sabato 12 settembre 2009

Leggere Kafka a Milano

Amo Kafka, Kafka preso in mano a vent'anni e abbandonato subito, disorientata. Ripreso in mano a quarant'anni e letto più per dovere che per piacere. Amo Kafka scoperto, e finalmente assaporato fino in fondo, cogliendo la follia di una Milano dove i casi della vita mi avevano fatto, cinquantenne, arenare. E, mentre impazzivo al Comune o all'Ufficio delle Imposte in code chilometriche per ritrovarmi poi, regolarmente, davanti a un'impiegata programmata per far uscire di senno l'utenza, dicendomi "situazione Kafkiana" sorridevo. Tra le carte, con mani sudaticce, sentendomi oggetto di una persecuzione feroce e per me immotivata, cincinschiavo. Tentare di capire applicando la mia faticosamente conquistata razionalità? Inutile. Tra l'uomo - nel caso specifico la donna - e la vita, l'imponderabile difficoltà, astrusità del vivere, l'angoscia della casualità e l'ingiustizia dell'essere centrati come bersagli dai siluri dell'esistenza.
Nella tasca della giacca lui, Kafka, con i neri occhi febbricitanti puntati sul mondo, osservava attento le mie metamorfosi.

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