lunedì 29 luglio 2013

Come a Vienna nel '14...

Spalanco la finestra(quella che dà sul cortile orfano dei pini) e mi aggredisce un cielo grigio: il sole nascosto sotto strati di nuvole in corsa… Un borbottio di tuono in lontananza? No, sono solo i miei sensi che danno un contentino ai bisogni che avverto. Le jour où la pluie viendra, nous serons, toi et moi…  Becaud cantava, con me, con lui…
I ricordi chiari, nitidi  narrano una storia ben nota: li ho selezionati con cura perché la supportassero. Ogni tanto ne irrompe uno, a tradimento, scompiglia le carte, crea angoscia: quella che la verità, tanto invocata a parole, scatena in ognuno di noi.
Sto rileggendo L'amore ai tempi del colera di Marquez (l'accento giusto sulla a non so dove trovarlo). L'avevo letto quando la vecchiaia era soltanto un rischio lontano, vago - sul quale scherzare -  non un nemico con il quale combattere ogni giorno ben conscia dell'inevitabile sconfitta.
Nell'Emilia rossa si accendono i fuochi estivi delle Feste dell'Unità, sui tavoli gira, come sempre, la torta fritta con i salumi, i compagni si abbracciano, si balla il lissio… 
Come a Vienna nel '14, come sul Titanic, aperto come una scatoletta di tonno da un iceberg, si affronta l'abisso a passo di danza…

giovedì 25 luglio 2013

La sonorità del silenzio.

Il silenzio. La sonorità del silenzio.

mercoledì 24 luglio 2013

Al cinema in una sera d'agosto

Mi vedo La grande bellezza di Sorrentino in un cinema dalle poltrone scomode (soprattutto per la mia disgraziata schiena). Alle mie spalle due donne attaccano a ridere fin dall'inizio e non la smettono.  Servillo come Fantozzi... Intanto sullo schermo si succedono le immagini di una città, Roma, bellissima già di suo e che l'abilità di chi usa con maestria la macchina da presa rende, se possibile, ancora più bella. Il film non ha storia: si limita a farci vedere,  attraverso lo sguardo, acutissimo ma disincantato, cinico, del protagonista, giornalista, scrittore consacrato da un unico libro promettente scritto in gioventù, lo scorrere dei giorni ripetitivi, fasulli, vuoti di una società, ricca e... guasta. Votata non al piacere, non all'eleganza, non alla ricerca di una forma qual si voglia di senso della vita, ma all'imitazione (mal riuscita) di tutto ciò. Si parla, ma non si comunica, si beve - quel tanto - si fa l'amore, sfiorando freddi e disincantati un sesso da obitorio...
Nulla più stupisce, né potrebbe farlo, anche la povertà è un modo di mettersi in mostra - magari per uno scopo nobile, la raccolta di fondi per i poveri - perché anche la povertà, come tutte le recite, reclama un pubblico e il suo plauso.
Bravissimi gli attori, ottima la colonna sonora, splendide le inquadrature, volutamente, a tratti, incomprensibile e slegato il dialogo, necessario a sommergere in un mare di bla bla bla quel poco o tanto di vero che il mondo racchiude, il film mi lascia addosso un senso d'incompletezza.
Cosa manca? La fantasia, capace di far decollare una storia, la passione (e la compassione), il senso di un futuro. La grande bellezza fa già parte dei ricordi, è passata, il presente non la vuole, il futuro l'avrà ormai già dimenticata. E' questo il messaggio che Sorrentino ci manda?

martedì 23 luglio 2013

Agosto

Seguo l'arco rovente
dei giorni d'agosto

non vivo
appassisco
...

