Il marito accanto a lei allungò una mano ad accarezzarle la guancia, distogliendola dai suoi pensieri. “Siamo quasi arrivati. Sei stanca?” le chiese.
Ludovica non rispose, intenta com’era a ricordare.
Intorno a loro il paesaggio era cambiato, mutato in quello tipico lagunare. Gabbiani si alzavano in volo, stridendo. Dopo aver lasciato la macchina nel parcheggio alle porte della città, in pochi minuti si ritrovarono nelle vie strette di quella Venezia che tanto le ricordava la geometria del ghetto che a Trieste da bambina era solita attraversare per arrivare alla casa di sua nonna. Identica la mancanza di luce, l’arcobaleno dei panni stesi ad asciugare, le rachitiche piante sugli stretti davanzali. Percorsero le calli incrociando canali che esibivano casa ferite dall’acqua, macchiate di muffa verdastra che intaccando l’intonaco ne facevano affiorare l’ossatura in pietra o mattoni. Come i santi portati a spalla tra i fumi d’incenso di una processione, la città le ondeggiava davanti agli occhi, avvolta nella nebbia che ne sfumava i contorni mentre quel frangersi leggero dell’onda, a scardinare cocciuta qualsiasi cosa ferma, vibrava nell’aria, confondendosi con la parlata molle, strascicata, rigorosamente dialettale dei suoi abitanti, quasi a voler rivendicare quel passato da gran dama che può ancora imporre le sue debolezze come scelte. Perché se l’acqua che cingeva Trieste, la sua città, era ampiezza, respiro, promessa di avventura e di fuga, a Venezia, umida e stantia, l’acqua assediava e non incorniciava, città nella città colmava i suoi canali, circondava, mormorando e sussurrando, le sue fondamenta. In quell’acqua di laguna stantia, la città si specchiava, riflettendosi con i suoi eccessi di ori, smalti, e pallidi marmi traforati come pizzi. Splendida e decadente, fondale perfetto per il gioco delle maschere e per quella cerimonia degli addii che in quella notte avrebbe sancito la sua rinuncia ai grandi spazi e la sottomissione al ruolo di moglie e madre in cambio di serenità e sicurezza.
Nell’albergo vicino al Ponte di Rialto, in quella stanza che si affacciava sul Canal Grande, togliendosi lentamente le forcine dai capelli, la gola piena di colomba che si rovesciava all’indietro sotto il peso dei capelli mentre il marito impaziente le slacciava i bottoncini dell’abito, Ludovica, inconsciamente seduttiva, si sottrasse al suo abbraccio ridendo, ma quasi cercando rassicurazioni su quel suo corpo di donna che la maternità già espropriava del suo ancora incredulo potere di seduzione.
Dopo, nella stanza in penombra, appena rischiarata dalle luci che rimbalzando sull’acqua schizzavano colori illuminando la notte, gli sussurrò: “Vieni, vieni qui…”
Lui, intento a sollevare i coperchi della cena che si erano fatti servire in camera, annusando i vapori che salivano dai piatti, le chiese “Hai fame?”.
“No, sono solo stanca” rispose Ludovica, socchiudendo gli occhi mentre, sollevato il coperchio della zuppiera, lui affondava il cucchiaio nella zuppa di funghi. Attraverso le palpebre socchiuse l’osservò vuotare un piatto dietro l’altro.
Fuori, nell’oscurità tiepida dei canali, le sagome delle gondole danzavano sull’acqua, curvilinee come fianchi di donne. Intorno a loro la città degli amanti esalava sospiri e desideri.
Era quello l’amore coniugale? (continua...)
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