giovedì 13 novembre 2014

La chiesa sappia tacere, capire... e rispettare.

Il dolore posso anche sopportarlo, ciò che non reggo è la sua inutilità. Si soffre molto per mettere al mondo un figlio, è un dolore che non si dimentica, come mai più si dimenticherà quel fagotto di carne arrossata, bagnata, le mani incredibilmente piccole, gli occhi che frugano ciechi in quel mondo sconosciuto, rumoroso, luminoso, al quale solamente un profumo noto, una voce conosciuta, il tepore di un abbraccio ci sottrarranno assicurandoci protezione... Quella (della nascita) non è solo un'epopea del dolore, è anche avventura al  limite del possibile che alimenterà storie, racconti, ricordi, ma il dolore che accompagna una malattia che non concede scampo, che umilia il carattere e squassa la carne, è esperienza di tutt'altro genere. Non c'è ricompensa, né medaglia al valore che ci possa o voglia premiare. All'ultima stazione arriviamo tutti, chi prima chi dopo; sappiamo di dover morire, ma essere strappati alla vita con la ferocia del dolore, no, non è destino di tutti. Qualcuno si ribella, sulle labbra gli fiorisce una parola: dignità. La morte è un insulto sempre, anche quando colpisce un anziano, dio ci salvi quando sbarra la strada a un giovane, a un bambino...
Si può scegliere la morte per salvare un altro essere umano, per conquistare in guerra una postazione. E' possibile offrirsi volontari per un'azione suicida. Perché non per salvare la propria dignità? Ed è proprio la dignità che quella giovane donna americana, affetta da un cancro all'ultimo stadio, ha voluto salvare. 
La chiesa sappia tacere, capire... e rispettare.

Ci sarebbe stata la vittoria del Piave, senza la sconfitta di Caporetto?

Sono stata male, molto male. Primo problema il dolore del corpo: ormai ci convivo, devo conviverci... I medici scuotono il capo e offrono quello che hanno, la terapia del dolore a base di oppiodi, cortisone e antidepressivi. Rimbambita, farmaco-dipendente e ancora in grado di avvertire il dolore... "El tacon pies del bus" si direbbe dalle mie parti.
E così il dolore, che io visualizzo simile a una notte d'inverno, gelida e nera, abbandonata anche dalle stelle, si tinge di rosso. Esplode la rabbia. Verso chi? Verso tutto ciò che mi capita a tiro: i medici, quel qualcosa d'indefinito che chiamiamo destino, il mio corpo fragile e malato. Affiora la paura: di uscire, cadere, svenire, peggiorare... morire. La razionalità va a farsi friggere, dei libri che mi circondano farei un falò. Dimentico di secoli di evoluzione il pensiero si rintana nel cervello rettile e vi affonda. Unica arma a mia disposizione? La clava che farei - se ne avessi la forza - roteare sul capo... dei sani. No, anche l'invidia! E' troppo, veramente troppo.
Perché questa esibizione di miserie?
Tra un crampo, uno spasmo e una fitta ho seguito la crisi profonda del gruppo (About Parkinson), ma utilizzando il cervello "evoluto" , issata su quella cattedra che tanto infastidiva i miei figli. Da lì si vede tutto, ma non si capisce nulla. Penso - ma è una mia opinione - che per "capire" si debba partire dai sentimenti considerati meno nobili, quelli che scatenano gli odiati sensi di colpa, dimenticando che non si può essere colpevoli di ciò che si "sente", ma solamente di ciò che si fa. Ripeto, è solo una mia opinione, ma per noi (Parkinsoniani), che siamo gente in guerra, devono valere altre regole.
Io credo nel valore potente dell'errore o degli errori.
Ci sarebbe stata la vittoria del Piave, senza la sconfitta di Caporetto?