mercoledì 17 luglio 2013

D'amore non si muore, di rabbia sì

Concita De Gregorio ha scritto Io vi maledico, un libro sulla rabbia, sulle radici di questo sentimento.
Ha cercato gli "arrabbiati" di questo nostro Paese, ha parlato con loro, li ha ascoltati, soprattutto. Ne ha trovati tanti. Troppi. Un Paese inferocito.
Sentimento complesso la rabbia. Sentimento la cui manifestazione si differenzia, nettamente, per genere. Un uomo che allunga un pugno su un muro accompagnandolo con una bestemmia, può incutere paura, ma non provoca il riso. E' considerata, a livello sociale, un'espressione - un  po' criticabile - di virilità. La rabbia manifestata da una donna è tutta un'altra cosa. Alle donne viene insegnato, e l'addestramento inizia nell'infanzia, a non manifestare la rabbia, a controllarla. Le donne della mia generazione sono state educate cosi; poi è arrivato il '68 e la rabbia è venuta a galla... Non sapevamo nemmeno di essere arrabbiate, pensavamo che quel malessere più o meno profondo che ci sentivamo addosso fosse malinconia, delusione, tristezza o, nei casi più gravi, depressione. Il medico di famiglia ci spiegava che la depressione era una tristezza profonda ma non motivata. E così alla depressione si aggiungeva il senso di colpa, la sensazione di essere delle "donnette", instabili "per natura", un po' invidiose. Perfino del pene.
La rabbia è un sentimento forte che induce alla ribellione, e per questo motivo fa paura. Soffocata, ingoiata, non espressa, avvelena anima e corpo, come e peggio di un rifiuto tossico. La depressione femminile si alimentava, e si alimenta, di rabbia, di sacrosanta, comprensibile rabbia. La rabbia dei più deboli, di chi è o si sente impotente, di  chi è costretto a subire. Quando esplode è contagiosa. Scatta, violenta, davanti all'ingiustizia.
E' il sentimento che ci fa capire che la nostra capacità di sopportazione è esaurita. Se scoppia per motivi apparentemente banali, forse non abbiamo indagato abbastanza sui motivi, sulle radici della rabbia; quando sfocia in tragedia può rassicurarci definirla rabbia, ma potrebbe essere vendetta, punizione... Un amante deluso non uccide per rabbia, alla base del fenomeno atroce del femminicidio c'è ben altro.
Se e quando si evolve in indignazione si nobilita, diventa sentimento civile, adulto.
Forse è questo il salto di qualità che, nel nostro Paese, la rabbia deve ancora compiere. 
Forse...



domenica 14 luglio 2013

Gregor Samsa, amico fraterno

Vivere con una malattia grave è come convivere con un gemello siamese: legati a doppio filo. Non l'abbiamo deciso noi, una mattina ci siamo svegliati così, come Gregor Samsa. Attaccati a questo nostro doppio mostruoso, sconosciuto, che si è insediato nel corpo, nel cervello e nell'anima a nostra insaputa. Da quello che dicono i medici era lì da un bel po', il bastardo, acquattato nell'ombra dava soltanto qualche segnale della sua presenza, ma vago, ambiguo. Da quel momento come Gregor Samsa siamo passati attraverso tutto l'arcobaleno delle emozioni: incredulità, paura, rabbia... vergogna. Vergogna? Come se fosse responsabilità nostra - i cattolici direbbero colpa - esserci ammalati. Qualcuno dei familiari o amici lo ipotizza: hai fatto qualcosa di troppo: mangiato troppo o troppo male, ad esempio. No! Fumato, bevuto? Nemmeno! Hai lavorato troppo? Mica. Be' allora, bella mia, sei proprio sfigata. Troppo sfigata, naturalmente. A questo punto non è escluso che si possa anche ridere. Istericamente, magari, ma ridere. Dice - chi non ce l'ha - che una malattia di questo tipo faccia capire la complessa alchimia della vita, sulla quale ci siamo spremuti le meningi per decenni, in un nanosecondo ed è vero, ma, mi soccorra nuovamente la saggezza ebraica o i proverbi di mia nonna, si sa che la vita dura fa l'uomo forte (anche la donna?) ma io, se me l'avessero chiesto, mi sarei tenuta bene stretta la mia fragilità.
Qualcuno "fa finta di essere sano", finzione che si rivela pesantissima da reggere perché la malattia non può non insinuarsi in tutto ciò che fai, condizionando il tuo umore, agguantandoti stretto quando cambia una stagione, facendoti tremare all'idea che la prossima (stagione) sarà, probabilmente, peggiore di quella che l'ha preceduta.
Quel gemello siamese che occhieggia sghembo tutto ciò che fai è troppo invadente e presente per ignorarlo: tanto vale presentarlo a chi ancora non lo conosce, presentarlo per quel terzo incomodo che è e conviverci sapendo che quella che sei non può né potrà più prescindere da lui.

