, mettiamo in ginocchio le imprese (e le famiglie).
Ma se non incrementiamo i consumi le imprese ce le giochiamo lo stesso. Quindi dovremmo aumentare la capacità di spesa delle famiglie. Come? Non aumentando stipendi e salari nominalmente (le imprese non sarebbero in grado di aumentare il costo del lavoro essendo già poco competitive) ma facendo ciò che il governo Prodi aveva iniziato a fare: ridurre le tasse e i contributi sociali ai lavoratori, recuperando, per non peggiorare la situazione del debito pubblico, il gettito perduto con la la lotta all'evasione fiscale. Manovra ineccepibile sotto il profilo economico,ma irrealizzabile, almeno con l'attuale compagine parlamentare e governativa, sotto il profilo politico. Le famiglie avrebbero speso di più, le imprese avrebbero ridotto il costo del lavoro, il maggior reddito sarebbe andato a favore di fasce che hanno una maggiore propensione al consumo.. Sarebbe partita, forse, la ripresa dei consumi.
Last but not least, la manovra sarebbe stata anche corretta in termini di redistribuzione del reddito: quindi avrebbe ridotto il rischio di tensioni sociali di cui il Paese in questo momento non ha bisogno.
L'altro punto importante riguarda la regolamentazione del mercato, che lasciato a se tesso e alle sue leggi ha dimostrato di sapersi e soprattutto volersi muovere privilegiando un unico obiettivo: soldi, soldi e ancora soldi. Il denaro è diventato un valore, il più importante, l'unico...con quali nefaste ricadute al di fuori del campo economico è sotto gli occhi di tutti. Bisognerebbe costituire un organismo in grado di controllare - dopo avere stabilito norma a tutela dei risparmiatori che altro non sarebbero che tutta la normativa bancaria mandata in soffitta negli ultimi quindici anni per sostituirla con le regole del gioco che hanno consentito a un'élite di manigoldi di creare una crisi mondiale - i ...controllori, cioé le banche centrali. Qui sullo sfondo occhieggiano le tensioni tra l'area dell'euro e quella del dollaro, problema politico prima che economico di non poco conto.
Se, ripeto, ci troviamo di fronte a una crisi, sia pure gravissima, di un sistema economico e di valori che pur in difficoltà ancora regge... ma se il malato dovesse essere ormai agonizzante, allora ci sarebbe da sbizzarrirsi con la fantasia e la bravura per creare veramente un mondo nuovo: con nuove teste, sangue giovane, l'occhio lungo che guarda al futuro, non il nostro che si rivolge al passato masticando o rimasticando vecchie soluzioni per problemi che, probabilmente, sono assolutamente nuovi, in aggiunta a quelli annosi che la mia generazione non è stata in grado di risolvere.

lunedì 2 marzo 2009

Luna d'agosto

Quando le ombre della sera allungavano fantasmi violetti sui muri delle case, e il giorno era già un ricordo da riporre nella memoria di un tempo perduto, lui scendeva lungo la strada che portava alla balera. Camminava al centro della via, le case intorno, riconoscendo in lui un vincitore, sembravano inchinarsi al suo passaggio. Vestiva sempre di nero, ma non si confondeva con il buio della notte.
Dal suo corpo emanava un’energia pronta a a esplodere, tenuta al guinzaglio, a fatica, come un’animale addestrato ad uccidere. Sempre solo, si materializzava come per magia, con quel suo passo che era già un preludio di danza. Entrava nel locale che, per un istante, tratteneva il fiato. Lui scivolava sulla pista da ballo, dava un colpo di tacco, quasi saggiasse la resistenza del pavimento mentre i suoi occhi scivolavano sui presenti. Si fermava quel suo sguardo senza dubbi, senza domande, sul tavolino d’angolo al quale si avvicinava lento mentre la donna, seduta con le braccia conserte, in attesa, accennava un sorriso. Allungava il braccio e lei si alzava, appoggiando con grazia di colomba la sua mano su quella dell’uomo. Un attimo dopo già volteggiavano sulla pista da ballo. L’orchestra suonava soltanto per loro. Le prime note del tango scivolavano sui loro volti che la luce del locale in penombra lasciava intravedere, e sembravano accarezzarli. Si muovevano in simbiosi, le gambe di lei, che lo spacco generoso dell’abito svelava, disegnavano immaginarie figure geometriche che accendevano di desiderio gli occhi degli uomini. La schiena s’inarcava, guizzavano i muscoli sotto pelle, il collo si rovesciava e il volto dell’uomo si avvicinava, la sfiorava, la sala tratteneva il respiro, ma lei voltava il capo, di scatto, riprendendo a volteggiare. L’orchestra che, con uno stacco aveva esaltato quell’istante, concludeva infine con lo strazio dei violini. Si scioglievano dal loro abbraccio, quindi lui la riaccompagnava al tavolo e, con quel suo passo, che sembrava trattenere ancora la musica nei muscoli, usciva dal locale.
La strada lo ghermiva, avvolgendolo nel buio della notte come un cavaliere infreddolito nel proprio mantello, ogni sera, ma soltanto nel mese di agosto quando la luna è così grande, così lucente, così incombente da rendere l’immaginario, realtà.

