mercoledì 15 luglio 2009

Essere donna è...

Essere donna è camminare sulla strada della vita con le scarpe strette. Le ricordo quelle scarpe di vernice nera, a punta e con i tacchi a stiletto: avevo sedici anni e era il mio primo festino. Ballavo impacciatissima, Mina cantava "questo soffitto viola, no, non esiste più..." e io controllavo l'orologio. Alle nove a casa, si raccomandava mia madre. E io cercavo di convincere mia sorella, un po' più grande di me, a seguirmi. Altrimenti...Altrimenti cosa? mi chiedeva lei, irritata, decisa a lottare e a protestare per ottenere uno scampolo di libertà.
La libertà cos'era per noi donne nate in guerra, cresciute in un Paese che usciva dal Fascismo e dall'incubo delle bombe? Mio padre, l'abilità di un equilibrista, portava l'anguria sulla bicicletta in quelle sere di settembre in cui qualche rondine ancora disegnava geroglifici neri contro il cielo che si andava incupendo.
Mia madre si appuntava fiori freschi sul colletto e rideva con quella sua bocca rossa di anguria, ma papà era severo. Molto: colletti bianchi inamidati e bocche cucite. Una parolaccia, impensabile. Ancora oggi non riesco a dirle e men che meno a scriverle.
Il sesso era prima di tutto un mistero, e subito dopo un incubo. Le brave ragazze al moroso non concedevano nulla e le date delle mestruazioni erano scritte sui calendari in cucina, indicate con fiorellini. La libertà noi donne la strappavamo con i denti, brandello dopo brandello. I ragazzi uscivano, bevevano e smadonnavano...noi ragazze guardavamo le madri, disorientate di fronte a modelli femminili inquietanti.
Il rock and roll cominciava movimentare i festini e le più spericolate, piroettando, mostravano le gambe. I bikini diventavano più ridotti.
Ricordo tanta libertà in meno, rispetto ai maschi, tanti obblighi, anche piccoli come quelle scarpe strette, i bigodini, i pantaloni soltanto per passeggiare in montagna o, al mare, quelli corti. La modestia imposta, in quell' educazione da "Piccole donne crescono", mentre già serpeggiava la ribellione, la voglia di spazi meno ristretti e quella parola libertà rimbombava dentro.
Poi il tornado del Sessantotto: la ribellione esplodeva come i fuochi d'artificio in una notte d'estate e tutto sembrava a portata di mano: la pillola a allontanare l'incubo delle gravidanze indesiderate, il divorzio (e non sarebbe stata più la morte a liberare dall'incubo di un matrimonio sbagliato) e l'aborto. La riforma del diritto di famiglia.
Avevamo conquistato tutto? Eravamo, noi donne, libere? Quanto ci volle a scoprire che eravamo cadute in altri tranelli, che eravamo finite in altre prigioni? Il dilagare dell'anoressia, della bulimia, della depressione, spie di un disagio femminile profondo, portava alla dannazione del dover essere - di nuovo e sempre - belle, magre e, ora, anche efficienti donne in carriera. Quale carriera? Quella concessa dall' istituzione delle quote rosa? La parodia della libertà e dell'uguaglianza, tanto per tenere "calmi gli indigeni"? E quei divorzi spesso, troppo spesso, pagati con la vita, ammazzate davanti agli occhi dei figli, scannate per aver scelto di chiudere un rapporto?
E, ora, la crisi. Durissima: una miscela esplosiva di inflazione e recessione a far scoprire alle donne che le prime a essere licenziate sono state loro, loro che saranno le ultime a trovare un nuovo lavoro, sgambettando da un'agenzia interinale a un'altra: ai piedi ancora...scarpe dai tacchi a stiletto. Ancora e sempre troppo strette.

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