venerdì 12 luglio 2013

Malala

Come Nelson  Mandela, come Martin Luther King, come altri che non dimenticherò mai, Malala, questa ragazzina dagli occhi grandi e profondi, neri come la notte, ha conosciuto la paura, ha conosciuto il dolore ma ha scelto il coraggio. L'ho sentita parlare all'Assemblea dell'Onu, un discorso senza fronzoli, senza odio, senza retorica. Con voce ferma, pacata ha detto: "Non mi faranno tacere... " E' una dichiarazione di guerra, ma senza fanfara o squilli di tromba. E' pronta a ricominciare. Chiede di avere accesso a ciò che ritiene un diritto, suo e di tutte le donne, l'istruzione. Come un uomo.
I talebani hanno cercato di fermarla sparandole alla testa. Hanno sbagliato persona: quella ragazzina non è pane per i loro denti... Uccide chi non ha autorevolezza, cultura, passione e, ripeto, coraggio. La violenza è l'arma dei vigliacchi. Molte donne che l'avevano ascoltata in silenzio, dopo quelle pallottole hanno alzato  la testa, hanno scelto la ribellione... Lei non ha avuto parole di odio per chi ha tentato di ucciderla. Le persone speciali in questo si somigliano: sono invase dal coraggio (di avere paura) come spiagge dalla marea; ucciderle o tentare di farlo, non è solo inutile, è stupido: serve solo a far traboccare quel coraggio, a farlo scorrere come sangue vivo per villaggi e città, a centuplicarlo... Come i pani e i pesci di cristiana memoria.

giovedì 11 luglio 2013

Trieste, Trst, Trieszt, Triest...

