E bravo il nostro Marchionne che seduto - quasi appollaiato come una statuaria civetta intagliata nel buio della notte - davanti a Fazio, ieri sera a Che tempo che fa, discetta, con l'evidente ma tollerante fastidio che si prova davanti a un interlocutore un po' ottuso, di impresa. Sì perché il nostro, pur laureato in filisofia a riprova del valore, da lui ribadito, del pensiero che sviscera le idee traendone ideali, emozioni e sensazioni, è un metalmeccanico, uno che fa automobili... E' uomo del fare, lavora diciotto ore al giorno, somma e sottrae numeri per produrre utili, utili non balle. Snocciola posizioni in graduatoria, percentuali e poi butta là, con la nonchalance che si addice a un uomo del suo prestigio, quell'utile operativo trimestrale non solo elevato, ma soprattutto prodotto totalmente fuori dal patrio suolo. Sì, perché il costo del lavoro, che tanto incide sull'utile operativo, è alto, troppo alto in Italia rispetto a quello della Polonia o della Serbia. E così scopriamo che sugli operai italiani grava la responsabilità primaria della crisi del settore industriale, sulla loro esosità, sullo scarso attaccamento alla fabbrica, sulle assenze ingiustificate, sulle pretese... Quegli stessi operai ai quali Marchionne ha pensato quando, opponendosi alle richieste dei suoi più fidati collaboratori, si è rifiutato di chiudere gli stabilimenti di Pomigliano, per inciso, anche per non riconsegnare quel territorio alla mafia. Fazio ascolta e oppone a Marchionne i miserandi stipendi percepiti dagli operai, l'insicurezza del posto di lavoro, gli incentivi corrisposti dal governo alla Fiat, ma le sue parole sono spazzate via da un Marchionne seccato che sottolinea come gli incentivi abbiano favorito gli acquirenti - tra l'altro pochi - di macchine italiane e solo indirettamente la Fiat, la quale nulla deve al governo con cui ha chiuso ogni posizione debitoria.
Fazio deglutisce imbarazzo e sbandiera ignoranza economico/imprenditoriale nonché sociale consentendo a un Marchionne ormai lanciato di esporsi fino a garantire un adeguamento dei salari nostrani al livello di quelli comunitari in cambio di una collaborazione - proficua per tutti - con i sindacati. Per inciso con la controparte sindacale più riottosa - quella Cgil che ancora punta i piedi e rappresenta una parte irrilevante dei dipendenti Fiat.
Poi si alza e se ne va, lasciando dietro a sé un odore fastidioso ma conosciuto: puzza di padroni.
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