mercoledì 30 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Sfinito, Sigismondo dormiva cercando nel sonno rifugio alla sua precaria condizione di fuggitivo privo di punti di riferimento. La giornata volgeva al termine e le prime ombre della notte già si allungavano sul mare incupendolo, quando la fame, che gli borbottava nello stomaco, gli fece aprire gli occhi. Mangiò un po' di brodaglia della ciurma prima di ripiombare in quel sonno animato da incubi e tremori che ormai gli erano diventati abituali.
Raggomitolato nel mantello avvertiva lo schiaffo,rassicurante nella sua ripetitività, dell'onda sullo scafo, ma senza aprire gli occhi, lasciandosi cullare in una sorta di dormiveglia, quando, all'improvviso, ebbe la sensazione che la calma di vento avesse fermato la corsa del veliero. Aprì un occhio, rendendosi conto con stupore che aveva dormito per molte ore: schiariva, infatti, il cielo, lasciando intravedere le grandi vele che pendevano flosce mentre lo scafo, che sembrava inchiodato all'acqua, vibrava come se un lungo brivido lo attraversasse. Si sollevò a fatica guardandosi intorno: i viaggiatori dormivano e un silenzio irreale gravava sul veliero che sembrava sospeso tra cielo e mare, avvolto dalle nebbie umide dell'alba. Sigismondo spalancò gli occhi aguzzando la sguardo. Fu in quel momento che inquadrò la goletta che, dotata evidentemente di rematori, puntava - le vele raccolte - silenziosa e decisa verso la nave, come un predatore su un cucciolo sperso.
Corsari o pirati?
Il tramestio improvviso alle sue spalle gli fece capire che non era stato l'unico a scorgere il veliero a bordo del quale già si distinguevano uomini armati.
"Tentativo di arrembaggio". L'urlo passava di bocca in bocca, scatenando il terrore che si disegnava sui volti ancora inottusiti dal sonno dei passeggeri. In pochi secondi, mentre si aprivano i boccaporti e uscivano i marinai, armati alla meno peggio, in un calpestio di passi, ordini che rimbalzavano dall'uno all'altro, pianti di donne, preghiere sussurrate e imprecazioni, la nave corsara si affiancava. Aggrappati alle corde, piombavano sulla tolda dell'imbarcazione, urlanti come diavoli scatenati, gli assalitori. Cozzarono le spade e tuonarono i fucili, volarono i coltelli brillando sotto i primi raggi del sole nascente, mentre alcuni marinai e il capitano, asserragliati a poppa, tentavano di difendersi e i viaggiatori cercavano rifugio scivolando tra i contendenti, scendendo all'interno della nave o acquattandosi dietro ripari improvvisati in preda al terrore.
Sigismondo, che non era armato, si trovò di fronte uno dei pirati che roteava una sorta di scimitarra. Riuscì con un balzo a evitare il primo fendente, ma il secondo stava per abbattersi su di lui, intrappolato in un angolo che non gli consentiva possibilità di scampo, quando un provvidenziale pugnale centrò l'uomo davanti a lui in pieno petto. Mentre un'espressione di sorpresa si disegnava sul suo volto, il corsaro si afflosciava, abbandonando l'arma che stringeva tra le mani, nel tentativo di afferrare il manico del coltello, conficcato nel suo petto. Sigismondo afferrata la scimitarra si lanciò, urlando tutta la sua rabbia, contro uno degli assalitori.
Il sangue gli salì agli occhi e la rabbia che aveva covato dentro, come un fuoco mai spento, gli esplose nello sguardo, gli urlò sulle labbra, diede forza e agilità alle sue gambe, mentre menando fendenti a destra e manca, vedeva cadere intorno a lui, sotto i suoi colpi furibondi, colorono che tentavano di opporglisi. Qualcuno, incoraggiato e spronato dal suo esempio, gli si affiancò. Dopo alcuni minuti erano già un gruppetto e guadagnavano terreno resistendo agli assalti. Sigismondo, alla testa del gruppo, il corpo inzuppato di sudore macchiato dal sangue dei feriti, un colpo di striscio dei quali gli aveva quasi staccato una manica che gli roteava intorno alla spalla, incrociava la sua lama con quella di chi aveva davanti.
Sull'inferno che si era abbattuto sulla nave, sulle facce dei morti, sulle urla dei moribondi, sul terrore, lo sgomento e il furore dei vivi, lento e inesorabile si alzava il sole.

lunedì 28 settembre 2009

Notti milanesi

Lo scricchiolio le arrivò all'orecchio nitido e breve. "Sarà la gatta" pensò, mentre ne coglieva la sagoma accovacciata sulla poltrona davanti a lei. I suoi sensi, allertati, le fecero percepire il secondo scricchiolio, mentre, il collo che le si irrigidiva fino a farle male, restava in attesa di quel rumore che, nella sua ripetitività ormai prevedibile, faceva pensare a un passo: cauto, breve e attento come può essere il passo di chi si muova al buio in una stanza sconosciuta. Un brivido la percorse da capo a piedi, mentre quel suono si ripeteva e il suo sguardo, fisso sulla maniglia della porta della stanza da letto, ne coglieva il movimento, lieve ma continuo. Chiuse gli occhi. Inspirò. La paura, invadendola come un'inarrestabile marea, le rendeva parossistico il battito cardiaco e le asciugava la gola. Pensò che avrebbe dovuto gridare, ma riuscì soltanto ad aprire la bocca, annaspando alla ricerca dell'aria. Socchiuse gli occhi: la porta spalancata inquadrava una figura maschile, massiccia e immobile. Ne registrò i particolari: il maglione nero a girocollo, i jeans dello stesso colore, i capelli biondi, corti e un po' spettinati che ricadevano sugli occhi. Occhi chiari che la fissavano. L'uomo entrò, sicuro, dirigendosi verso il letto, mentre lei sollevava il braccio, la pistola stretta nella mano. Il rumore dello sparo rimbombò nella stanza e una smorfia di stupore si disegnò sul volto dell'uomo che sembrò immobilizzarsi prima di accasciarsi a terra, muovendo le braccia scompostamente, mentre un fiotto di sangue gli gorgogliava in gola , affiorando sulle sue labbra e scendendo lungo il mento.
Lei si alzò e facendo attenzione a non sfiorare il corpo, si precipitò, superando la porta d'ingresso, lungo il corridoio, volò fino al soggiorno, compose, le dita tremanti che non le obbedivano, il numero delle emergenze. Poi crollò su se stessa, accartocciandosi.
La pendola emise un rumore squillante: secondo, terzo, quarto rintocco. Erano le quattro del mattino e dalla finestra del soggiorno, oltre le grate esterne, la notte entrava allungando ombre che i suoi occhi, ormai abituati all'oscurità, setacciavano alla ricerca degli oggetti che le erano familiari.
"Pronto, pronto... " e la sua voce ritrovata le sembrò estranea, sconosciuta.
Qualcuno le stava chiedendo chi fosse, da dove telefonasse.
Mormorò nome e cognome, via e numero civico. Poi, lentamente, abbassò la cornetta. Rimase lì, ad ascoltare il battito del cuore e i suoni della notte, come un animale notturno in caccia, i sensi che percepivano ogni fruscio, gli occhi che foravano le tenebre come fari nella notte.

Il maresciallo dei carabinieri aveva l'aria stanca di chi lavora di notte e vive a contatto con quei relitti umani che la animano popolandola. Nonstante i morti ammazzati, i drogati fuori di testa, gli ubriachi e i violenti, conservava un'umanità sofferta, una pietà che ancora gli ammorbidiva lo sguardo scuro, brillante di meridionale. A lui, cresciuto in una terra gialla di sole e di aranceti era toccato in sorte di vivere sperso tra le nebbie freddde di quella città feroce, in quelle notti che l'urlo delle sirene delle autoambulanze e delle gazzelle della polizia, straziava. La donna accanto a lui, tremante nella camicia da notte trasparente, scuoteva il capo, ripetendo monotona la sua nenia:"Era qui, gli ho sparato" e guardando alternativamente il maresciallo e il pavimento, coperto da un tappeto persiano, ripeteva quella frase.
"Conosceva l'uomo che..." chiese l'uomo in divisa.
"Era mio marito" rispose la donna.
Il chiarore dell'alba invadeva la stanza, arredata con gusto. Ordinata. Il tappeto: intatto.
Il maresciallo scosse il capo e si passò la mano sugli occhi. "In quelle notti milanesi i fantasmi si materializzavano e gli incubi tradivano i desideri che il sonno faceva riemergere dal buio dell'inconscio. La signora Verdame, vedova Rossi già da cinque anni, aveva sparato a un fantasma. Quella notte, passata a pattugliare la città era andata meglio del solito: morti ammazzati uno. Professione: fantasma".
"Il turno è finito. Andiamo a farci un caffé!"
La prima luce dell'alba schiariva il cielo a Oriente giocando a rimpiattino con i contorni delle case e l'arguzia che gli brillava, sorniona, nello sguardo.