Trieste è una città particolare della quale è facile parlare aderendo al cliché: il mare in primis, poi il Carso e, a ruota, le mule triestine lunghe di gamba e di lingua, il centro di Fisica... e via discorrendo, per concludere, mi sembra scontato, con la bora che soffia più o meno impetuosa sulla città che profuma di Mittteleuropa come un caffè viennese di Sachertorte. 
Io ne ho parlato spesso e, avendola lasciata a poco più di trent'anni, è abbastanza scontato che ne conservi  un'immagine legata, intrecciata a doppio filo, ai ricordi della mia giovinezza. In realtà, questa bellissima città,, perché sulla bellezza dei luoghi non si può non essere d'accordo anche dopo tanti anni - il Carso alle spalle,  il mare davanti, in cui si specchia e rispecchia vanitosa - se non dorme sugli allori (come una  Bella addormentata nel bosco) certo sonnecchia, alternando occhiate compiaciute a un'immagine di sé, che la soddisfa, a garbati sorrisi  (evitiamo la scontrosa grazia che le ha attribuito uno dei suoi illustri figli) con i quali ricambia i complimenti che le vengono indirizzati.
E' città che non sa volgere lo sguardo al futuro preferendo vivere di passato, di ricordi, come si può desumere, anche da esempi banali, scorrendo ad esempio la posta dei lettori, fatta pervenire al Piccolo - il quotidiano più letto in città -, e scoprendo che dietro a un "foresto" non si nasconde un marocchino o un polacco o un cinese (come sarebbe ovvio ipotizzare in qualunque altra città italiana) bensì un istriano, uno dei discendenti di quell'ondata di profughi che alla fine della guerra abbandonò l'Istria temendo le rappresaglie degli slavi e che è, a tutti gli effetti, un italiano. Di leggermente diverso avrà forse il dialetto, più simile al veneziano, poiché la Serenissima dominò per secoli sull'Istria e sulla Dalmazia, ma non altro, eppure... eppure la città è ancora lì a considerare i friulani i cugini di campagna, gli sloveni "i s'ciavi" e Roma "un po' ladrona", poiché non dobbiamo dimenticare che la prima forma di "leghismo" nell'Italia settentrionale vide la luce a Trieste con il "Melone", lista autonoma che coagulò il consenso attorno a un programma comune incentrato sul rilancio della città, con l'ambizioso obiettivo di riportarla all'antico splendore. Come la rivale Venezia, si considera città dal passato imponente, ma la sua storia ci rivela che non molto ebbe a che vedere con la raffinatissima nobiltà veneziana, i suoi cicisbei, la musica di Benedetto Marcello, Vivaldi e Albinoni  (tanto per citarne alcuni) che nei palazzi lungo il Canal Grande, tra parrucche incipriate e dame invitanti che occhieggiavano dietro ai ventagli, riempiva di sonorità aggraziate  i salotti dove si ballava il minuetto e si discuteva dell'ultima commedia di Goldoni mentre, appena più in là,  l'Arsenale sfornava navi a getto continuo, come un forno biscotti, e nel Senato veneziano la più ricca, raffinata e incredibile tra le "Repubbliche marinare" faceva esercizio di democrazia.
Diversa storia vanta Trieste che si sviluppò soprattutto come città mercantile, quando Carlo VI -  padre di Maria Teresa d'Austria che ne avrebbe continuato la politica - avendo deciso di farne lo sbocco sul mare dell'Impero le attribuì la qualifica di porto franco, aprendo la strada allo sviluppo di una solida economia basata sul porto e i commerci. 
La città decollò e la  sua popolazione aumentò notevolmente assumendo caratteristiche di cosmopolitismo di cui oggi non sembra aver conservato che poche tracce. Attratti dalla possibilità di trovare lavoro, approdarono a Trieste in ondate successive greci, sloveni, serbi, macedoni, oltre ai burocrati austriaci, selezionati accuratamente a Vienna, e mandati a gestire una delle province più turbolente del'impero. Incalzati dai pogrom russi ma rassicurati dalla tolleranza dimostrata dalla città nei confronti delle diverse etnie andarono ad arricchire la comunità ebraica, già numerosa ma formata soprattutto da ebrei sefarditi, gli ebrei askenaziti provenienti dall'Europa orientale, la componente più colta e ironica del mondo ebraico. Mi chiedo se i gruppi etnici che ancora vi convivono si siano mai fusi. Nonostante le tante bandiere e i molti cimiteri, sono state più numerose le triestine che hanno sposato soldati americani che quelle che hanno contratto matrimonio con uno slavo. La città mitteleuropea crogiolo di razze apparterrebbe dunque al cliché? Direi di sì, perché, se ripenso agli anni vissuti a Trieste, odo un mormorio stizzito, avverto il sapore di rancori ancora vivi, sento serpeggiare la diffidenza. Le ferite aperte dalla guerra, quei quaranta giorni con i neozelandesi fermi alle porte della città stremata, in attesa, fanno ancora male. Cosa avvenne in quei giorni? I soldati di Tito fecero piazza pulita delle ultime sacche di resistenza nazifascista. Non solo. La contabilità della guerra esigeva che si quadrassero i conti? E questo avvenne e il Carso diventò famoso in tutto il Paese per le sue foibe. Il comandante tedesco della città, insediatosi dopo che la Germania aveva istituito la Adriatischen Kustenland un rapporto inviato al fuhrer accenna alle molte delazioni che permisero ai tedeschi d'imprigionare partigiani italiani e sloveni e catturare cittadini ebrei, molti dei quali finirono gasati nella Risiera triestina, l'unico forno crematorio che funzionò nel nostro Paese.
Questa è storia di cui ho sentito narrare da chi la visse in prima persona e ancora ricordo le discussioni accesissime sulle foibe che scoppiavano a casa di mia nonna, quando ci si riuniva per le festività natalizie o pasquali. Noi bambini venivamo spediti a giocare nelle altre stanze mentre le voci salivano d'intensità, fino a quando, più grande, chiesi e ottenni il permesso di ascoltare e fare domande. Quelle delazioni pesano ancora e forse ancora i sopravvissuti cercano, frugando nel passato alla ricerca dei responsabili e delle loro colpe. Quanto di ciò che avvenne è da attribuirsi alla guerra e quanto è riconducibile a una responsabilità non collettiva, ma personale? Personalmente non credo che possa emergere, in circostanze eccezionali, se non ciò che siamo, e io odio la guerra proprio perché legittima ciò che la pace ci obbliga a censurare: la bestia che è in ognuno di noi. "Cità de fasisti" urlava mio padre, concludendo iroso "e de botegheri". Niente a che vedere con la nobiltà veneziana intenta ballare il minuetto, a Trieste la borghesia  nascente si scatenò nella ciga, e quando si consolidò assunse quelle caratteristiche di solidità, ricchezza e moderazione che caratterizzano questa classe sociale Quelle discussioni, così intense e appassionate mi fecero capire che appartenevo alla gente di frontiera: confini reali, quelli che passano tra le case e tagliano i cimiteri, ma anche confini immaginari, limiti che  avrebbero sempre marcato in me, confondendoli, territori della realtà e della fantasia. Vivere a ridosso di un confine segna, inevitabilmente, ma abitua al confronto con "il diverso" che sta al di là del "muro", allena all'insicurezza perché è costante la paura dello scontro e, contemporaneamente, invita a violare il divieto e, quindi, un po' tutti i divieti. Dà una sensazione di provvisorietà che invita a godere il presente, non incita al cambiamento, arpiona al passato, ai rimpianti, alla malinconia che il pudore colora d'ironia, la caustica ironia dei triestini...
Magris la chiamerà, identificandone i tratti, "identità di frontiera" a legittimazione di una diversità innegabile, orgogliosa e mai  priva di un briciolo di follia.

