venerdì 18 settembre 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Sigismondo si fermò, in bilico sul tetto, affascinato dalla vista che gli si spalancava davanti.
Dopo giorni passati come un topo in trappola a misurare a larghi e concitati passi la sua prigione, respirava a pieni polmoni quell'aria frizzante che gli regalava il profumo brusco del mare. Nel ghetto stava succedendo qualcosa: dall'alto, lasciando scorrere lo sguardo sull'intrico dei vicoli che, angusti e bui, disegnavano la sbilenca geometria del luogo, poteva cogliere maleodoranti fumi d'incendio e il rumore delle ruote di un carretto che arrivava stridente al suo orecchio. Non si udivano rumori di passi, né suoni di voci. Le finestre delle case erano sprangate e un silenzio attonito e inspiegabile gravava sul ghetto, rotto soltanto da quel cigolio che si stava facendo più forte mentre entrava nella sua visuale quell'uomo, coperto da un mantello. Dietro al carro un'altra figura d'uomo: nera, spettrale. Cosa trasportavano? Intavide, aguzzando lo sguardo, un intrico di braccia e gambe che ciondolavano quasi sfiorando i ciottoli della strada, sobbalzando abbandonati su quelle poche assi che ne reggevano il peso a stento. Sigismondo sentì un brivido di paura rizzargli la pelle mentre la porta di una delle case che davano sulla strada si apriva e nel vano si stagliava una figura femminile. Tra le braccia un fagotto. Il carro si fermava, mentre la donna a piccoli passi rigidi si avvicinava ai due uomini. Ora era lì, immobile, il velo che le scendeva dalla testa a incorniciare il volto. Uno dei due uomini le strappò il fagotto dalle braccia, gettandolo sul carro che faticosamente si rimise in moto, mentre la donna cadeva in ginocchio, i pugni alzati, contratti dall'ira, verso il cielo e quel mugolio che poco aveva di umano che si spezzava in un urlo che l'eco amplificava. Dalla porta della casa del rabbi uscì Genoveffa.
"Yael, vieni, vieni... è la volontà di Dio!"le mormorò , cercando di farla rialzare.
Sigismondo, che era riuscito faticosamente a raggiungere la strada, approffittando della confusione s'infilò nella casa e, percorso il corridoio, piombò nello studio del rabbi. L'uomo seduto dietro alla scrivania sollevò su di lui gli occhi, in cui il dolore e la stanchezza dilagavano come una marea inarrestabile, conferendo allo sguardo quel luccicchio malato, febbricitante. Appariva provato, diverso dall'uomo pacato e fermo, sottilmente astuto, che il Veneziano ricordava.
"L'epidemia stringe il ghetto in una morsa... si porta via i bambini e i vecchi lasciandoci senza futuro e senza passato, inchiodati - come un cristo sulla croce - a un presente incerto e doloroso. Oh Dio mio perchè infliggerci questa punizione? Manco la pazienza di Giobbe sarebbe sufficiente... " e s'interruppe, mentre Sigismondo chiedeva, roco nella voce che gli usciva strozzata dalla gola:" Che fine hanno fatto mie figlie, mia moglie e il Moro?"
Il rabbi lo guardò interrogativo, l'ironia che si accendeva a vivacizzargli lo sguardo:"Mie figlie? Mi risulta ne abbiate una soltanto".
Il Venziano crollò sulla seggiola: "Fingete di non capire: ho visto la donna che era venuta da voi la sera in cui bussai alla vostra porta con... con..." e la voce gli si spezzò, mentre il vecchio lo osservava. Il lume, che andava esaurendo l'olio, disegnava ombre che incupivano i volti corrucciati e stanchi dei due uomini che, come due animali pronti ad attaccarsi, si misuravano nel chiarore fumigante della lampada.

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