domenica 27 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Sigismondo era riuscito a imbarcarsi appena in tempo e e ora il veliero puntava verso il mare aperto, sfuggendo ai controlli che gli avrebbero imposto una quarantena dovuta all'epidemia che stava falcidiando il ghetto. C'erano troppi problemi da affrontare in città perché qualcuno perdesse tempo a seguire il veliero che prendeva velocità, le vele che si gonfiavano di vento e gli ordini che s'intrecciavano sul ponte mescolandosi allo stridio roco dei gabbiani. Il capitano lo aveva accolto a bordo soltanto per la cupidigia di quell'anello con lo stemma dei Dellapicca che ora ornava la sua mano. Sigismondo si voltò indietro: nuovamente fuggiva, lasciandosi alle spalle non soltanto una città, ma un modo di vivere. Trieste, nel corso degli anni, era diventata, quasi senza che se ne accorgesse, la sua seconda patria e ora lo sguardo gli scivolava sulle rocce bianche che il mare aggrediva, sulle case che punteggiavano le prime balze confondendosi con il verde dei boschi che, infittendosi, salivano verso il cielo ammorbidendo in linee sinuose le alture che facevano corona alla città. Conosceva tutte le strade, le piazze, le bettole dove aveva passato intere nottate al tavolo da gioco. Conosceva quel vicolo sul quale si affacciava la sua casa e quel letto che le tende di pizzo custodivano come una bomboniera preziosa.
Il desiderio della moglie, evocato dai ricordi, gli percorse il corpo accelerandogli il battito del cuore. E quel maledetto Moro! Aveva fatto i conti senza l'oste... Però Maria e Benedetta era a lui che dovevano... Be', se non ci fosse stato il Moro che fine avrebbero fatto! E ora dov'erano? Come avrebbe fatto a rintracciarle e a sopravvivere senza possedere più nulla? Un senso di oppressione gli gravò sul petto, mentre si osservava la mani nude e ancora bianche e morbide: mani che non avevano mai lavorato, mani avide che sapevano soltanto prendere. Alzò nuovamente gli occhi: davanti a lui la città si allontanava appiattendosi in una linea ondulata che si distingueva sempre meno dall'azzurro cupo del mare che stava per fagocitarla. Sigismondo socchiuse gli occhi e crollò a sedere sulla panca, indifferente all'animazione operosa che lo circondava. Accanto a lui un uomo lo apostrofò, ma le sue parole
gli arrivarono all'orecchio confuse, indistinte. Non aveva la minima voglia di parlare. Per dire che cosa? Raccontare le sue disgrazie? Farsi compatire? Finse di non aver sentito e si avvolse nel mantello mentre il veliero baldanzosamente affrontava il mare aperto e Sigismondo affondava, cupo e spaventato, in un sonno agitato che incubi e fantasmi avrebbero rpetutamente interrotto.

sabato 26 settembre 2009

Finché morte non vi separi

Capisco Santo Padre che con un nome come il suo si possa pensare a un universo di uomini/padri votati alla santità, ma la realtà risulta leggermente diversa. Lei, pur nella sua profonda esperienza di vita, non ha mai convissuto con una donna e con dei figli in spazi che mediamente sono piuttosto limitati e in situazioni di intolleranza o odio reciproci. Non credo abbia mai pranzato seduto a tavola in una cucina affogata nel silenzio, un silenzio innaturale capace di triplicare il rumore del cibo che non riesce a scendere nella strozza, il tintinnio argentino delle posate, il respiro che sembra spezzarsi nella spasmodica attesa dell'urlo, del piatto che volerà nel muro, infrangendosi così come s'infrange la speranza di una vita normale. Nessuna donna, Santo Padre, prende i figli e se ne va canticchiando "Oh, oh, ah, ah, quanto piacer mi fa se l'ultimo mio amore fa i capricci e se ne va...". Nessuna, Santo Padre.
Il divorzio è un'esperienza durissima, oserei dire devastante, con un impatto traumatico di poco inferiore a quello che si registra in caso di morte del coniuge.
Il divorzio, che lei duramente contesta, ha liberato soprattutto la donna dall'inferno di un vincolo che soltanto la morte avrebbe potuto spezzare. Sono le donne che finalmente possono andarsene perché, molto più spesso di quanto non si creda, tra le pareti domestiche si snodano drammi, si vivono violenze ritmate dalla paura, prepotenze delle quali non si riuscirà a parlare per anni.
Al divorzio non ricorrono le coppie - come chiamarle? - normali, bensì quelle in cui non si riesce più a sopportarsi. E un'alternativa al rischio di finire ammazzate: di botte, di rabbia non manifestata destinata a sfociare in depressione, di disperazione. Crede davvero che un famiglia tenuta unita dal collante del "dovere" e non del piacere di stare insieme, una madre e/o un padre spenti, avviliti, rassegnati al grigiore di situazioni subite e non scelte, possano offrire un esempio stimolante e valido per i figli? Immagina la fatica, davanti una madre acida, astiosa, umiliata e/o sottomessa, di prendere le distanze elaborando da figlia una femminilità armoniosa e positiva? E che idea del maschile potrà farsi chi in famiglia cogliesse una situazione eguale ma rovesciata? Quante donne e uomini sono cresciuti all'ombra delle bugie in un clima di falsa serenità, scombinati da ricatti affettivi, esasperati da litigi e recriminazioni, appesantiti dal fardello di essere stati il movente di vite rinunciatarie che prima o poi saranno loro imputate?
Le famiglie, Santo Padre, sono quelle del Mulino Bianco e sono "happy" soltanto negli spot televisivi. Nella realtà sono spesso nidi di vipere e luoghi di grande sofferenza alla quale la legge ha cercato di ovviare regolamentando il distacco a tutela del coniuge più debole, che normalmente è la donna, la quale, spesso, paga con la vita la sua scelta di libertà.
La mia splendida nipotina, di fronte alla costernazione espressa da una compagna di scuola che aveva saputo della separazione dei suoi genitori, ha risposto: "Non sono morti, si sono soltanto separati!". Prima di esprimere giudizi preconcetti, ascoltiamo i bambini, Santo Padre, con attenzione e umiltà perché, come spesso possiamo verificare, sono saggi, molto più saggi e diretti di noi adulti.

giovedì 24 settembre 2009

Libertà d'informazione

Annozero ricomincia e affila i denti. L'argomento è la libertà d'informazione, la madre di tutte le libertà. Si susseguono gli interventi: mi rimane dentro la tracotanza del Premier che una gestualità incontrollabile evidenzia prima e più delle parole: i sorrisi falsi che si spengono in ghigni, le battute volgari, le minacce nemmeno più larvate, gli sguardi che rivelano un'anima venduta al dio Denaro e da questo ridotta a landa gelata. L'uomo, che della libertà ha fatto la sua bandiera e che bulimicamente se ne appropria, sembra deciso a lasciarne ben poca agli altri, stampa in primis che, non soltanto non rispetta, ma tenta di condizionare, zittire e umiliare. Si profila sul Paese l'ombra nera di una politica autoritaria che attenta a una democrazia, vanto di uomini che avevano provato sulla loro pelle il morso feroce della dittatura, che il popolo di santi, navigatori e poeti forse ha ingoiato in fretta, senza digerirla. E' arrivato il momento di aguzzare lo sgurdo per valutare il pericolo. Negli occhi da biscia di Feltri affiora solo la rabbia, le guance cascanti tremano quando diventa oggetto di critica e la testa in bronzo di Mussolini, sul suo scrittoio, rende superfluo ogni ulteriore commento. I servi leccano la mano al padrone... e offendono, dando il meglio di sé quando l'interlocutore è una donna, dimostrando - come il padrone - di considerare l'altro sesso degno di nota solo sotto le lenzuola. Bocchino e Belpietro ringhiano contro l'unica gornalista presente e a me, donna che ascolta e guarda, cadono le braccia di fronte a politici che, oltre a essere incapaci e fautori di una politica predatoria nei confronti del Paese, mi ricacciano indietro ai bei tempi mussoliniani in cui le donne servivano soltanto a sfornare braccia per l'agricoltura e carne da cannone. E mi chiedo come sia possibile non capire in che mani siamo caduti, non valutare l'affanno di coloro che informano, non assicurare ai giornalisti tutto l'aiuto, la solidarietà di cui non possono fare a meno in questo momento. Perché non è facile essere "contro" e chi non ossequia il potere rischia, in questo Paese: rischia e non poco! Ci sono però ancora molti giornalisti che vogliono e sanno fare il proprio lavoro, informando sulla reale portata della crisi che stiamo vivendo, sui pericoli che corre la democrazia, sulla mentalità mafiosa che dilaga come un'epidemia inarrestabile.
In questa politica di corto respiro, fatta da uomini a sua misura, non basta mettere un rinforzo nelle scarpe. Ci vuole ben altro. Ci vuole ciò che ha portato un uomo di colore alla Casa Bianca e che lo fa dire e fare ciò che dice e fa.
Ci vuole coraggio ma non si diventa santi, poeti e navigatori se non si osa...
"We can, ragazzi, we can!"