mercoledì 10 luglio 2013

Sostituire la clava con gli F-35

La crisi, quando è profonda come quella che stiamo vivendo, non è solo interruzione di un processo di crescita economica della società, è crisi degli uomini (e delle donne) che di quella società sono l'elemento fondante. Quanti litigi, quante discussioni con i miei figli, quante ore, anche a scuola, passate a parlare di "etica degli affari".
"Il mondo è cambiato, mamma " mi dicevano.
"Siamo andati sulla luna, mamma" e sorridevano...
Ormai non litigavamo più. 
Berlusconi e la sua corte facevano strame del Paese.
Io aspettavo il botto, sapevo che sarebbe arrivato.
Peggioravano gli indicatori economici ma, intorno a me, peggiorava la "gente"...
Piazze strapiene per i concerti, vuote per i comizi.
Case senza libri.
Case senza culle.
Tanta tecnologia che allargava il mondo 
a dimostrare che spazio e tempo erano diventati concetti astratti.
Ma l'orologio biologico scattava a ogni secondo
e la fertilità non è faccenda virtuale.
"E' cambiata la comunicazione, mamma"
Ogni giorno un uomo ammazza una donna "per amore".
Sostituire la clava con gli F-35
è Progresso  
Sviluppo
o
soltanto aumento
di spese militari?

lunedì 8 luglio 2013

Per fare un tavolo ci vuole il legno...

"Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole l'albero… " cantavo ai miei figli bambini e, se non ricordo male, risalendo di passaggio in passaggio, finivo per arrivare a una sorta di punto di partenza: un fiore. Non era però rappresentativo soltanto di una bellezza narcisistica avvitata su se stessa e quindi inutile, era anche fonte di utilità, funzionalità. Penso che una canzone possa far parte, a pieno titolo, di un percorso educativo/formativo.
Proviamo allora partendo dalla crisi a risalire…
Se per fare un albero ci vuole il legno, per "fare" una crisi come quella che stiamo vivendo ci vogliono più elementi: finanza "allegra", mercati non regolamentati, deficit e Debiti pubblici molto elevati, imprenditori (nell'economia reale) che abbiano preso a modello Marchionne, non certo Schumpeter, e lavoratori (o nuovi schiavi?) disposti a prestare la loro opera per dodici ore al giorno accontentandosi di stipendi da fame. E poi c'è voluta l'Europa e, naturalmente, l'euro e la Bce (l'unica Banca centrale abilitata a emettere moneta), ma anche una Germania virtuosa, non trascurando le economie emergenti, quelle con incrementi del prodotto interno lordo a  due cifre (Cina, Brasile, India ecc.), nonché, ciliegina sulla torta, per propagare il contagio della crisi a tutto l'Occidente, la globalizzazione.
La Finanza, anche quella seria, è nata nelle banche d'investimento, non in quelle che erogavano il credito al consumo e alle imprese, operando con regole tecniche e normative poste a tutela del risparmiatore. Rischi minori, guadagni contenuti.
Cosa produceva materialmente? Nulla, non a caso la finanza è stata chiamata "economia di carta". Ma i banchieri si accorsero che eliminando le leggi esistenti e creando sofisticati e nuovi prodotti finanziari (i derivati), in grado di consentire scommesse su ogni rischio, non ci sarebbero stati più limiti ai guadagni... Però nemmeno ai rischi.
Fu sufficiente che il mercato immobiliare Usa arrestasse la sua corsa al rialzo e che qualcuno non pagasse alla scadenza la rata del mutuo, stipulato per finanziare l'acquisto della casa, per provocare il… disastro, quello che poi si rivelò essere solo  l'inizio del disastro. Le grandi banche d'affari (sporchi, molto sporchi) mostrarono tutta la loro fragilità. Alcune fallirono, altre furono salvate a spese del Bilancio federale Usa con l'intervento della Fed.
Crollò il mercato immobiliare, salì la disoccupazione e la crisi si propagò all'Europa. I "derivati" da  prodotti innovativi diventarono prodotti "tossici" mettendo in crisi tutto il sistema bancario. Reperire capitali sul mercato diventò un problema per i privati e per lo Stato. Le agenzie di rating declassarono i Paesi, come il nostro, più esposti sotto il profilo del Debito pubblico. I tassi d'interesse cominciarono a salire, differenziandosi (spread) a seconda del "rischio Paese".
E per "fare" la finanza allegra, deregolamentare i mercati e ben guardarsi dal regolamentare i prodotti derivati, cosa ci volle? L'assenso della classe politica. E per ottenere tale assenso, in netto contrasto con gli interessi dei cittadini? La corruzione.
Ora qualche responsabilità comincia a delinearsi.
Ricordate nel 2001 l'introduzione  dell'euro? Politici ed economisti - Prodi in testa - a spiegare a noi poveri grulli che mai più avremmo subito fenomeni inflattivi, che l'Europa ci avrebbe difeso, tutelato... Ci ritrovammo invece con stipendi e pensioni dimezzati in termini di potere d'acquisto e "patrimoni" raddoppiati. L'euro, moneta nuova di pacca, riproponeva le vecchie ingiustizie? Problemi di poco conto, aggiustamenti iniziali dovuti al processo d'integrazione europea appena avviato - ci dissero, e noi ci cascammo come idioti.
