Adalgisa seguiva il ritmo delle stagioni piantando insalata e pomodori in primavera e raccogliendo peperoni e melanzane, in estate, un cappelluccio di paglia in testa e il grembiule annodato a contenere i mazzi di papaveri che le regalava Lorenzo. Era uscito dal manicomio anche lui, ma conservava i tic, la balbuzie e nello sguardo una muta richiesta di aiuto che sembrava placarsi solo quando incrociava lo sguardo di Adalgisa o baciava la sua bocca, rossa come le ciliegie che d'estate le pendevano dalle orecchie dondolando nel mare nero dei capelli
Adalgisa continuava le sedute con il terapeuta perché la notte, spesso, urlava di terrore quando incubi, di cui non ricordava praticamente nulla, la risvegliavano sudata e tremante.
Una sera d'inverno, la casa immersa nel silenzio, i campi brulli appena rischiarati da una luna livida e spettrale, un lamento la scosse. Era lei quella ragazzina tremante, scalza e coperta a stento dalla camiciola che mostrava la gambe sottili dalle ginocchia puntute? Sì, era proprio lei, svegliata da un fruscio seguito a una risatina trattenuta in gola a stento. Poi qualche parola susssurrata. Con chi parlava sua madre? Suo padre, partito il giorno prima per Trieste per acquistare una barca usata era già rientrato? Adalgisa che non era una studentessa modello aveva preso un bel voto in storia e era impaziente di dirlo a suo padre. Una volta tanto avrebbe meritato un complimento.
Scivolò leggera; dalla porta appena socchiusa della camera dei genitori filtrava un filo di luce che sembrava incorniciare d'oro la porta.
La parte restante della casa era avvolta nel buio, il silenzio era assoluto.
Perché non spalancava la porta, perché accostava l'occhio alla fessura? Perché non entrava? Perché l'uomo che stava disteso sul letto aveva i capelli biondi, chiari e setosi, e non quelli ricci e neri di suo padre. Perché quel ricordo rintanato - nascosto nell'ombra più nera dove il sole non ha accesso, gli agnelli si scoprono lupi, le madri ghignano e come streghe si strappano i figli dalle viscere - invecchiato e rattrappito, l'afferrava laido arpionandola con mani adunche? Un urlo le montava dentro, le saliva alla gola. Irrefrenabile. E le mille ferite di quelle frasi alla Gisa svagata, sbadata, allla Gisa che inventa, che non ha la testa a posto, di cui non ci si può fidare, non sono più colpi inferti a vuoto. Hanno un senso: sono la tattica minuta, quotidiana, di una strategia che deve salvare la madre. A prezzo della figlia.
Ora l a Gisa è sveglia, e urla, urla tutta la sua rabbia, urla il dolore e l'ingiustizia, urla da non riuscire a calmarla. Sveglia tutta la casa.
Fuori, in direzione di Venezia, prima di schiarire nell'alba il cielo si accende di un riverbero d'oro. In città impazza il Carnevale.
La mattina seguente Adalgisa si sveglia molto presto, si veste con l'abito da carnevale, indossa la coda, si copre con il mantello e prende la maschera. Quando esce è ancora notte, il cielo è nero ma pieno di stelle che incominciano a sbiadire. Non ha paura mentre percorre il viottolo sterrato, la coda che la segue come un cane fedele. Alla stazione di Mestre, in una pioggia di coriandoli, decine di maschere invadono la banchina salendo sui treni, dirette a Venezia. Volti di cartapesta abbattono il confine tra realtà e fantasia, tutto sfuma, prende il sopravvento l'audacia, prevale l'eccesso, la voglia di sbragarsi, divertirsi e recitare in quella città che è un palcoscenico a cielo aperto, sottile intreccio di finzioni alimentate da una tradizione che la incorona da secoli regina del Carnervale.
"Una sirena così bella non può andarsene da sola" e un paggio, cortese, l'aiuta a salire. Nella carrozza si scambiano panini e risate, mentre fuori esplode il giorno facendo risplendere d'oro le cupole delle chiese veneziane. La città l'accoglie con la geometria umida dei canali e il sottofondo di voci che s'infrange sul rumore dei passi. Si avvicina, si specchia, sorride a quell'immagine di sé che si sfalda nell'acqua. Dov'é la casa del direttore dell'ospedale? Li lega una promessa; lui, salutandola, le ha detto: "Quando troverò la tua coda di sirena sul mo zerbino, capirò che sei tornata tra noi, accettando di essere una donna... Sono sicuro che quel giorno arriverà".
Prosegue, si ferma e legge la targhetta. Fa ancora qualche passo. Eccola. Sciglie il nastro che le lega alla vita la coda e la depone davanti alla porta.
Poi si volta, raddrizza le spalle e se va. Un bambino, puntando il dito sul canale grida: "Mamma, mamma guarda... una sirena".
"Non esistono" risponde la madre mentre sul filo della corrente, risaltano lucide le scaglie che l'ombra nera di una gondola cancella. (Fine)
Racconto in memoria di Franco Basaglia
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