domenica 1 marzo 2009

Ridono anche i lillà

'Primavera vien cantando?' Non direi. Appollaiata come un pappagallo sul trespolo davanti alla scrivania ingombra di carte, lascio scivolare lo sguardo oltre la finestra. Il pino del giardino spezza la monotonia ovattata della nebbia. Non si vedono nemmeno le macchine sulla strada. Per un attimo gialli occhi rotondi appaiono per sparire così velocemente da dare la sensazione di un' illusione ottica. La nebbia mi assedia, mi isola dal mondo.
Il cane dei vicini abbaia infastidito, la padrona lo zittisce.
Mi affaccio alla finestra: il giardino s'intravede appena. Non tubano le tortore... e i merli? Dove sono i merli? E' stato un inverno interminabile, freddo, nevoso.
Un guizzo.
Un guizzo rosso?
Sulla nebbia il mio sguardo rimbalza, come su un volto ottuso. Il silenzio mi avvolge eppure ho la sensazione, per un istante, di una risatina sommessa.
'Sht, shht...' E no, qualcosa c'è. Si ripara dietro al tronco. Aguzzo lo sguardo e incrocio due occhietti. Due occhietti?
Spalanco la finestra.
Il muro di gomma della nebbia mi si para davanti. C'è un silenzio irreale, notturno, non giustificato alle nove del mattino, nemmeno dalla presenza di questa nebbia fitta e spessa come un panno bagnato di pioggia.
Sento aumentare la mia inquietudine. Altro guizzo, altra risatina.
Sono una persona razionale: non credo ai fantasmi, agli gnomi...Ah, ah, ah. Ah, ah, ah?
Il giardino ride, sommessamente ma ride, sottolineando, con lenti movimenti dei rami lucidi di umidità dei roseti, dei lillà e delle ortensie, una sorta di ironica presa in giro della sottoscritta.
'Silenzio!'urlo.
E il giardino, che la nebbia rende impalpabile come un pizzo, sembra obbedirmi.
Non mi sono ancora svegliata - penso, perlomeno non del tutto. Chiudo la finestra decisa a farmi un caffè bello forte e a chiudere fuori quel mondo che la nebbia ha reso ambiguo, poco percettibile per i miei sensi. Entro in cucina, lo sguardo mi cade sul tavolo: al centro, un vaso di ceramica azzurra. Azzurra non rossa. La risatina anima la mia disordinatissima cucina
'Ah, ah, ah, a chi credi di comandare?'
La strana creatura allunga un piede e inizia a crescere, crescere, diventa sempre più grande,invade la cucina, mi schiaccia contro il muro. Vedo rosso, soffoco, tento di gridare: tu, tu tuuu...Cos'è questo rumore? Allungo una mano: la sveglia smette di berciare. Mi strofino gli occhi, finalmente sveglia.
Un muro di nebbia bussa alle mie finestre: gialli occhi rotondi appaiono per sparire così velocemente da dare la sensazione di un'illusione ottica. Il silenzio della stanza si anima di una risatina sommessa...