giovedì 8 luglio 2010

Ultima danza

C'è in chi recita una storia
un abuso di memoria
un'innata tracotanza
verso
il tempo che divora

un'assenza
una mancanza che non è solo di panza

c'è talento,
non c'è gloria
se li mandi alla malora
ma una fantasia che vola

su tappeti di parole
puoi danzare o bestemmiare
mica solo svolazzare

un potere ti divora
ma
impalata all'uso turco
ti dissangua
la tua stessa assurda storia
pezzo a pezzo come un morbo maledetto
ti si succhia
e ti divora.

Fiore,
linfa di giaggiolo
su cui ronza un calabrone
guarderai l'estrema danza
che ti uncina al pungiglione
mentre l'ultima tua storia
la più bella
quella vera
non vedrà la primavera.

Sempre amarcord

Dopo tanti anni, quella sera ci eravamo date appuntamento: la scusa, un film da vedere nella sala dal maxi schermo in quella specie di luna park che era il centro commerciale da poco inaugurato appena fuori dalla città.  Lorena, Maria  Teresa e io.Nella luce del tramonto che la luminaria al neon illividiva, tra baci e abbracci,  quel pensiero molesto: quelle tre donne di mezza età, eravamo noi?  Quelle ragazze - quanto tempo era passato? - che  dietro un'aria spavalda avevano nascosto la loro  timidezza, ma anche i sogni e le speranze.?
Lorena, il viso largo e solido di figlia di contadini, le lentiggini di chi il sole se l'è bevuto tutto da bambino sull'aia insieme con le galline o nel fienile a correre dietro al gatto, mi ricordava quel mondo gramo, fatto  di stalle e fatica e il gelo e la pioggia di quei mattini nebbiosi, in inverni in cui nevicava un giorno su quattro e gli alberi sembravano spettri gelati  sfuggiti alla notte, inargentati dalla galaverna che, se non andavo errata, era così che in Emilia chiamavano la brina gelata.
Lo sguardo ora aveva incrociato quello di Maria Teresa che, magra e nervosa,  era vestita di lilla e di azzurro cielo, come allora... Ma  se lo poteva permettere con quel suo corpo da bambina che un entusiasmo inossidabile e appassionato per la vita e i suoi misteri tendeva ancora come un arco pronto a scoccare una freccia.
Quanto tempo era passato da quando con i libri sottobraccio ogni mattina ci ritrovavamo a scuola, il sorriso grande come la nostra disponibilità, spesso  nei corridoi a parlare o ad ascoltare qualcuno nei guai? E poteva sembrare non avessimo una vita nostra, quasi fossimo  parte dell'arredo come le lavagne e i banchi pasticciati, pieni di cuoricini e invettive, martoriati come trincee di guerra, perché resistere a sei ore quotidiane o giù di lì di indottrinamento culturale, di nozioni le più disparate, ritagliandosi uno spazio mentale ben protetto per non crollare di noia, doveva essere spossante per gli alunni come una guerra di logoramento.
I colleghi nell'intervallo ci offrivano il caffè, parlando di politica, perché noi "eravamo quelle di sinistra", le compagne; le gambe però te le guardavano se, per ricordarci di essere donne, anche donne, ogni tanto arrivavamo con le scarpe con il tacco e a me , appena entravo in classe, gli alunni chiedevano: "Come mai così bella oggi, prof?" e io arrossivo e tagliavo corto dando l'avvio a una lezione un po' speciale che spostasse l'attenzione su ciò che dicevo e non sui piccoli ma significativi segnali di cambiamento, perché, in effetti, un uomo l'avevo conosciuto, dopo anni di domeniche ai giardinetti con i figli e notti solitarie che il divorzio mi aveva regalato.  E loro, i ragazzi, se n'erano accorti che ero più distratta,  che a volte, mentre passeggiavo su e giù per la classe spiegando, sembravo estraniarmi - anche se per un istante soltanto - lo sguardo che si perdeva, sorpreso nel vedere il ciliegio giapponese  in fiore, un'esplosone di fiori. In una notte soltanto? Come me?
Lorena, Maria Teresa e io, il Trio Lescano ci chiamavano, parlottavamo in quei pochi minuti tra un'ora di lezione e l'altra...  tra noi di noi. Di cosa? Scuola, figli, uomini...  I discorsi delle donne, legati a quel nostro minuto, snervante e quotidiano pulire, ascoltare, servire. Ci scambiavamo libri sul femminismo, commenti buttati là in fretta perché a leggere non avevamo rinunciato. Io dormivo pochisssimo, ma loro non erano da meno e ci sfidavamo confrontando quegli orari da bergamino emiliano - le cinque, le sei del mattino - ed era Maria Teresa che vinceva, perché la sveglia lei la puntava anche sulle quattro, quattro e mezza.
Ora, mentre ci scambiavamo notizie sui figli, ormai grandi, uno dei miei lontano, io non riuscivo a nascondere la tristezza di non vederlo quasi mai. Affiorava la delusione...  Le aspettative dei genitori amano le grandi altezze e per i figli è quasi impossibile soddisfarle, anche e soprattutto perché le loro, aspettative intendo, sono diverse. E gli uomini? Anche se Lorena ed io eravamo divorziate, l'argomento aveva scatenato risate, forse sopra le righe,  troppo rumorose comme temporali estivi. Ma, per fortuna gli anni delle gelosie furibonde, delle liti e della passione si erano acquietati sotto l'incalzare delle rughe... La politica, il femminismo, i libri ancora ci accendevano lo sguardo di bagliori che, pur non divampando, non si spengnevano e bastava un soffio a rianimare il fuoco.
Nella sala buia, mentre scorrevano sullo schermo le immagini di un film della Campion, ci eravamo soffiate il naso nello stesso istante: tutte e tre ritrovandoci, come allora, sul filo di seta sottile ma tenace delle emozioni condivise.
La promessa è stata quella di rivederci, di non lasciar passare tanto, troppo tempo...
La notte ci ingoiava, poco dopo, avida, mentre alle nostre spalle le luminarie del centro commerciale sbiadivano e i ricordi risalivano alla memoria come bolle d'aria nell'acqua di uno stagno.
Siamo ancora il Trio Lescano -  ho pensato e la notte mi è sembrata meno scura.