martedì 22 settembre 2009

Viviamo tempi piccoli

Viviamo tempi piccoli, quasi striminziti, come scampoli di stoffa venduti sulle bancarelle del mercato, anzi svenduti perché insufficienti per farci qualcosa, a meno che la nostra taglia non sia minima. Corti i pensieri, che si arenano appena vengano soddisfatti l'ambizione o il tornaconto personali, obiettivi ai quali si omologano i comportamenti individuali in una stantia ripetitività che sembrerebbe aver definitivamente bandito la fantasia.
Tutti eguali, basti pensare alle aspiranti al titolo di miss Italia, fatte, quasi fossero uscite da una catena di montaggio, in serie con la complicità anche della chirurgia plastica che gonfia seni extra large e assottiglia nasini alla francese. Fuori dagli stereotipi il vuoto. La diversità: bandita! Perché? Perché tanta paura di tutto ciò che esce dagli schemi? Dal Giappone arriva la notizia della crescita esponenziale delle agenzia che forniscono, dietro compenso, uomini e donne su misura, per tutte le stagioni, per ripristinare cliché infranti che collocano al di fuori dei modelli che sembrerebbero dare sicurezza. Si affitta un uomo per una sera per farsi accompagnare a una festa? Ma le giovani donne giapponesi non se lo sanno trovare da sole un uomo? Oltre ai cibi preconfezionati, ora anche i rapporti assumeranno questa caratteristica? E avranno lo stesso sapore di cartone dei surgelati "That's amore findus" che, tanto per dare il via all'inscatolamento anche dei sentimenti, ne evocano nel nome il più potente? Queste agenzie forniscono anche padri per un colloquio con i professori, quando il padre naturale sia assente e dimentico del proprio rampollo. E dato che nulla può dare al ragazzino in affetto e calore, essendo reclutato dalla madre dietro compenso, anche salato, orario, a cosa diavolo serve? A far ritenere agli altri che la famiglia sia unita? Tutto regolare, tutto a posto e niente in ordine? Una illusione, ennesima, di normalità o presunta tale, da acquistare a pagamento?
Così facendo, se non si istituzionalizza la finzione, la si commercializza. E' insito nell'uomo il bisogno di mascheramento, il Carnevale veneziano, che durava per buona parte dell'anno, aveva obbligato il Senato della Serenissima, nel Settecento, a intervenire per regolamentarlo minutamente. Ma allora, i secoli passano su di noi dando forme diverse a realtà individuali e interiori sempre eguali? Le generalizzazioni non hanno senso, se non quello - non direi irrilevante - di rassicurare potentemente l'individuo. Questo bisogno di uniformità, questo sconfortante conformismo che vedo dilagare intorno a me, è forse frutto della paura? E' una gioventù spaventata quella che mi circonda? Tanto spaventata da arroccarsi nella sua cittadella e alzare il ponte levatoio? E una gioventù che canta solo nel coro, che non tollera i solisti? Cresciuta a Trieste tra odi non sopiti, rancori e recriminazioni, a ridosso di un confine che penetrava profondo, incidendo non solo la terra, i paesi e i cimiteri ma anche le coscienze, giù, giù in fondo fino all'anima, non credo ai limiti, agli steccati, agli orticelli recintati con sbarre che danno soltanto un'illusione di protezione. Credo che al di là della propria cultura - come afferma Lev Tolstoj - non ci sia il vuoto, ma un'altra cultura, credo alla diversità come ricchezza di un popolo... credo che ci sia posto per tutti se riusciamo a guardare ciò che il mondo ci offre con occhi privi di paura.

lunedì 21 settembre 2009

Woodie Allen regista del disincanto

"Basta che funzioni", ci sussurra un Woodie Allen che vede avvicinarsi a tutta velocità il capolinea che, nella sua odiata/amata New York, porrà fine ai suoi giorni che, come i nostri, si consumano in quel rogo breve e intenso che è la vita. Il pudore per un mondo che i suoi occhi d'artista e uomo geniale colgono in tutta la sua devastante e immodificabile ripetitività di nascita, riproduzione e morte, dà la stura a una comicità che alimenta un fuoco d'artificio di battute fulminanti su cui si regge, come un'abile equilibrista sul filo, la diafana trama del film. Un geniale professore, sommerso dalla paura del vivere al punto di tentare il suicidio, entra in rotta di collisione con una ragazzina fuggita di casa, spersa in una New York tentacolare e affascinante che, come sempre, il regista sapientemente descrive. Approderanno alla sua porta, resti di quel naufragio con il quale ogni vita fa i conti, anche il padre e la madre della ragazza che lui sposerà, dopo averla raccattata come un cucciolo smarrito e trovato per caso. Sconvolti e provati entrambi dalla rottura degli schemi che, ingabbiandoli, li hanno per anni protetti da se stessi e dal rischio dei cambiamenti, gettate alle ortiche le sicurezze, avranno modo di scoprire, nel coraggio della trasgressione, quel po' di felicità che, come fuoco acceso in un bivacco, dà calore e conforto. Godetevi quel calore, scaldandovi a ogni fuoco suggerisce il regista del disincanto, quale a me sembra sia questo maturo Woodie Allen, che sa, senza più illusioni, che anche il fuoco più vivo all'alba è cenere, solo cenere grigia sotto un cielo spento.

domenica 20 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Nello studio il silenzio era rotto soltanto dal crepitio sommesso del fuoco. Il rabbino che vedeva dilagare l'epidemia, anche se aggredito dal dolore dei sopravvissuti, doveva trovare per ognuno di loro una parola di conforto. E per se stesso quale appiglio? Gli sfilavano davanti agli occhi i volti dei morti e dei moribondi: bambini, tra cui la piccolo Angela, adulti giovani e forti come Amos, vecchi pieni di saggezza... Perché? Il suo Dio, al quale si rivolgeva, gli sfuggiva, sfocava o tuonava minaccioso in quelle notti passate a guardare il fuoco, mentre il dolore della sua gente lo passava da parte a parte, dilaniandolo. Anche Sigismondo era provato: in quelle giornate - in cui il tempo, quel suo tempo di forzato del nulla, aveva assunto una valenza diversa, dilatandosi a dismisura e consegnandolo allo strazio dei ricordi e all'incertezza dei dubbi - la sua vigliaccheria, la debolezza, la stupidità che l'avevano perduto gli erano state compagne angosciose che, non paghe di torturarlo di giorno, si erano insinuate anche nei suoi sogni trasformandoli in incubi mostruosi che gli avevano riportato alla memoria i segreti che ogni uomo ha e che nasconde nelle pieghe dell'anima per non esserne sopraffatto.
I due uomini si guardarono negli occhi, scoprendo la complicità che nasce dal riconoscersi uno nella disperazione dell'altro, e sulle labbra di Sigismondo prese voce quella domanda appena sussurrata: "La sorella di mia figlia è morta, vero?" Il rabbino annuì. "E' tutta colpa mia, il Signore mi punirà per ciò che ho fatto" disse il Veneziano mentre il vecchio davanti a lui, scuotendo la testa, gli rispondeva: "Ha altro da fare in questi giorni e... con persone come voi sarebbe un'inutile perdita tempo: siete in grado di rovinarvi la vita da solo con le vostre stesse mani". Ma non sfoderava l'abituale ironia e, rivolgendogli un'altra occhiata, concluse:" Siete fortunato e Dio sa quanto poco ve lo meritiate: Il Moro, vostra moglie e vostra figlia si sono salvati dall'incendio e sono fuggiti imbarcandosi sulla "Principessa del mare" che fa rotta per l'Istria. Ora dopo essere ritornata a Trieste, sta per salpare... " Il Veneziano, mentre un'espressione di sollievo gli dilagava sul volto stanco e pallido, guardò mervigliato il rabbi che cogliendo il significato di quell'occhiata, con un gesto della mano che indicava tutta la sua stanchezza, gli rispose:
"Queste famiglie distrutte mi straziano: sono stanco di dolore e morte. Andatevene, raggiungeteli e siate riconoscenti al Signore che in questo momento si è servito di me per darvi un'altra opportunità". Poi si alzò e lo accompagnò alla porta.
Sigismondo uscì in fretta, percorse i vicoli muti e scuri, a lunghi passi uscì dal ghetto, l'aria che gli entrava nei polmoni, il mantello che gli svolazzava nella corsa. Le strade lo ingoiavano, il cuore gli batteva forte: l'aria sapeva ora di mare, spuntavano gli alberi delle navi e si levava il vento. L'aquila imperiale apriva le ali sul pennone più alto della "Principessa del mare".

