venerdì 31 luglio 2009

Sua Santità e la RU486

Perché Santo Padre, pur portando questo nome, Lei le donne non le ama?
Capisco che come femmine possano inquietarla e sorvolo sulla questione. Per delicatezza. Ma, le donne, Lei non le ama nemmeno come figlie che, altrimenti, preferirebbe non vederle soffrire.
E, mi perdoni, mi sembra che essendosi fratturato un polso - eh sì anche i papi piangono, pardon cadono - Lei non abbia stoicamente chiesto di rinunciare all'anestesia, ma si sia avvalso della tecnologia medico/ospedaliera più avanzata. Noi, donne intendo, partoriamo già con dolore e, se la sofferenza nobilita, invochiamola per tutti, anche per i preti e per i papi.
La pillola, la RU486, si usa già in molti paesi dell'Unione Europea e, a tutela della libertà di scelta, non sarà imposta a nessuno. Lei si indigna, Santo Padre, per la morte dell'embrione e la rilassatezza dei costumi, ma non ho sentito la sua voce levarsi alta a additare il comportamento di un altro padre - più affettuosamente chiamato papi - che le donne, diversamente da Lei, le ama tutte, specie se giovanissime e bellissime.
E posso immaginare il Suo imbarazzo quando il nostro ha precisato di non essere un santo, prendendo da lei le distanze: padre, pardon papi sì, ma non santo papi. Sarebbe stato troppo anche per Lei. Capisco, Santità, perché è motivo di costante imbarazzo anche per noi, ma non s'illuda, si è salvato soltanto perché il nostro mira alto, al suo capo. Lui si sente Dio.
E, ultima cosa, la scomunica vale anche per quel presidente americano che ha sulla coscienza migliaia di bambini iracheni morti? Bambini, non embrioni, Sua Santità.
Devo dedurre che Sua Santità, pur non amando le donne, nutra simpatia per i presidenti?

La macchina americana.

E così la vecchia casa, palcoscenico privilegiato di tanti drammi e alcune commedie era stata venduta. A uno del paese emigrato, da ragazzo, in America. Erano passati tanti anni e quasi nessuno lo ricordava se non come un ragazzetto scarno, scuro, i capelli sempre sul viso a coprire gli occhi dallo sguardo selvatico, sfuggente. Aveva fatto fortuna vendendo automobili, poi aveva investito i suoi guadagni in borsa, a uollestrit o come diavolo si chiamava. Toniuzzo 'o Scaccolino aveva investito in borsa? E al paese, davanti al bancone del bar della piazza, si erano meravigliati, ma proprio di brutto, fino a pensare che quel paesano che aveva comperato la casa più bella del posto fosse un altro, non quel Toniuzzo che pochi ricordavano e che non aveva certamente l'aria di uno sveglio. Si era aggiudicato la casa all'asta e l'impiegato del Comune aveva raccontato alla moglie che l'impiegato del Catasto che aveva una nipote che lavorava presso l'Ufficio Pignoramenti e Esecuzioni del Tribunale...Be', tanto per farla breve, sarebbe arrivato alle quattro a ritirare le chiavi e a prendere possesso della casa. Chi? Lui, naturalmente: Toniuzzo 'o Scaccolino. In persona.
Tonino il barista sbirciò l'orologio. Segnava le quattro e un quarto. Non viene! - esclamò soddisfatto, aggiungendo:- Non è lui, avete capito male. Ma, mentre parlava, si udì il fruscio lieve di una frenata, seguito dal rumore di una portiera sbattuta. Il bar si svuotò: perfino Giovanni 'o ciuccio, che piuttosto di lasciare un bicchiere di vino non bevuto fino in fondo si sarebbe strafogato, era uscito a curiosare e, a questo punto, anche il barista non riuscì a resistere alla curiosità e, slacciatosi dai fianchi il grembiule, seguì gli altri sulla piazza.
Davanti all'ingresso della casa sostava una macchina bellissima, americana sicuramente! Una macchina così, non eguale ma simile, l'avevano vista soltanto al matrimonio della figlia del sindaco: bianca, candida come la sposa e, come lei, tutta infiocchettata. Era lunga, lunghissima e, nelle stradine strette del paese, ci sarebbe passata a stento. Aveva fatto bene Tonizzo a parcheggiarla nella piazza, così sarebbe stata al sicuro Avrebbero controllato loro che qualche ragazzino non ci strusciasse contro un chiodo, che la gioventù non era più quella di una volta. Era cambiata anche al paese.
Toniuzzo era già entrato, perché il portone d'ingresso era aperto, ma nessuno l'aveva visto.
Mentre commentavano a voce sommessa, si udì un rumore metallico e una delle finestre al piano nobile si spalancò, lasciando intravedere un uomo.
Toniuzzo 'o Scaccolino si voltò, lentamente, allontanandosi dalla finestra. La stanza era rimasta uguale: il pianoforte nell'angolo, il divano vicino alla finestra e le due poltrone una accanto al'altra. Come allora. Soltanto il caminetto, ora spento, quella sera era acceso, anche se lui, nonostante il calore del fuoco, ricordava il freddo pungente di quella giornata inverale, là alle pendici del Gran Sasso. Ma forse il freddo lui l'aveva avvertito quando lei gli aveva detto: "Non possiamo più vederci. Sposo Alessandro, devo salvare la casa...". Lui era ammutolito e per un istante aveva pensato di aver capito male, poi, afferrandola, le aveva gridato: "Aspettami, parto, vado in America. Vedrai diventerò ricco. Questa casa, la casa dalle novantanove stanze sarà mia..."
Lei aveva riso, con quelle labbra di miele che lui ben conosceva. "Sei povero Toniuzzo, sei povero e lo sarai sempre" gli aveva sussurrato, prima di uscire dalla stanza, l'aroma del suo profumo che ondeggiava nell'aria come se la primavera la seguisse.
Lui era rimasto lì, il cappello tra le mani, lo sguardo fisso sulla porta, e la speranza dentro che quella porta si riaprisse, facendola passare, volare fino a lui, facendole dire: "Vengo con te Toniuzzo... Partiamo". Ma i battenti si erano aperti soltanto per far passare la domestica che l'aveva accompagnato alla porta.
Uscito dalla stanza, Toniuzzo percorse il corridoio entrando in quella che era stata la camera che lei aveva occupato da bambina. L'avevano distesa sul suo letto da ragazza vestita di bianco, le margherite gialle, il suo fiore preferito, tra le mani. Si era uccisa,così gli avevano raccontato, sparandosi con il fucile da caccia del marito, quando lui era fallito, prima che i creditori mettessero la casa all'asta. In paese ne avevano parlato per mesi, poi quella morte era stata dimenticata. C'era una sua fotografia, il giorno delle nozze. Vestita di azzurro, sgomenta, più pallida dell'abito che indossava, non rideva, non sorrideva nemmeno. Lui era partito la sera stessa per Napoli e il mattino dopo si era imbarcato per andarsene in America.
Il dolore di averla persa l'aveva reso forte impedendogli di sentire la fatica, rendendolo insensibile alla solitudine che lo ingoiava, feroce, appena rientrava in quella stamberga da cui usciva alle prime luci dell'alba per rientrarci quando il sole già tramontava, in rossi cieli di fuoco sulla sua testa. Aveva il sole al tramonto lo stesso colore del pomodoro che mangiava lentamente, condendolo con un po' di sale e una fetta larga di pane. Poi restava lì, pensando a lei, alla curva dei suoi fianchi, ai seni eretti che aveva stretto tra le mani
quella sera, nella vigna viola di grappoli maturi. Non l'aveva più mangiata l'uva scura e quando la vedeva esposta dal verduraio, voltava la testa perché il lavoro, la stanchezza, la miseria le reggeva, ma la sua mancanza ancora gli faceva male.
Allungò una mano a sfiorare la fotografia.
Era arrivato troppo tardi - pensò, ma aveva mantenuto la promessa.
Si affacciò alla finestra del salotto che dava sulla piazza. Intorno alla sua macchina, come api sul miele, si muovevano cauti i paesani, sfiorandola con la punta delle dita, quasi fossero al cospetto di una reliquia.
" Paisa' che ci vuoi fare un giro?" gridò e i berretti dei paesani volarono nel cielo, alti e neri contro l'azzurro, come rondini in un cielo estivo.

