domenica 24 maggio 2009

I Dellapicca

Avevano navigato lungo le coste per giorni percorrendo quell' Adriatico di cui la Serenissima era stata padrona assoluta per secoli e, ora, stavano entrando nel porto di Trieste: la città li accoglieva con cieli spazzati da quel vento impetuoso che arrivava fino ad Ancona e un mare ben diverso da quello veneziano: non acqua di laguna stantia che assedia e imbeve, che è muro e strada e casa, ma mare che, senza soluzione di continuità, sconfina in cieli azzurri dilaganti, estesi come una infinita promessa di fuga e avventura.
Sbarcarono in una baraonda di velieri, casse, damigiane, sacchi e uomini brulicanti come formiche operose, vocianti.
Sigismondo, rivolto al Moro, borbottò: “Fiume e Trieste ci stanno rovinando, sembra di essere a Venezia…”. Poi, con un gesto plateale, si tolse il berrettuccio che portava e fece un inchino, questo sì perfetto, mormorando: “M’inchino all’imperatrice Maria Teresa d’Austria”.
Il Moro si guardava intorno sospettoso, la bisaccia ben stretta, quasi cercasse qualcosa. Sigismondo lo guardò interrogativo:
“ Conosci questa città?” gli chiese
“Sì” rispose l’altro, aggiungendo “ Ma è cambiata da quando la vidi la prima volta, parecchi anni fa.Ci dovrebbe essere una locanda per fermarci a mangiare e riposare. E se non ci fosse il “Leon d’Oro” – ricordo ancora il suo nome – ce ne sarà un’altra."
Il Moro s’incamminò, seguito dal padrone che gli ciondolava dietro seguendolo, mentre si faceva largo nella ressa che animava il porto. Finalmente un’insegna e…un leone. No, non era il simbolo della Serenissima, era un leone rossiccio, mal disegnato che oscillava lasciando nell’aria un rumore di ferro arrugginito. Mentre entrava e si accasciava sfinito su una panca gli passarono davanti agli occhi i soffitti fastosi del suo palazzo e gli affreschi che ornavano le ville dei nobili sul Brenta, i quadri del Guardi, del Canaletto, gli scarpini di broccato, gli abiti eccentrici di velluto e damasco. Entravano uomini polverosi in brache e giubba, che si accasciavano sulle panche dissetandosi rumorosamente. I tavoli, ingombri di boccali vuoti erano sporchi e infestati dalle mosche. Anche a Venezia aveva visto bettole simili, ma frequentarle era stato un gioco, da farsi mimetizzato dietro la bautta, con un velo applicato sotto il tricorno a coprire il viso. Era stato divertente sdoppiarsi, triplicarsi come in un gioco di specchi, nelle settimane dedicate al Carnevale, ma ora qualunque specchio gli avrebbe rimandato soltanto la squallida immagine di un fuggiasco all’apice della disperazione. (continua...)

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