Brunetta e il cambiamento

Gentile ministro Brunetta, ma cosa mai le è successo? Le rammento che i suoi lombi poggiano su uno scranno ministeriale del quale ha abusato dando vita a uno spettacolo, pardon, avanspettacolo, certamente indegno di un Ministro della Repubblica.
Dall'alto della sua dignità di uomo politico, lei si è abbassato - c'è un limite alla bassezza - al livello del marciapiede, di cui ha usato il linguaggio. Incapace di controllo ha inveito contro i suoi avversari politici e, in stato evidentemente confusionale, ha parlato di complotti tramati a danno del governo da una sinistra per o del male, allarmandomi notevolmente. Non dimentico infatti che il presidente Bush, parlando di un impero del male, usò la stessa terminologia prima di mandare i ragazzi americani, nonché i nostri, a uccidere e farsi uccidere in Afganistan e Iraq. Per fortuna, subito dopo, quella stessa sinistra, diventata miracolosamente "élite" l'ha definita "di merda" - mia nonna , buonanima, avrebbe detto un'onta e una sponta - riportandola ai frizzi e lazzi sguaiati, ma un po' meno pericolosi, dello spettacolo.
Inoltre, se non vado errata, Lei è Ministro dell'Innovazione? Adempia allora al suo mandato ministeriale: nel confronto politico introduca qualcosa che risulti assolutamente nuovo per lei e il suo governo. Che ne direbbe dell'educazione?

venerdì 18 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Sigismondo si fermò, in bilico sul tetto, affascinato dalla vista che gli si spalancava davanti.
Dopo giorni passati come un topo in trappola a misurare a larghi e concitati passi la sua prigione, respirava a pieni polmoni quell'aria frizzante che gli regalava il profumo brusco del mare. Nel ghetto stava succedendo qualcosa: dall'alto, lasciando scorrere lo sguardo sull'intrico dei vicoli che, angusti e bui, disegnavano la sbilenca geometria del luogo, poteva cogliere maleodoranti fumi d'incendio e il rumore delle ruote di un carretto che arrivava stridente al suo orecchio. Non si udivano rumori di passi, né suoni di voci. Le finestre delle case erano sprangate e un silenzio attonito e inspiegabile gravava sul ghetto, rotto soltanto da quel cigolio che si stava facendo più forte mentre entrava nella sua visuale quell'uomo, coperto da un mantello. Dietro al carro un'altra figura d'uomo: nera, spettrale. Cosa trasportavano? Intavide, aguzzando lo sguardo, un intrico di braccia e gambe che ciondolavano quasi sfiorando i ciottoli della strada, sobbalzando abbandonati su quelle poche assi che ne reggevano il peso a stento. Sigismondo sentì un brivido di paura rizzargli la pelle mentre la porta di una delle case che davano sulla strada si apriva e nel vano si stagliava una figura femminile. Tra le braccia un fagotto. Il carro si fermava, mentre la donna a piccoli passi rigidi si avvicinava ai due uomini. Ora era lì, immobile, il velo che le scendeva dalla testa a incorniciare il volto. Uno dei due uomini le strappò il fagotto dalle braccia, gettandolo sul carro che faticosamente si rimise in moto, mentre la donna cadeva in ginocchio, i pugni alzati, contratti dall'ira, verso il cielo e quel mugolio che poco aveva di umano che si spezzava in un urlo che l'eco amplificava. Dalla porta della casa del rabbi uscì Genoveffa.
"Yael, vieni, vieni... è la volontà di Dio!"le mormorò , cercando di farla rialzare.
Sigismondo, che era riuscito faticosamente a raggiungere la strada, approffittando della confusione s'infilò nella casa e, percorso il corridoio, piombò nello studio del rabbi. L'uomo seduto dietro alla scrivania sollevò su di lui gli occhi, in cui il dolore e la stanchezza dilagavano come una marea inarrestabile, conferendo allo sguardo quel luccicchio malato, febbricitante. Appariva provato, diverso dall'uomo pacato e fermo, sottilmente astuto, che il Veneziano ricordava.
"L'epidemia stringe il ghetto in una morsa... si porta via i bambini e i vecchi lasciandoci senza futuro e senza passato, inchiodati - come un cristo sulla croce - a un presente incerto e doloroso. Oh Dio mio perchè infliggerci questa punizione? Manco la pazienza di Giobbe sarebbe sufficiente... " e s'interruppe, mentre Sigismondo chiedeva, roco nella voce che gli usciva strozzata dalla gola:" Che fine hanno fatto mie figlie, mia moglie e il Moro?"
Il rabbi lo guardò interrogativo, l'ironia che si accendeva a vivacizzargli lo sguardo:"Mie figlie? Mi risulta ne abbiate una soltanto".
Il Venziano crollò sulla seggiola: "Fingete di non capire: ho visto la donna che era venuta da voi la sera in cui bussai alla vostra porta con... con..." e la voce gli si spezzò, mentre il vecchio lo osservava. Il lume, che andava esaurendo l'olio, disegnava ombre che incupivano i volti corrucciati e stanchi dei due uomini che, come due animali pronti ad attaccarsi, si misuravano nel chiarore fumigante della lampada.

Tutto è diverso, ma nulla è cambiato

C'era una volta un mondo piccolo dove si nasceva e moriva nello stesso posto, parlando lo stesso dialetto e vedendo dalle finestre di casa lo stesso panorama. Lasciando tra le dita solo la polvere impalpabile del tempo, fluivano nascite, comunioni, matrimoni e morti. Chi nasceva in terre bagnate dal mare nulla sapeva delle montagne che soltanto i racconti dei foresti, arrivati da lontano a narrare di terre inarcate come dorsi di puledri imbizzarriti, confusamente disegnavano davanti ai loro occhi. I confini del proprio mondo ingabbiavano rassicurando. Ma la fantasia, che non accetta confini, spaziava e l'uomo sognava: di varcare gli oceani e di volare. E i sogni si concretizzavano in scoperte che cominciavano ad allargare i confini del mondo permettendo al bipede implume di percorrerlo su cavalli d'acciaio sempre più perfezionati e veloci.
Nasceva e si sviluppava la tecnologia.
Milioni d'informazioni e migliaia di parole, in tutte le lingue e dialetti del mondo, scorrevano sulle autostrade del nulla, veloci come la luce, passando di bocca in bocca. Un sapere sempre più ampio e condiviso: tutto e di tutti. Infranti i confini ognuno poteva ormai cavalcare a briglia sciolta. Era un cantastorie? Avrebbe narrato per il mondo. Ma qualcosa cambiava, la voce dei cantastorie veniva ingabbiata, messa sotto chiave, catalogata. Spenta. Rispuntavano i confini, a tradimento. Il bipede implume, corazzato d'acciaio e titanio, non era cambiato dentro: coltivando lo stesso misero orticello, allungava sull'orto del vicino gli stessi invidiosi sguardi. E, anche se non si gareggiava più per la zucca più grande e si usavano marchingegni più raffinati per inquinare la gara e falsare i risultati, nelle sue mille squallide facce saliva sul podio ai posti più alti, osannato dal popolino che nemmeno si accorgeva di essere turlupinato, il potere. Sempre lui, a far capire al mondo che tutto è diverso, ma nulla è cambiato.

mercoledì 16 settembre 2009

Obbedisci o ti ammazzo

"Obbedisci o ti ammazzo" non è più soltanto un modo di dire. E' diventato un modo di fare. E ogni giorno una donna muore perché, nonostante le minacce, le percosse, nonostante la paura, sceglie. Decide. E' questo che non viene tollerato? Aggirare, pietire, pregare, circuire, chiedere a bassa voce sì. Decidere no, perché presuppone libertà e parità, non quelle riconosciute dalla legge, quelle che, entrate a far parte della cultura di un popolo, hanno attecchito ormai nel profondo.
In questo quotidiano massacro quello che può falsare il giudizio è la coesistenza apparente di amore e odio in chi uccide. Apparente, perché non c'è sentimento che possa giustificare il possesso di un essere umano, chi uccide lo fa perché vive la donna - che è ben lungi dall'amare sia tanto che troppo - come sua proprietà. Non è un raptus, non è che per qualche secondo il suo cervello vada in tilt, è da sempre che non conosce un rapporto basato sul rispetto, è da sempre un violento, un prepotente. La depressione, male dell'anima che colpisce molto più le donne degli uomini, sorella degenere della rabbia introiettata, induce soltanto i maschi a tirare fuori da sé l'aggressività, perché le donne l'eventuale arma la rivolgono soprattutto verso se stesse. E ancora, a nulla valgono le denunce che le donne fanno delle minacce, delle intimidazioni, dei pedinamenti e delle botte. Ancora troppo esile è la difesa normativa in questo campo e, se un uomo decide di farla pagare alla donna che non lo ama più, è probabile che riesca a farlo. Il nostro ordinamento giuridico contempla il divorzio, ma una divorziata come viene "vista" nel contesto sociale? E' una donna come le altre? Come una vedova? Eh no!, nonostante il divorzio sia ai primi posti nell'elenco degli eventi traumatizzanti della vita, la vedova è considerata con rispetto, la divorziata con sospetto, specialmente se è lei che ha scelto di lasciare il marito.
Dov'è la complicità femminile? Quanto è ancora ardua, tutta in salita la strada da compiere? Quante donne sono ancora ben lontane dall'aver acquisito la coscienza dei propri diritti e del proprio valore? Leggere ciò che le donne scrivono ai giornali, scoprire in internet la punta dell'iceberg della sofferenza femminile è sconvolgente, ma indicativo di una realtà che è difficilissimo modificare soprattutto, ripeto, scendendo a scandagliare il rapporto che i due sessi, ripeto i due sessi, hanno con un immaginario femminile che sembrerebbe rassicurante non modificare.
Bisognerebbe almeno incominciare a fare chiarezza nella comunicazione di certe notizie. Bandire, per sempre, l'amore dalla gamma dei sentimenti che spingono a uccidere e che sono tutti negativi. Poi tanto, tanto ancora sarebbe da fare.
Queste donne non vogliono fiori, né lacrime, né lagne; vogliono ciò che in vita non hanno avuto e per cui sono morte: rispetto. Cerchiamo di non dimenticare che a questo rispetto, almeno ora, hanno diritto.