Stessa spiaggia, stesso mare

Le vacanze, come i regali di Natale, mi hanno sempre immalinconita, forse perché ho la sensazione di cogliervi una forzatura, uno sforzo a essere ciò che non siamo. Quella domanda che - quando la temperatura sale e le giornate diventano interminabili - fiorisce, distratta, sulle labbra di chi incontriamo, quel "Dove andrai in vacanza?" mi ha sempre dato fastidio. Perché è, appunto, distratta e codifica un rito. Collettivo. Quasi si trattasse di "Tenere calmi gli indigeni" , i quali, di tutto avrebbero bisogno fuorché di essere tenuti sotto controllo.

La vacanza allontana dai problemi senza risolverli, forse perché i problemi vanno, o andrebbero, affrontati. La vacanza attenua il sintomo, non cura la causa del malessere. Se così non fosse, perché quei rientri stizziti, quel traffico che a settembre - lo ricordo a Milano - si incattiviva più del solito, digrignava i denti, gente nera di pelle e di rabbia, tacchi che picchiavano sull'asfalto, il conto corrente andata in rosso per conquistarsi un ombrellone sulla spiaggia ingorgata di gente come la tangenziale nell'ora di punta. Però, se rito è ne ha tutte le caratteristiche e, quindi, fornisce alibi: il tempo è stato pessimo, gli amici, con i quali abbiamo condiviso il soggiorno, insopportabili, il mal di denti, imprevisto, il tutto a giustificazione di quella inquietudine, quelle malinconie improvvise e tenaci da cui siamo stati colti a tradimento alla sera, in quelle stanze d'albergo anonime, in quei luoghi di villeggiatura che si sono improvvisamente mostrati in tutta la loro estraneità, facendoci sentire la voglia di rientrare in quel mondo da cui siamo fuggiti armati di zaino e mille progetti, qualche aspettativa e uno scampolo di libertà che siamo convinti di desiderare più di ogni altra cosa al mondo. Ma che, ora che la stringiamo tra le dita, ci accorgiamo di non saper gestire.

Forse è da qui che dovremmo partire, riflettendo sul fatto che la libertà concede scelte. E noi scegliamo? O subiamo? Scegliamo sulla base dei desideri o subiamo in base ai bisogni? Qual è la sottile linea di demarcazione che divide i bisogni dai desideri se non il nostro personale livello di libertà e autonomia personale. Solo chi è libero sceglie. E chi non lo è? Cambia: la conquista più ardua, più complessa, la sfida più difficile che la vita ci propone: il cambiamento. Il nostro, non quello di chi ci sta accanto e che non abbiamo nè il potere, nè il diritto, nè il dovere di cambiare.

Se fossimo davvero autonomi forse non avremmo bisogno di vacanze, ma, se stanchi, di riposo, se curiosi, di luoghi e/o esperienze in grado di soddisfare la nostra curiosità, se stufi del tran, tran, di una botta di novità. Insomma di tutto potremmo avere bisogno ma non della ripetitività stantia della stessa spiaggia e dello stesso mare.