giovedì 15 ottobre 2009

La lunga marcia è cominciata o già finita?

Esiste una "questione femminile"? Se la risposta è positiva, e io credo che lo sia, in quali termini si definisce? Sono abbastanza vecchia e il femminismo di rottura, almeno nel nostro Paese, sufficientemente giovane per averne avuto un'esperienza diretta, sulla pelle, e per aver raccolto confidenze e ricordi di madri e nonne.
La nonna paterna aveva in comune con quella materna ben poco a eccezione della scelta del silenzio su quelle che erano state le loro vite. Una affermava "A tagliarsi il naso il sangue cade in bocca", l'altra alzava una spalla e cambiava discorso, quando le domande diventavano troppo personali. Però per me, bambina avida di racconti e particolarmente curiosa, abituata a ficcarmi nelle cucine di casa per bermi quel backstage della vita familiare che aveva nel salotto buono la sua rappresentazione ufficiale, bastava poco per capire, anche da quattro parole, quello che il silenzio celava. Quindi, la prima regola che mi venne data, soprattutto con l'esempio, fu quella del silenzio. Una donna educata non parlava, chiacchierava. Le chiacchiere davano la stura soprattutto alle critiche nei confronti delle altre donne, quelle che, infrangendo le regole, venivano definite "chiacchierate". La seconda regola non scritta dunque isolava le donne più coraggiose, quelle che uscivano dagli schemi, negando loro qualsiasi forma di complicità al femminile. La mancanza di cultura (generalizzata, ma ben più pesante tra le donne) e di autonomia economica (la donna generalmente non lavorava fuori casa e non disponeva del suo patrimonio personale) completavano il quadro rendendo le donne un ibrido strano che non poteva decidere del proprio destino, di cui il padre prima e il marito dopo diventavano arbitri. La nonna paterna ebbe dodici figli e fece di quel suo ventre prolifico il suo motivo d'orgoglio e il suo riscatto, ma la dice lunga la sua predilezione per i maschi di famiglia, coccolati, seguiti e fatti studiare, sacrificando le femmine quasi a voler massacrare quella femmnilità che aveva ingabbiato la sua vita e che lei probabilmente aveva subito e non gestito. Il destino beffardo le avrebbe concesso dagli otto figli sopravvissuti solo cinque nipoti: tutte femmine. Cominciava, anche se con modalità ambigue, una sotterranea rivolta: le figlie di nonna Lucrezia non si sposarono o furono sterili. Avevano intuito il potenziale distruttivo di una maternità non scelta? Destino biologico della donna la maternità era destino sociale o tout court, destino. Destino e basta.
La nonna materna, quaranta chili in un metro e cinquanta di altezza, vedova giovane con due figlie fu una "chiacchierata": decise infatti di sposare, quarantenne, un uomo molto più giovane di lei. Famiglia e figlie, mia madre in testa, non glielo perdonarono mai, ma quel suo "el me piasi e me lo ciogo" (che mi venne raccontato da mia madre perché lei, già vedova anche del secondo marito non ruppe la consegna del silenzio e non parlò mai con me di quella sua scelta) costituì per me un fondamentale esempio di concisione e decisione al femminile.
Mia madre ebbe la sventura di crescere nel Ventennio fascista, di passare la giovinezza tra guerra e dopoguerra e di vivere un matrimonio infelice. All'interno di quella generazione massacrata, le donne pagarono un prezzo altissimo: fatte entrare a forza nel mondo del lavoro per sostituire gli uomini mandati a combattere, vennero rispedite a casa a fine guerra, al ritorno dei reduci. Ma quelle donne in fuga sotto i bombardamenti alleati, alla ricerca quotidiana di cibo, staffette partigiane in montagna, operaie in fabbrica, manovratrici sui tram, scoprirono che potevano, dato che dovevano, prendere decisioni. E quando tornarono i mariti, uomini devastati nel corpo ma uccisi soprattutto nell'anima, nella geografia sconvolta dalla guerra constatarono di aver perso non solo le case, ma anche la loro autorità maschile. Furono queste donne che iniziarono a cambiare le regole del gioco cominciando a parlare con le figlie, a raccontare e raccontarsi. E nel confronto sui ricordi della guerra s'infilarono considerazioni personali. Qualche partigiana era entrata in politica, qualche donna aveva continuato a lavorare. Nel muro del silenzio femminile si aprirono le prime crepe. (continua...)

I Dellapicca

" E Il Moro, nonna, come fu l'incontro con Il Moro?"
" Be', piuttosto freddo, un po' formale. Anche se il destino aveva incrociato le loro vite, Sigismondo non si fidava di lui e non gli perdonava né di averlo tradito con Maria né quell'autorevolezza che si sprigionava dal suo corpo maestoso, dallo sguardo che non si abbassava mai davanti a un interlocutore e dal coraggio che il portamento e i movimenti calmi e sicuri tradivano. Il Moro da parte sua lo riteneva non soltanto un vigliacco, ma anche il degno rappresentante di un mondo che, anche se in fase di avanzata decomposizione, per lui sarebbe stato comunque e sempre inaccessibile. Era rimasto strabiliato nel venire a conoscenza dell'identità dell'uomo di cui tutti parlavano, attribuendogli buona parte del merito nella sconfitta subita dai pirati e ancora non riuciva a capacitarsene. Covava inoltre come l'altro un'invidia di fondo che, pur rendendo difficili i loro rapporti, contribuiva però ad alimentarli, perché a unirli in un legame, tormentato ma saldo, c'era anche quella donna, non del tutto consapevole di quella provocante bellezza e dell'impatto che poteva avere sugli uomini che la circondavano. Anche la figlia stava crescendo dotata della stessa grazia della madre, i lineamenti infantili perfetti che ne facevano presagire il futuro splendore.
" Diventò bella come la madre, nonna?"
" Sì, questa antenata della quale rimase un ritratto, ci ha lasciato in eredità questi lineamenti, il portamento ma anche la iattura che spesso si accompagna a ciò che esula dall'ordinario. Una donna troppo bella spesso paga con una vita difficile questo dono che il destino alla nascita le concede".
" E Sigismondo si adattò a vivere e, soprattutto, che lavoro fece per..."
" Be' la padrona della locanda che non aveva figli, rimasta vedova, si affezionò molto a Maria e alla figlia. Col tempo la sua fiducia aumentò e alla sua morte Maria risultò essere l'unica erede".
" Ma Sigismondo... oste?" chiese stupita Mielita.
" L'oste era una figura importante nella gerarchia sociale del tempo e la Serenissima, che comandava ancora su quelle terre, la teneva in notevole considerazione. L'osteria, come la chiesa per le donne, era il luogo d'incontro degli uomini e di conseguenza l'oste era la persona idonea a fungere da intermediario tra il potere centrale a i luoghi periferici soggetti all'influenza di Venezia. Conosceva infatti tutto di tutti e davanti al suo bancone prima o poi non c'era uomo del paese che non passasse. L'unico creditore scampato alla furia del Moro non si fece più sentire, anche perché Sigismondo aveva di che vivere, ma con la distruzione del magazzino il suo patrimonio era andato perduto e non avrebbe avuto più nulla su cui rivalersi. Passarono così anni relativamente sereni per I Dellapicca sottratti al tourbillon provocato dalla Rivoluzione francese e dall'ingresso, sulla scena del mondo, di Napoleone Bonaparte. Ma questa, Mielita, è un'altra storia e non sarò io a raccontartela. (continua...)