lunedì 14 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Genoveffa, dopo aver accompagnato Yael dal Rabbi, ritornò da Sigismondo che l'attendeva nel corridoio e, sbuffando, lo invitò a seguirla. Passarono attraverso la cucina, dove la donna prese un po' di pane, delle olive e una caraffa d'acqua, prima di uscire facendogli attraversare in fretta il vicolo, per entrare, attraverso il portoncino che si apriva cigolando, nella casa di fronte a quella del Rabbi. Ancora qualche minuto e Sigismondo poteva finalmente sdraiarsi sul pagliericcio e cadere in un sonno agitato da incubi che lo svegliarono parecchie volte nel corso della nottata.
Passarono così diversi giorni. Il rabbino, che sapeva sempre tutto di tutti, non tardò a scoprire che Maria, la figlia Benedetta e Il Moro si erano imbarcati salendo su una nave che collegava Trieste alle coste istriane, dominio ancora incontrastato della Serenissima. Sigismondo, dal suo nascondiglio, chiedeva notizie a Genoveffa che una volta al giorno gli portava da mangiare. Spiritato, sporco, chiuso in quei pochi metri quadrati che percorreva in lungo e in largo borbottando frasi sconnesse, oppure gettato sul pagliericcio in un dormiveglia apatico, Sigismondo non ricordava quasi più il nobile raffinato che aveva movimentato le notti veneziane, e la sorella del Rabbi lo trattava con evidente fastidio, senza quasi rispondere alle sue domande. Una mattina, occhieggiando da un abbaino sul tetto, notò una strana agitazione nel vicolo. Sembrava che tutto il ghetto vibrasse, tremasse, mentre le finestre si chiudevano, i portoni venivano sprangati e davanti alla casa del Rabbi, come una nuvola di tempesta in un cielo sereno, nereggiava una piccola folla. Erano soprattutto donne, alcune con i figli tra le braccia, nell'aria, quasi cercasse una via di fuga dal ghetto, un mormorio indistinto, fatto di sospiri, preghiere e singhiozzi.
Allarmato Sigismondo cercò tra i volti, che la scarsa luce del vicolo rendeva indistinguibili, quello della donna che aveva intravisto alla luce della lampada nella casa del Rabbi. Non gli parve di vederla.
Ma cosa stava succedendo? Perché Genoveffa tardava? Cosa la stava trattenendo nella grande casa dalle finestre illuminate? Perché tutto il ghetto brillava di candele accese davanti alle immagini sacre?
In quel momento vide uscire Genoveffa dal portoncino. Le donne le si accalcarono intorno. Lei rispondeva facendosi largo tra la folla e consegnando qualcosa che scivolava nelle tasche dei grembiuli, mentre alcune delle persone si allontanavano. Ebbe anche l'impressione che sollevasse gli occhi da terra per guardare nella sua direzione, ma fu soltanto una sensazione.
A quel punto, Sigismondo, furioso come un leone in gabbia, vedendo rientrare la donna e sbarrare il portone, decise di scendere per capire cosa stesse succedendo e per avere un colloquio chiarificatore con il vecchio Gaspez. Gli aveva chiesto di nasconderlo per un po' non di seppellirlo vivo, tenendolo all'oscuro di tutto, e senza comunicargli un bel nulla sui risultati delle sue ricerche. Si chinò e, infilate le dita nel risvolto degli stivali, tastò l'anello che, allargando la cucitura, estrasse dal bordo. Nella fioca luce brillò il diamante
e lo stemma dei Dellapicca prese vita. Era l'ultima legame con il suo passato quell'anello che aveva sottratto pochi anni prima alla cupidigia del rabbino. Forse sarebbe stato ora il suo lasciapassare per avere notizie finalmente della moglie, della figlia e del Moro. Lo tenevano chiuso a chiave come un ladro? Sarebbe sceso attraverso i tetti. In qualche modo ce l'avrebbe fatta - pensò, mentre si arrampicava scivolando fuori dalla stanza e avanzando cautamente sul tetto.
Davanti a lui, oltre alle case si allargava, inalterata promessa di fuga e libertà, il mare.

domenica 13 settembre 2009

On n'est jamais trahì que par le siens

Girano queste ragazzine tutte eguali, caracollanti su tacchi a stiletto altissimi, fasciate in pantaloni aderenti e minigonne inguinali.
Tutte abbronzate, tutte con la bocca imbronciata a scrutare gli uomini che sbavano loro addosso sfidando gli sguardi obliqui delle compagne, per verificare la loro avvenenza. Intorno come uno sciame d'api sul miele, un vortichio di parrucchieri, creatori d'immagini, visagisti,personaggi meno noti della televisione e, a dare lustro, qualcuno tra quelli che contano. Onnipresenti le mamme delle miss. Lo spettacolo si ripete ogni anno, a Salsomaggiore, e ogni anno si elegge la più bella del reame. Una soltanto ce la fa, le altre rientreranno sconfitte. Deluse, umiliate tenteranno di farsi presentare qualcuno che conta, sfoderando sorrisi, se non altro, in cambio di consigli, appoggi e promesse non mantenute.
Quante di loro approderanno alle stanze del potere, ma soltanto per il diletto dei potenti?
Ci sarà qualcuna che, tornata a casa, getterà la coroncina di cartone, simbolo di un sogno di cartapesta, nel pattume?
Ogni anno le guardo con stupore, le osservo puntare soltanto sulla loro bellezza, esibendosi come quarti di bue nella vetrina di un macellaio. Le guardo incredula e penso alla fatica del
diventare autonome, all'orgoglio per la conquista di una sofferta indipendenza, alla sfida delle contraddizioni che la femminilità sottintende, alle lotte sindacali, al rifiuto della pacca sul culo del superiore, alla ricchezza dell'essere donna...
E' proprio vero che "On n'est jamais trahì que par le siens".

sabato 12 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

"Nonna, e Sigismondo?"
"Un secondo di pazienza, Mielita, e arriviamo anche a lui".
E ripresi a raccontare, mentre lei si accoccolava sul tappeto, i grandi occhi assorti che mi scrutavano in attesa.
"Sigismondo era morto?"
"No, Sigismondo, era fuggito, terrorizzato, prendendo, quasi senza rendersene conto, la via che portava al Ghetto. Scivolando lungo i muri, era arrivato alla casa del Rabbi e si era attaccato al battacchio. Dopo essersi fatto riconoscere era entrato e, sconvolto, era piombato sulla sedia, davanti alla scrivania del vecchio che, in silenzio, una mano sull'altra appoggiate in grembo, lo osservava attentamente.
"Dovete nascondermi..."
"E voi dovete raccontarmi tutto, fin dall'inizio".
E Sigismondo si era sgravato del suo sacco di pietre: aveva parlato, senza tralasciare alcun particolare, concludendo il suo racconto con quell'immagine della casa e del magazzino andati in fumo. La sua vigliaccheria l'aveva fatto fuggire e forse aveva perso anche la moglie e la figlia. E il Moro?
Il Rabbi l'aveva osservato, pensoso: quell'uomo, come un rottame dopo un naufragio, era arrivato fino a lui e ora lo supplicava di aiutarlo. Avrebbe potuto respingerlo, invitarlo a andarsene, ma era un uomo saggio e molto prudente. Gli elementi che aveva in mano per giudicare erano pochi, nebulosi: Il Moro dov'era? E dall'incendio non si era salvato nulla? Il Veneziano era conosciuto, il suo sodalizio con il Moro aveva creato ricchezza. Perché rifiutarlo subito rischiando di crearsi un nemico... Avrebbe temporeggiato nascondendolo in quel dedalo di vie e case, almeno il tempo necessario per verificare quanto gli era stato raccontato e scoprire che fine avessero fatto la moglie, la figlia e Il Moro.
Chiamò la sorella e, indicando l'uomo accasciato sulla sedia con un cenno del capo,le disse: "Sistemalo nel solaio della casa di fronte, i Padovan si sono trasferiti a Venezia e prima di un mese non arriveranno i loro cugini. Portagli da mangiare. Nessuno deve sapere che è qui.Mi raccomando".
Sigismondo aprì la bocca per ringraziare, ma il vecchio lo bloccò con un'occhiata infastidita facendo un cenno con la mano che era un chiaro invito ad andarsene.
Il corridoio ingoiò le due figure precedute dalla luce tremolante della lampada a petrolio che allungava ombre sinistre sui muri. In quel momento si udi il rimbombo cupo del battacchio e una voce angosciata di donna filtrò attraverso la porta. " Ma cosa succede oggi?" borbottò Genoveffa affrettandosi verso l'ingresso e aprendo lo sportellino.
"Yael siete voi?" borbottò mentre socchiudeva il portoncino e una figura femminile s'intrufolava, tenendo tra le braccia una bambina avvolta in una coperta. "Venite, potete venire... " e la due donne si allontanarono dirette allo studio, passandogli davanti.
La lampada alzata illuminò il volto della bambina e due occhi azzurrissimi fisssarono Sigismondo che rimase fermo, basito dallo stupore, riconoscendo in quell'inconfondibile contrasto di pelle nera e occhi colore del cielo, la sorella gemella della figlia.(continua...)

