venerdì 19 giugno 2009

I Dellapicca

Calava il sole sul mare in quella sera d’estate e Sigismondo e il Moro bevevano uno alla salute dell’altro, soddisfatti dalla piega che stavano prendendo i loro affari. Il Moro si era rivelato un ottimo capitano, conoscitore di tempeste e di uomini, coraggioso senza essere temerario, freddo nel prendere le decisioni ma, allo stesso tempo, capace di calarsi, quasi la riconoscesse, nella sofferenza o nell’angoscia dei suoi uomini. Uomini strani i marinai: poco amanti delle regole, incuranti della sicurezza, e capaci, in certe sere di bonaccia, d’intravedere tra acqua e cielo, dietro una coltre di nebbia, vele vuote di vento e di voci. Il Moro, per far credere ai suoi uomini di essere sotto l’effetto dell’alcol, li metteva di guardia in compagnia di una fiasca di rum, perché lui, che aveva passato la vita in mare, più di una volta aveva avvistato spettrali velieri, carichi di cadaveri, navigare veloci come se gli equipaggi fossero ai remi. In quelle sere di bonaccia, in cui gli uomini cantavano canzoni d’amore, sottolineate dal suono del clarino che illanguidiva i ricordi tingendoli di rimpianto, il Moro si chiudeva nella propria stanza, i pugni contratti, gli occhi, fissi sulla parete, che s’incupivano…
Sigismondo alzò il boccale, piacevolmente stordito dall’alcool e voltandosi verso il locandiere borbottò: “Brindo alla vostra bellissima figlia e al fortunato che se la sposerà”. L’oste ridacchiò alzando il bicchiere che l’altro gli aveva riempito. Il Moro taceva concentrato sulla tenda che si era scostata lasciando intravedere qualcuno che spiava. Maria occhieggiava, lasciando scorrere lo sguardo su Sigismondo che, alto e sprezzante, alzava il bicchiere continuando a fissare la tenda dietro la quale lei si riparava. Perché quell’uomo, nonostante quello che era successo, continuava a frequentare il locale? Cosa voleva? Si vociferava che lui e il Moro fossero molto abili nel trattare gli affari e che si stessero arricchendo. Il Veneziano, come veniva ormai da tutti chiamato, stava ampliando e arredando la casa in cui viveva. In giro, si diceva che avesse ricavato un salone, rilucente di specchi e ori,dal vecchio magazzino e che avrebbe dato una festa, cogliendo a pretesto il Carnevale, con l’obbligo di presentarsi in maschera e su invito. Sigismondo, al bancone, poco dopo salutando l’oste gli allungò un invito. “ Sarei onorato di avere nella mia casa, che inaugurerò a Carnevale la vostra splendida figli e …sua madre, naturalmente” mormorò, prima di uscire, un po’ malfermo sulle gambe, dal locale, seguito dal servo, la veste di seta nera che frusciava a ogni passo e lo spadino che s’intravedeva quando nel passo, come ali di rondine in volo, la veste si apriva, scostandosi dal corpo.
(continua…)

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