E per "fare" quel Debito pubblico, una voragine sempre più profonda che inghiottiva la ricchezza del Paese, asservendoci ai giochi(?) della speculazione e all'andamento dei tassi d'interesse, cosa ci volle, se non un uso di nuovo "allegro" del pubblico denaro.Elargito a piene mani a una "casta" di politici corrotti, litigiosi e sostanzialmente incapaci di gestire il Paese. Il sistema, quell'intreccio di tangenti, affari e malaffare scoperchiato dall'inchiesta giudiziaria "Mani Pulite" , non solo non venne estirpato, cancellato ed eliminato, ma negli anni successivi fu perfezionato  facendo della corruzione (di nuovo la corruzione) il suo punto di forza.
Intanto l'Europa, realtà unitaria soltanto sotto l'aspetto monetario, si dotava di organi normativi, consultivi e di controllo che si rivelarono costosi, misteriosi e sempre più lontani dalla "gente". Creata la Banca centrale europea, si decise che sarebbe stata l'unica abilitata a emettere moneta. Chi lo decise? La Germania che, memore di Weimar, fece prevalere l'istanza della difesa del potere d'acquisto dell'euro rispetto a quella dello sviluppo economico. 
Mentre l'America salvava le sue banche emettendo moneta, i paesi europei (come la Spagna, la Grecia, l'Italia  e via dicendo) si trovarono con le mani legate a pietire la carità dell'Europa virtuosa: quella con i conti in ordine, i ministri a fare i ministri e  i comici a calcare le tavole del palcoscenico, non in Parlamento; quella decisa a tenere ben stretti i cordoni della borsa; quella che ci fece firmare il "Patto di stabilità"; quella di cui rischiamo di diventare poco più di una colonia.
Per "fare" la corruzione cosa ci volle? Denaro, un fiume di denaro "sporco" e...una nuova morale.
Una nuova morale per giustificare il furto, consentire di mentire agli elettori, sottrarre redditi al fisco, delocalizzare non per salvare un'azienda, ma per incrementarne i profitti, licenziando migliaia di lavoratori. Tutto in nome del nuovo valore fondante della società: il denaro. Tutto sembra ora franare, crollare… Eppure qualcosa è necessario fare. Fare?! Oh, dimenticavo: è Letta che si è, si sarebbe assunto, questo impegno. Peccato che sul suo cammino incroci sistematicamente (e sì che l'uomo non è certamente un colosso!) l'onnipresente Berlusconi che, braccato dalla Magistratura, è disponibile a togliersi dai piedi a patto che i suoi comportamenti vengano considerati peccati, ma non reati. Ma Montesquieu e la separazione dei poteri? Accantonati o "rottamati" come suggerisce un certo Renzi, comunista non ortodosso; pardon, piddino che dell'ideologia se ne fa un baffo. Lo vogliamo capire che importanti sono gli  obiettivi e i programmi?
Non riesco a essere d'accordo, se la morale cambia è da qui che dovremmo ripartire.
Se la Palma d'oro della responsabilità della crisi deve essere assegnata ai politici corrotti e all'avidità di denaro dei banchieri (ma ci sono altri premi di consolazione da distribuire a una folta platea) la politica sana - ispirata a principi di solidarietà, equità e correttezza - deve ritrovare il suo spazio e gli onesti, i tanti onesti che abitano il Bel Paese, recuperare l'orgoglio di appartenenza a quello spazio.
Mi rendo conto che ho fatto solo un tentativo, non sufficientemente approfondito, di analisi delle cause della crisi in atto e che bisogna fare in fretta, soprattutto nel campo del lavoro, ma senza  considerare prioritaria quella che Berlinguer chiamò "la questione morale"... non vedo soluzioni.

sabato 6 luglio 2013

Tutto ciò che protegge ingabbia

Gregor Samsa aspetta... lo sa che mi schianterò sul dorso.
Lo guardo e sorrido, mentre strappo all'avarizia del tempo, a prezzi da mercato nero, questo ultimo pugno di giorni.
Permetto che l'estate invada la mia casa: di calore, colore, di quella luce che soltanto i pittori riescono ad afferrare, imprigionanola nei loro quadri. La guardo danzare, sapiente, sulle pareti; la luce è femmina non c'è che dire...
Orfana di quei pini che, come corazzieri, hanno protetto il mio ultimo rifugio, mi godo il cielo che mi avevano negato. 
Tutto ciò che protegge ingabbia  - penso.
Assaporo il gusto della mia libertà intessuta di fragilità. Per sognare non si paga dazio: ho voglia di volare, è un azzurro che sembra mare…