Leggere Kafka a Milano

Amo Kafka, Kafka preso in mano a vent'anni e abbandonato subito, disorientata. Ripreso in mano a quarant'anni e letto più per dovere che per piacere. Amo Kafka scoperto, e finalmente assaporato fino in fondo, cogliendo la follia di una Milano dove i casi della vita mi avevano fatto, cinquantenne, arenare. E, mentre impazzivo al Comune o all'Ufficio delle Imposte in code chilometriche per ritrovarmi poi, regolarmente, davanti a un'impiegata programmata per far uscire di senno l'utenza, dicendomi "situazione Kafkiana" sorridevo. Tra le carte, con mani sudaticce, sentendomi oggetto di una persecuzione feroce e per me immotivata, cincinschiavo. Tentare di capire applicando la mia faticosamente conquistata razionalità? Inutile. Tra l'uomo - nel caso specifico la donna - e la vita, l'imponderabile difficoltà, astrusità del vivere, l'angoscia della casualità e l'ingiustizia dell'essere centrati come bersagli dai siluri dell'esistenza.
Nella tasca della giacca lui, Kafka, con i neri occhi febbricitanti puntati sul mondo, osservava attento le mie metamorfosi.

giovedì 10 settembre 2009

Dove si è perso John Wayne?

Oggi il mondo ricorda: uno dei simboli della potenza americana, le Torri Gemelle, proiettate verso il cielo ad agguantare le nuvole in corsa, in fiamme, i mille occhi delle finestre puntati su una New York atterrita che ne vive l'agonia. Incredula. Poi il crollo ad avvolgere la novella Pompei in un sudario di cenere grigia, a spegnere l'orgoglio, a umiliare l'arroganza. Sull'aereo presidenziale, due occhietti da topino laboritiano inchiodati su quella voragine che si è inghiottita il sogno americano.
Dove si è perso John Wayne?
E' la fine di un'epoca.

mercoledì 9 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

La lunga giornata di lavoro era finita e sul porticciolo era calato il silenzio rotto soltanto dallo sciabordio del mare. Fioche luci si accendevano nelle case, mentre nel cielo apparivano, tremule, le prime stelle e Il Moro, la giubba sulla spalla, ritornava alla locanda.
Varcata la porta d'ingresso, il brusio del locale lo accolse. A un tavolo d'angolo sedeva Maria con accanto la figlia e, seduta davanti a lei, la moglie del locandiere che la osservava con una certa astiosa diffidenza, lasciando scorrere lo sguardo sull'abito alla moda e sulla bella testa altera che nessun fazzoletto umiliava. Entravano altri uomini e tutti gli sguardi si appuntavano sulla bellissima "foresta" incurisiti dai suoi modi cittadini e dall'abito elegante che indossava. La locandiera aveva accolto con un certo stupore la proposta che le donna le aveva appena fatto di dare una mano nell'osteria, precisando che era cresciuta a sua volta in una locanda e che era abituata a lavorare. La bellezza di quella forestiera, da donna, la infastidiva e la sorprendeva la sicurezza altera con cui si muoveva tra quegli uomini rozzi senza dimostrare alcun disagio. Ma quali segreti nascondevano le labbra di quella donna? Chi era? E chi era l'uomo che l'accompagnava? Certamente non il padre della bambina che era il ritratto della madre e non aveva tratti negroidi. Però una donna come quella avrebbe attratto clienti come il miele le mosche. Da quando aveva trovato alloggio alla locanda gli avventori erano notevolmente aumentati e anche ora la porta sbatteva in continuazione, il locale si era riempito, e i giovanotti parlavano a voce troppo alta, mentre le risate avevano un tono più acceso.
"Non mi sembrate adatta a lavorare dietro a un bancone, ma se mi dite che..."
Maria la interruppe: "Vi assicuro che non vi pentirete. Datemi modo di dimostrarvelo e, complimenti per il locale. Ha molti avventori, segno che il vino è buono, la cucina... pure e i clienti sapete come trattarli".
La donna continuava a osservarla, incerta.
"Il pesce lo sapete cucinare?" chiese, quasi sperando di sentirsi rispondere negativamente.
"Certamente, in tutte le salse. Sono triestina, se non sappiamo cucinare il pesce noi..." e sorrise, finalmente, chinandosi verso la bambina che, sentendosi trascurata reclamava, interrompendo la madre, la sua attenzione.
"E va bene, mettete a letto la bambina e scendete ad aiutarmi, ma vi premetto che la paga è molto bassa... Se vi... "
Maria l'interruppe esclamando "A patto che il vitto e l'alloggio siano gratuiti".
La donna davanti a lei annuì e augurandole "Buon appetito" si alzò e, attraversato il locale, scomparve dietro alla porta della cucina.
Il Moro, che intanto si era avvicinato al tavolo, mentre la donna immergeva il mestolo nella zuppa fumante invitandolo a sedersi, l'apostrofò sospettoso "Cosa voleva quella donna? Cercate di essere prudente".
Maria gli piantò addosso quei suoi occhi calmi e decisi, mentre un sorriso le sfiorava le labbra, poi, risoluta, gli rispose: "Ho trovato lavoro anch'io. E voi quali novità mi portate dal porto? Spero siano buone nuove!"

martedì 8 settembre 2009

Blog mon amour

Sarò anche fissata, ma il pc continua a irretirmi. Pur con gli inevitabili limiti, le ripetitività, il mare del mio tempo che si divora, "Andare in rete" e occuparmi del mio blog mi apre sconfinati orizzonti.
Tutto da verificare, siamo d'accordo, il senso critico sempre all'erta ad annusare l'aria, ma andare per blog è come rovistare nelle soffitte dell'anima che si alimentano di notizie che qualcuno vorrebbe occultare, di ricordi. Come vecchi solai, eliminati per motivi di spazio, materializzazione "dell'amarcord" in cui i bambini curiosando e giocando scoprivano i segreti di famiglia, nel loro aspetto diaristico, i blog ci parlano spesso del passato, tratteggiando nel loro insieme una società scomparsa, quell'indispensabile "prima" che permette di capire ciò che siamo diventati. Nei blog, inoltre, i sentimenti sono spesso scoperti: furoreggia la rabbia, s'insinuano le speranze, filtra la delusione, arriva l'onda d'urto della ribellione, in tutte le lingue, da ogni parte del pianeta, esempio perfetto di globalizzazione, i blog ci consentono di sbirciare nel "privato del mondo", di cogliere l'altra faccia della luna. E tutto ciò non soltanto non potrà non modificare, ma ha già modificato la realtà che ci circonda.
Alternativo e/o complementare alla televisione, il pc attraverso i blog ha denunciato i danni, i pericoli, le modificazioni profonde che questo strumento ha provocato...E, tutto potremmo affermare, ma non che in un Paese come il nostro quello scatolone d'acciaio simile a un ultra tecnologico palcoscenico di marionette non abbia cambiato la mentalità, alterato i giochi politici, irreggimentato e omologato anime e cervelli. E il sapere libero, ancora non standardizzato dove ha trovato e trova, se non nei blog, una forma di espressione che, essendo diverse le opinioni, possa essere oggetto di confronto? Qualcuno pensa che il popolo dei blog presenti un'uniformità di fondo: livello medio alto d'istruzione, orientato a sinistra, né vecchio né giovane e quindi con ridotte possibilità di confronto. Forse l'uniformità in questione caratterizzava i blogger della prima ora ma, di fronte alla crescita del fenomeno,le generalizzazioni risultano poco valide. Basterebbe pensare alla differenza d'età: sempre più baldanzosi pensionati e pensionate si siedono davanti al pc, con esperienze professionali e di vita profondamente diverse. Donne, uomini, ragazzini, gay, sani, malati, lavoratori e disoccupati, studenti e docenti e chi più ne più ne metta. A parte i pochi giornali non asserviti al potere e con la televisione nelle mani del presidente del Consiglio, se non avessimo la Rete e i blog saremmmo messi veramente male. Pensando poi in particolare alle blogger, ho la sensazione che abbiano trovato uno spazio di di comunicazione tra loro, e non soltanto con i maschi, che le donne non riescono sempre a creare nel mondo non virtuale. Legate più dei maschi alla casa per le esigenze della famiglia, in primis dei figli, mentre si cucina il sugo, occhieggiano e scrivono sui blog e, anche se brucia qualche arrosto, una forma di solidarietà femminile, la coscienza dei propri diritti, un po'di conforto e un patrimonio di conoscenze vanno prendendo forma.
Si mette in comune tanto nei blog e, a mio avviso, si sta dando vita a un sapere collettivo critico, libero e autonomo che già prefigura nuove modalità di apprendimento e la fruizione, nello spazio che si apre a ogni forma di sperimentazione, del "bello" in tutte le sue forme artistiche. Fruizione gratuita capace, in un mondo dove tutto è ricondotto o riconducibile al denaro, dal denaro per una volta, di emanciparsi, dissociandosi.

lunedì 7 settembre 2009

Gregor Samsa poteva prendere il cappello e uscire a camminare nel vento.

