venerdì 3 aprile 2009

Disamore

Quando lui l’aveva lasciata, lei aveva sofferto, ma non si era meravigliata. Si era sempre accontentata, perché riteneva di non avere diritto a nulla. Da quale melma fangosa e torbida era cresciuta in lei la certezza di non meritare nulla dalla vita? E’ probabile che si debba essere amati per poter amare. Cos’è l’amore: accudimento? Pasto pronto, trecce strette, colletto inamidato? O tutto ciò è soltanto una specie d’amore, una componente di quel sentimento di cui lei aveva fatto una ragione di vita, una fiamma che aveva tenuta sempre accesa per potersi riscaldare? Almeno un po’.
Da bambina avrebbe dato l’anima per vedere il sorriso illuminare il bellissimo volto di sua madre, l’allegria riderle negli occhi, ma non c’era stata frase o attenzione o diligente impegno che fosse riuscito ad allontanare quella tristezza, a colmare il vuoto nello sguardo che sua madre le indirizzava. Quello sguardo aveva decretato non solo la sua incapacità di farla uscire dalla disperazione ma anche la responsabilità di averla imprigionata, come un cane alla catena, a suo padre.
Era colpa sua: ancora quasi inesistente, appena un abbozzo di creatura, aveva bloccato la sua fuga. Era sua la responsabilità per quel forzato ritorno nella casa del marito e non c’erano moine che avrebbero potuto modificare la dura realtà dei fatti.
Era così che aveva preso forma in lei il mancato diritto a esistere? Aveva riempito uno spazio destinato a essere vuoto, diventando trasparente, come un miraggio. Tra sua madre e la libertà lei, ancora lei, sempre di troppo, sempre presente a ricordarle l’inutilità di ogni tentativo di fuga.
Il disamore l’aveva resa grigia dilagando sulle sue smorte guance che sua madre si ostinava a pizzicare per farla sembrare meno pallida.
Ora lo sapeva: senza amore non si cresce, si sopravvive appena e, come uno di quei gerani che, sui davanzali del ghetto, cercano un po’ di sole, un baluginio d’oro al quale le strettissime vie non concedono se non una speranza d’accesso, lei aveva cercato l’amore.
Ma come si cerca qualcosa che non si conosce?
Forse le era passato accanto, l’aveva sfiorata?
Chissà?
Non l’avrebbe mai saputo.
Il vento, infilandosi nel dedalo intricato di strade che, come ferite, incidevano il ghetto, ululava prepotente.

Sapere libero, fantasioso e critico.

La palestra risuona delle voci delle bambine e di quella, stridula, dell'insegnante di ginnastica artistica. Stanno preparando il saggio di fine anno. "Non studiano più le poesie a memoria e non ricordano i vari passaggi... non sanno più memorizzare" la sento borbottare, seccata. Le poesie a memoria le studiai anch'io negli anni lontanissimi in cui si "mandavano a memoria" oltre alle tabelline anche nascite e morti dei personaggi che avevano fatto la storia, verbi irregolari in francese e via discorrendo. Ma oggi non sarebbe più possibile: la massa delle informazioni è enorme, intaseremmo il nostro cervello di dati spesso inutili. E allora? Allora abbiamo fatto come le imprese: abbiamo esternalizzato il nostro magazzino informazioni per dedicarci a qualcosa di più fantasioso e impegnativo. I nostri giovani hanno il computer per le informazioni. Le considerazioni a cui pervengono affluiscono in Rete per poter essere nuovamente utilizzate. E' un "sapere" non statico, ma dinamico che si potenzia circolando, come avviene per la moneta fiduciaria. E' un "sapere" che ha una valenza politica perché non porta a conclusioni unidirezionali impostate su informazioni prestabilite. E' libero, fantasioso e critico.
Sarà per questo che si attacca la Rete e si tenta d'imbavagliarla?