sabato 19 dicembre 2009

Racconto a puntate (La vita cambia)

Tra abbracci e manate sulla schiena erano partiti, in un sussurrio di 'auguri' e 'fate i bravi' nonché un 'Dio vi benedica' sentito prima di scomparire nella macchina del marito.
Ludovica sfiorò la fede all’anulare e, dopo essersi massaggiata le caviglie indolenzite, si rilassò pensando che quel loro osteggiato matrimonio finalmente era stato celebrato. Lo ricordava bene il giorno in cui sua madre l’aveva convocata per risolvere il pasticcio che aveva combinato, l’imbarazzo per quel bambino che era ormai una certezza e, di fronte al suo rifiuto di abortire, quella frase “Qui non ti voglio” e i suoi occhi mentre aggiungeva “La gente… ” senza nemmeno darsi la pena di chiederle come stesse. Ricordava anche il silenzio di suo padre, per una volta stranamente d’accordo con la moglie e la porta d’ingresso che si era chiusa alle loro spalle con un rumore secco. Tra le due famiglie era intercorso un tacito accordo: tagliare prima di tutto i viveri ai due ragazzi, ma Giovanni era riuscito a ottenere una supplenza annuale e il parentado era stato costretto a rassegnarsi a quel matrimonio. Quando Giovanni l’aveva portata a conoscere la sua famiglia, lei era piombata in un mondo fuori dal tempo in quel paese sperduto tra le montagne, tra cimeli fascisti, parenti nobili assai e contadine ossequiose che la chiamavano con riverenza donna Ludovica facendola scoppiare in risate che risuonavano moltiplicandosi nei saloni polverosi del vecchio palazzo. La famiglia del marito aveva esibito una presunta nobiltà, aprendo i saloni del maniero – la casa dalle cento stanze, come veniva chiamata nel paese - e indicandole nei quadri alle pareti ammiragli, alti prelati, nobili di campagna e, per ultimo, meraviglia delle meraviglie, perfino un papa. Lei, studentessa triestina figlia di un comunista, nemmeno cresimata e pure incinta, piombata in famiglia con il chiaro intento, secondo loro, di accalappiare il futuro marito per entrare a far parte di prepotenza di un mondo che non le spettava, era stata considerata una vera iattura. Pur intimidita da tanto splendore, non aveva potuto fare a meno però di notare che il palazzo crollava a pezzi, sopraffatto dalle macchie di umidità nonché dalla necessità di urgentissimi lavori di restauro.
Avevano cercato di educarla quanto più rapidamente fosse possibile: a non alzarsi quando una donna anziana ma a lei socialmente inferiore entrava nel salotto per conoscerla, a non mettersi lo smalto sulle unghie, nemmeno quello rosa naturale, a non presentarsi, come aveva fatto precipitando nel più nero imbarazzo i presenti, nelle “cantine” dove gli uomini bevevano e chiacchieravano, quasi si trattasse di una pasticceria per signore. Le avevano anche raccomandato di non uscire a vagabondare per il paese e soprattutto di non fermarsi a chiacchierare da sola con uomini.
Il giorno in cui senza curarsi dei consigli ricevuti l’aveva fatto, al suo ritorno aveva trovato la suocera in lacrime attorniata dalle zie stupefatte per il suo comportamento.
Giovanni era sgattaiolato sottraendosi allo scontro lungo la scala che portava alla cantina e quando lei aveva cercato di seguirlo si era trovata davanti la zia del marito a sbarrarle la strada, la schiena sulla porta e le braccia allargate a impedirle di mettere a repentaglio la sua reputazione seguendolo nella cantina dove lo aspettavano gli amici. Non aveva dato eccessivo peso a ciò che aveva visto, limitandosi a sorridere, seccata soltanto per la scarsa attenzione che il promesso sposo le riservava, impegnato com’era a passare le serate e le giornate in compagnia dei ragazzi del luogo con i quali era cresciuto condividendone la passione per la caccia, le nuotate nel fiume e le serate di bisboccia che si protraevano fino all’alba.

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