Cos'era quel trillo deciso che non le dava tregua? Che idiota: la sveglia. No, la sveglia non modula i suoni, non cessa di urlare per riprendere fiato. Non cessa di urlare per riprendere fiato? Respira! La sveglia? Aprì un occhio. Diffidente e con visuale limitata, ma sufficiente a inquadrare quell'angolo di culla. Si decise a guardare. Eccolo l'alieno: aveva smesso di urlare e la guardava. Tentava di sorriderle ma aveva troppa fame, il culo a mollo nel piscio e la copertina arrotolata in fondo. Era tutto estremamente sgradevole: conforto immediato urlava il suo pianto che riprendeva deciso. Anche lei avrebbe avuto bisogno di conforto - pensò. Chissà se lui aveva paura? Tanta quanta ne aveva lei?
Si alzò, guardandosi attorno nella casa in disordine. La giornata che occhieggiava da dietro le finestre le sbatteva in faccia una primavera avanzata, aggressiva come un'estate precoce. Aprì la finestra della cucina e quell'aria, che aveva rubato all'erba e alle prime viole il profumo, l'investì. L'invitava, la bastarda l'invitava a vestirsi di vento e a uscire: la pelle al sole e la libertà tra le mani. Lo cambiò e lo lavò. Era già più tranquillo, anche se si mordicchiava le dita, succhiandosele. Gli infilò in bocca il capezzolo, sentendo il tepore di quel corpicino caldo e leggero. Lo annusò, socchiudendo gli occhi: sapeva di gatto appena nato. Nel vetro della finestra si vide riflessa e, atterrita, chiuse gli occhi. Era stato un parto della sua fantasia?
L'aveva sognata o vista quell'immagine.
Tentò di staccarselo di dosso... un bambino non si attacca. Non è un bubbone, ma lui lo era.
La testa stava scomparendo, sfumavano gli occhi, le mani rientravano nelle bracciotte corte, sempre più corte. Lei lo stava fagocitando. Lei l'aveva fatto e lei lo distruggeva.
Qualcosa si era inceppato nel meccanismo riproduttivo che andava srotolandosi all'indietro.
Corse davanti allo specchio: appena in tempo per vederlo sparire del tutto mentre il suo ventre si caricava di lui, scalciante com'era stato negli ultimi giorni prima della nascita.
Tentò di urlare, ma dalla gola le uscì solo un gorgoglio indistinto.
Era diventata pazza? Come avrebbe potuto giustificare la scomparsa del bambino? Non era scomparso, era tornato nella sua pancia. Era lì. Era! Sì, perchè la pancia si riduceva, sempre di più. Si passò una mano sul ventre: piatto.
Non poteva essere vero. Cominciò a cercarlo, a chiamarlo: "Giovanni, Giovannino... "
Di nuovo la sveglia? No, era prolungato quel suono, lacerante e avrebbe impedito a Giovanni di sentirla.
" Giovanni, Giovannino... "
Sotto le sue finestre il medico auscultava il battito inesistente sul corpicino del neonato.
Scuoteva il capo.
La volante della polizia spegneva la sirena, poi, frenava a due passi dall'autoambulanza.
Lei sorrideva alla sua immagine riflessa nello specchio.
La mamma era scomparsa, come un incubo al risveglio dal sonno.
Gregor Samsa poteva prendere il cappello e uscire a camminare nel vento.

sabato 5 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Il Moro si deterse il sudore che gli inzuppava la fronte: il lavoro procedeva e la catasta di legname sulla banchina diminuiva mentre il sole percorreva il cielo chiaro della penisola istriana scendendo verso il mare e illuminando le barche dei pescatori che attendevano il calare delle tenebre per gettare le reti al largo. Blanko era rimasto a osservarlo per tutto il giorno,senza perderlo di vista, in silenzio, lo sguardo che balenava febbricitante sotto le sopracciglia chiare quando socchiudeva le palpebre, come se la vista del mondo gli riuscisse intollerabile. Il Moro riconosceva quella mescolanza di rabbia, dolore e impotenza che lo sguardo di quel gigante tradiva. Erano sentimenti che si portava dentro da tempo: anche lui conosceva quel grumo di dolore che ogni anno indurisce, quell'inverno che circonda di ghiaccio l'anima e non conosce disgelo. Soltanto quella donna, che lo aspettava nella locanda con la bambina, lo agganciava ancora alla vita. Lui, così astuto, così pronto a cogliere qualsiasi segnale di pericolo, era caduto nella trappola e, a causa sua, il Veneziano era finito nelle mani dei suoi creditori. Cosa sarebbe successo se la servetta non fosse riuscita a scappare dalla porta sul retro della cucina e a raggiungerlo sulla Capinera ancorata alla banchina,  per raccontargli terrorizzata e piangente di quell'intrusione di uomini armati, del padrone in loro balia e della padrona barricata in camera da letto con la bambina, con i colpi delle spallate degli uomini che rimbombavano lungo il corridoio alternandosi alle risate e alle battuta scurrili?
Ricordava la corsa fino alla casa di Maria nella notte che incupiva, la scimitarra che gli sbatteva sul fianco e il pugnale che scintillava alla luce della luna. Aveva trovato la porta d'ingresso spalancata, il lume che lasciava intravedere seggiole rovesciate e oggetti per terra, mentre uno scalpiccio di passi pesanti proveniva dal piano superiore. Gettato di traverso su un divano, Sigismondo tentava invano di liberarsi. Piombato su di lui, gli aveva già reciso le corde, quando un grido di donna infranse il silenzio facendolo volare lungo le scale verso quella porta socchiusa dalla quale filtrava un filo di luce: uno dei battenti, scardinato, aveva ceduto sotto la spinta della sua spalla. Maria, il corsetto slacciato e strappato, giaceva sul letto, la bambina, terrorizzata in un angolo, che si lamentava istupidita dalla paura.
"Sei peggio di una cagna rabbiosa... vieni" mormorava tra i denti, cercando di afferrarla, l'uomo che le stava addosso, ma la sua irruzione nella stanza, lo fece rialzare, il braccio teso verso la spada gettata sul pavimento, mentre gli altri due, le armi sguainate, lo avevano affrontato. Il pugnale che aveva lanciato si era conficcato nel petto dell'uomo più giovane disegnandogli sulla camicia un fiore di sangue.
" Fatti sotto che il diavolo ti si porti!" Erano state le ultime parole del conte Giovanni, interrotte dal fiotto di sangue che andava colmando la sua mano e ipnotizzando il suo sguardo che acquistava una fissità incredula, mentre le ginocchia gli cedevano facendolo crollare sul pavimento, accartocciato negli spasmi dell'agonia.
Il terzo uomo, vista la sorte toccata agli altri due e la stazza dell'avversario, ma sopratttutto la furia che rendeva il Moro un'animale assetato di sangue, aveva deciso di squagliarsela, abbandonando abiti e spada.
Maria, che si era gettata sulla bambina tentando di calmarla, si voltò verso di lui mormorando: "Mio Dio, se non foste arrivato in tempo... " e singhiozzando chiese " Ma perché, chi erano quegli uomini... " senza avere nemmeno la forza di continuare
" Erano i creditori di vostro marito, ma... " e tacque, impacciato, mentre Maria, tentando di chiudersi il corsetto, lo seguiva.
"Dobbiamo scappare, torneranno in forze..."
Erano scesi. Sigismondo non c'era più e Maria, mentre lo sguardo le si incupiva, aveva sussurrato "E' fuggito! E ora che cosa facciamo?" mentre la bambina continuava a piangere aggrappandosi alla madre.
Nella concitazione del momento, complice anche l'oscurità della notte, non avevano notato il fumo che proveniva dal corridoio.
"Ci mancava soltanto questa: il magazzino sta bruciando!?"
Il crepitio delle fiamme che avanzavano lungo il corridoio li aveva spinti fuori dalla casa nella notte che i bagliori dell'incendio, favoriti dal vento che aveva cominciato a soffiare, animavano di lingue di fuoco. (continua...)

Chi ha paura del lupo (pardon) banchiere cattivo?

