sabato 23 gennaio 2010

Destino

"Il destino è cieco" mi disse, il primo giorno in cui lo incrociai, in quella Milano convulsa, intrico di strade e follia di ingorghi. Sembrava seguirmi, io lo controllavo con la coda dell'occhio. Forse volevo soltanto una conferma, era un periodo difficile, quello in cui una donna non è più giovane, ma non è ancora vecchia e in quel non essere si concede di esistere, per una volta fuori dagli schemi.
Poi, lui mi avrebbe detto: "Non ti seguivo; ti notai perché mi tenevi d'occhio, attenta come un borseggiatore inchiodato nella metropolitana alla borsa incautamente lasciata aperta da una signora un po' svagata".
Non mi sorprese: ora non ero più giovane, ero definitivamente e sicuramente vecchia: al posto del viso intatto una saggezza greve nella sua solidità.
" E' da tempo che il destino mi ha impietosita..."
Mi guardò, ottuso.
Gli sorrisi:"Gli prestai i miei occhi quel giorno perché ti portasse da me".
"E i tuoi?"
"A cosa mi sarebbero serviti? A guardare fingendo di non vedere? Volevo averti senza assumermene la responsabilità".
Tossì, imbarazzato.
"Come hai fatto a capire?"
Risi piano, lo vedevo imbarazzato e confuso anche voltandogli le spalle. Avrei potuto descriverlo: dalla sigaretta stretta tra le dita nervose allo sguardo incerto, alla cravatta dal nodo largo per deglutire in fretta qualunque boccone, anche il più indigesto.
"Capire che cosa?"
Sentii il suo sollievo diffondersi nella stanza mentre il tono della sua voce ritrovava l'abituale sicurezza.
La verità è greve, pesante come la saggezza, pensai. Macigni ad inchiodare i sogni al terreno. A me bastava volassero, ancora, almeno per una manciata di mesi.