sabato 24 ottobre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Daviça e Maria si squadrarono per un lungo istante, mentre Blanko, buttata giù in fretta la sligoviça, si dirigeva verso l'uscita del locale, scontrandosi con alcuni uomini che stavano entrando sorreggendo una coperta afferrata per i lembi, sulle quale avevano adagiato un uomo.
Maria si precipitò a liberare un tavolo per sistemarvi sopra il ferito, mentre gridava alla figlia di correre a chiamare il barbiere.
" Ma come è successo?" stava chiedendo Blanko che si era avvicinato per aiutare.
L'uomo appena disteso sul tavolaccio emise un gemito e aprì gli occhi.
Maria, che si era chinata sul ferito, scoprendo che si trattava del Moro e vedendo che aveva ripreso conoscenza, gli sussurrò: "Oh, mio Dio, ma siete voi... Siete ferito? Cosa vi è successo?" mentre, slacciatasi il grembiule, tentava di tamponare il sangue che sgorgava dalle numerose ferite.
Incuriosita dalle grida e dal trambusto, uscì dalla porta che dava sul retro del locale anche la donna che aiutava Maria in cucina. Si avvicinò al tavolo e quando riuscì a vedere in faccia il ferito si portò le mani alla testa gridando frasi sconnesse. Poi, dopo aver scostato con prepotenza Maria prendendo il suo posto accanto al tavolaccio, invocando santi e madonne afferrò la mano dell'uomo, mentre si spalancava la porta d'ingresso e Benedetta, seguita dal barbiere, si precipitava nel loocale.
"Dategli un po' d'aria, anzi uscite, uscite tutti e aspettate fuori..." e, accompagnando le parole con un gesto significativo, Maria, dopo aver fatto sgombrare il locale, mandò la figlia a prendere dei panni puliti e l'acqua per lavare le ferite. Il barbiere stava palpeggiando il ferito, piuttosto infastidito dalle invocazioni d'aiuto dell'altra donna che, quasi gettata addosso all'uomo, sbraitava e piangeva, incapace di fare altro.
Il Moro respirava a fatica lamentandosi e borbottando qualcosa tra i denti, mentre il barbiere, dopo aver bruscamente fatto cenno alla donna di scostarsi, invitava Maria ad avvicinarsi per aiutarlo.
"Jovanka vai a mettere le lenzuola pulite sul mio letto, appena medicato avrà bisogno di riposo" ordinò Maria, usando un tono nel pronunciare queste parole che non ammetteva replica.
Quando la donna fu uscita si chinò sull'uomo sussurrandogli "State tranquillo! Ci vuole ben altro per mandarvi all'inferno..."
Il ferito sembrò calmarsi, mentre Benedetta appoggiava il catino su una seggiola e allungava un panno pulito al barbiere.
"Dovrò cucire la ferita alla testa: fategli bere della grappa e dategli un panno da mordere mentre gli sistemo la gamba".
"E' fratturata?" chiese Maria
"Sì"
Benedetta andò al bancone, prese una bottiglia e colmò un bicchiere, poi si avvicinò al tavolaccio e, mentre sua madre sollevava la testa del ferito, riuscì a fargli scivolare in gola il contenuto del bicchiere.
Il barbiere aveva intanto afferrato la gamba e con un gesto deciso, al quale fece seguito un urlo strozzato, l'aveva raddrizzata
"Per fortuna è svenuto" borbottò cominciando a ricucire la ferita alla testa.
" Ora steccheremo la gamba... Poi sarà quel che Dio vorrà. E' conciato piuttosto male e non è giovane, anche se è un pezzo d'uomo" concluse, scuotendo il capo.
Maria si afflosciò sulla seggiola mentre, prepotenti, le salivano alla memoria i ricordi.

Parole

Era una collezionista di parole: rare, inusuali, passate di moda. Qualcuna trovata sul vocabolario, altre rubate ai dialetti delle nonne per non farle morire con loro. A volte, quando faceva fatica ad addormentarsi, le ripeteva lentamente, ne riempiva la stanza per non lasciare spazio ai fantasmi della notte, per farne tane in cui nascondersi, trovare scampo - anche se soltanto per un istante - al fiato sul collo della vita. Era anche per questo che leggeva: per trovarne di nuove, anche se, a volte, ne inventava una. L'aveva sempre fatto e ricordava ancora quei segni blu che, negando le sue parole inventate, avevano tentato d'imbrigliare anche la sua fantasia, ma senza riuscirci. Lei diceva e scriveva ancora nerovestita e fanfarulla.
Nei giorni di festa, in cui le parole scoppiettano come pop corn, ne faceva ghirlande di cui adornarsi, coltelli quando si difendeva o attaccava, muri quando voleva tenere lontano il mondo. Per amare sceglieva quelle che scivolano in gola, in un gorgoglio dimenticato di liquori fatti in casa, macerando petali di rose selvatiche o lamponi. Un giorno cominciò a incatenarle una all'altra, per non farsele più sfuggire, per imprigionarle come principesse troppo amate e troppo belle, da sottrarre all'altrui desiderio. Fu così che cominciò a scrivere.

Amarcord

Fioriva l'ibisco nel giardino sotto casa, rosso stendardo che accendeva il mattino e tu, tu balbettavi...Anche le tue labbra, bugiarde, arrossivano. La gelosia mi accecava di furore, ma mi avevano educata a contenere l'ira, a filtrare le passioni. Forse avevano tentato di educarmi a non viverle. Per questo tacevo? Per questo fingevo di non capire, di non notare il disagio che le parole servili, al soldo di ogni bandiera che le faccia volare, tentavano di giustificare?
E quel sorriso che ti fioriva sulle labbra, come il fiore dell'ibisco che soltanto un giorno dura, più non mi apparteneva. Erano già suoi i tuoi sguardi che avevano riscaldato i miei inverni, e suoi sarebbero stati i tuoi passi, che da me ti allontanavano, mentre mi baciavi sula guancia, il caffè si freddava nella tazzina e il sole esplodeva conquistando un altro giorno.