Il nostro ministro dell'Economia, Giulio Tremonti bacchetta le banche sulle dita impensierito -a mio avviso, correttamente - dallo strapotere che le istituzioni finanziarie, banche in testa, hanno dimostrato e dimostrano di potere esercitare.
Mi risulta che le banche fossero soggette fino a pochi anni fa alla cosiddetta Legge Bancaria, un articolato complesso di norme introdotto nel 1936 dopo il crollo di Wall Street, orientato al controllo, a tutela del risparmiatore, dell'attività bancaria a scapito, però, dei profitti del settore. Forse il ministro Tremonti, quando ha contribuito a smantellare tutto il sistema dei controlli sull'operatività bancaria - perché la funzione legislative è normalmente onore e onere del Parlamento e quindi dei ministri che lo compongono - non si è reso conto che si affidava non più a un controllo normativo, ma a quella che è stata definita la "moral suasion"? Il Parlamento invitava i banchieri a "fare i bravi", per intenderci.
L'America, intanto, lanciava i manager rampanti che trasformavano in oro la carta straccia (Lacan nella vecchia Europa avrebbe storto il naso di fronte a un'economia definita di carta) mentre i nuovi dei del mercato la moltiplicavano inondandone il mondo con l'ultimo gioco di prestigio prima del crac: la dematerializzione e, opslà, il denaro era solo un numero su un monitor,si speculava su titoli che derivavano il loro valore da attività sottostanti, non solo merci ma anche indici di borsa, prevedendone rialzi o ribassi. Il MIBtel (Milano indice borsa telematico) è un'attività sottostante? Cristo! dov'era l'economista Tremonti mentre le banche, senza più limiti, spacciavano il MIBtel per un bene, un'attività, una ricchezza che venduta e comprata, avrebbe consentito all'Occidente di trasformarsi nel Paese di Bengod? Ministro Tremonti in quella sede - il Parlamento - avrebbe dovuto parlare, intervenire, controllare spiegare.
Non l'ha fatto! Perché?
Pensava che i banchieri fossero filantropi? Ora che, come sempre, si preoccupano soprattutto di far quadrare i loro bilanci, lei grida allo scandalo? Di cosa si dovrebbero preoccupare nonché occupare? Era il Parlamento che avrebbe dovuto non slegare loro le mani. Mi sembra logico che il minimo che possano fare - i banchieri intendo - è infilare quelle stesse mani nelle tasche dei cittadini, degli enti pubblici territoriali e delle imprese facendo quello che, voi ministri, li avete - con legge dello Stato - autorizzati a fare: rubare.
Lei, Ministro, che ha legalizzato il furto dandogli valenza normativa, abbia almeno il pudore di fare ciò che così caldamente ha raccomandato ai suoi colleghi: taccia!

venerdì 4 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Blanko appoggiò il bicchiere sul bancone con un gesto deciso, si calcò il berretto sulla testa e poi, dopo esersi girato, si avviò verso l'ingresso della taverna, mentre gli avventori si scostavano, rispettosi, per farlo passare. Il Moro che lo seguiva, appena varcata la soglia, gli si affiancò. Blanko si fermò, squadrandolo senza parlare, vagamente sorpreso nel constatare che l'uomo davanti a lui non sembrava a disagio sotto il suo sguardo freddo che teneva a distanza la gente.
"Mi hanno detto che state cercando un uomo che vi aiuti nelle operazioni d'imbarco del legname..."
"Cosa sapete fare?" chiese Blanko.
"Riempire una stiva a puntino, controllare gli scaricatori, reclutare marinai, organizzare un trasporto via mare... Cosa vi serve?"
"A parlare son bravi tutti" rispose lo slavo, misurando le parole, mentre lo sguardo gli scivolava sulle braccia muscolose, le spalle e il collo taurino dell'uomo davanti a lui che la giubba conteneva a stento.
"Mettetemi alla prova" e la voce del Moro era calma e ferma.
"Da dove venite? Siete solo?"
"Vengo da Trieste" e, dopo una breve esitazione, aggiunse "No, non sono solo".
"Cosa facevate a Trieste?"
"Mi occupavo di spedizioni marittime" e, altra breve pausa, "Avevo un socio".
"Avevo?" chiese Blanko.
"Vi interessa il mio lavoro o la mia storia?"
Blanko sorrise: quell'uomo, di cui aveva intuito la forza e l'attitudine al comando, gli piaceva.
Ora che il fratello, che già aveva iniziato a lavorare con lui, era morto, gli avrebbe fatto comodo poter contare su qualcuno che lo aiutasse. Valeva la pena di dargli un'opportunità. Se non si fosse dimostrato all'altezza... be', avrebbe sempre potuto cambiare idea. Però qualcosa di ciò che il Moro aveva detto l'aveva colpito: era strano che avesse scelto di andarsene da una città come Trieste per sbarcare sulle coste istriane a cercare lavoro; anche la storia del socio era poco chiara, ma in fondo quell'uomo aveva ragione: erano fatti suoi che non lo riguardavano...
Un cenno del capo pose fine al colloquio, mentre con un gesto della mano Blanko faceva segno al Moro di seguirlo, infilandosi nel caos del porto tra una pila di merce da una parte e alcuni marinai che contrattavano un ingaggio dall'altra.
La nave della Serenissima ondeggiava maestosa davanti a loro: una catasta di pali si andava innalzando sulla banchina, circondata da alcuni marinai che agganciavano i tronchi con delle funi, sollevandoli tra imprecazioni in cui s'incrociavano il veneziano, il croato e altri dialetti locali. Il palo agganciato per ultimo, dopo aver oscillato pesantemente, piombò a terra sfiorando un caricatore che, con un guizzo, lo evitò per un pelo.
"L'imbagatura è fatta male: deve essere collegato anche al centro" disse il Moro, precedendo Blanko che stava per dire la stessa cosa. Dunque - pensò - il Moro aveva parlato con cognizione di causa.
"Provate a dirigere voi le operazioni d'imbarco" gli disse e si sedette su un muretto che aveva alle spalle, pensoso, senza mai distogliere l'attenzione dall'uomo che aveva già cominciato a dare ordini. I marinai e i caricatori, dopo un momento di incertezza iniziale, ora attendevano i suoi ordini come se fosse per loro normale obbedirgli. (continua...)

mercoledì 2 settembre 2009

Cambiamento

Leggeva sul monitor e il sudore le si gelava addosso.
Malattie neurologiche
Era notte, una notte estiva e, dopo una giornata interminabile sotto un sole infernale, finalmente si respirava. Sotto le sue finestre, in quella Milano arrabbiata, morsa dalla crisi economica, ‘la movida’ animava la notte di clacson irritati, drogati lamentosi, coppie allacciate che si baciavano in macchina nella sosta davanti al rosso del semaforo.
Sommario.
Sferragliavano ansimando i tram…
Ululava un’ambulanza.
Sintomatologia: Cristo!,la sua. Senza ombra di dubbio
Alla radio suonavano Mozart: “Eine kleine nach musik”.
Progressiva
Aveva cinquantanove anni: era andata in pensione due anni prima e quella stanchezza tenace - refrattaria a complessi multivitaminici, rimedi omeopatici, riposo e sonno - era, ormai, una costante.
“ Sindrome da nido vuoto, depressione da pensionamento” le dicevano e lei scuoteva la testa spiegando che la depressione le sarebbe venuta se avesse continuato a battagliare, in casa e fuori casa, con adolescenti…
Degenerativa.
Poi era cominciata la rigidità: il suo corpo sottile e scattante si era come ingrippato, aveva cominciato a muoversi come una marionetta manovrata da un puparo distratto: a scatti, ogni movimento uno sforzo. Ortopedico, radiografie non avevano evidenziato nulla. Lei stava sempre peggio. “ E’ la menopausa” aveva detto sua madre.
Incurabile.
Aveva cambiato nome, non più Morbo ma Malattia, a renderla una handicappata. Pardon: una diversamente abile. Si diventa precisi per agganciare il cervello a qualcosa, qualsiasi cosa
allontani quelle parole scarne che cadono addosso come macigni.
La musica continuava, la movida anche, il tram frenava cigolando.
Lei, spento il computer, si lasciava alle spalle una vita normale.
Per sempre.
Il cambiamento entrava prepotente nella sua vita, quella sera, tracciando un ipotetico confine tra il prima e il dopo.


Nella notte estiva il verso di una civetta spezza il silenzio, fari gialli d’automobili animano a tratti la parete alle sue spalle.
Alla radio musica di Mozart: “Eine kleine nach musik”.
Ricorda quella sera e non soltanto quando sente "Una notte senza musica".
Il monitor del pc le rimanda immagini in rapida sequenza. Scrive, da quando si è ammalata scrive, come se la malattia avesse infranto il muro, il confine che la separava dalla scrittura.
Un romanzo: Confine immaginario.
Sorride. Sorride anche se ha paura.
Ancora e, nonostante tutto, sorride.

martedì 1 settembre 2009

"...risvegliarci al mattino e scoprire che non siamo soli, che sui tetti di 10, 100, 1000 scuole e uffici scolastici, una moltitudine di colleghi, tecnici, studenti, hanno acceso altre centinaia di candele della speranza e della ribellione.
Arrampicatevi sui tetti, se saremo in tanti, vinceremo con la forza della nostra determinazione.
Perchè in gioco non c'è solo il nostro posto di lavoro, ma il sapere e la conoscenza, la speranza e il futuro di un domani migliore".

dafemminismo a sud

FORZA RAGAZZE!!