martedì 25 agosto 2009

Romanzo a puntate I Dellapicca

Avevano mangiato, ballato e bevuto per tutto il giorno e per buona parte della notte. Ora, nella casa dello sposo, la stanchezza cominciava a segnare d'ombre i volti degli invitati e dei musicanti che si succedevano a rotazione, dando però, ormai, segni evidenti di stanchezza. Molti ciondolavano sproloquiando tra loro, stravaccati sulle sedie, aggrappati all'ultimo bicchiere di grappa, mentre dalle finestre s'insinuava la prima pallida luce del nuovo giorno e il profumo del caffè turco si diffondeva nell'aria. Soprattutto gli uomini ne scolavano, tazzina dopo tazzina, grandi quantità per ridare forza alle gambe che l'alcool aveva infiacchito.
Daviça si avvicinò al marito, che stava chiacchierando con un vicino di casa che lavorava alle sue dipendenze, il figlio addormentato appoggiato sulla spalla. Il fratello più giovane del marito, impaziente , li attendeva già sulla porta. Blanko le tolse il bambino di dosso, rassicurandolo con un paio di carezze, poi, salutati i padroni di casa, si avviarono uscendo poco dopo all'aperto. Il cielo, a Oriente, schiariva e l'aria, fredda e tersa, anche se la primavera era ormai avanzata, risuonava del canto degli uccelli. Poi, quel rumore: appena un fruscio seguito dal suono secco che produce un ramo spezzato e sul sentiero, che curvava costeggiando il bosco, apparvero i Sokol. Alti, le gambe allargate e piantate al suolo come tronchi d'albero, i pollici infilati nella cintura...
Daviça già prendeva Zastros, la voce del marito che le rimbombava nel cervello "Scappa, scappa... il bambino". Intorno a lei il fogliame fitto come un mare verde e negli occhi un balenio d'acciaio. Coltelli, di nuovo coltelli che il sole nascente faceva brillare, coltelli a pareggiare i conti con il sangue, a lasciare vedove e orfani. Non piangeva Daviça, aveva sempre saputo che sarebbe successo. Ancora pochi passi: il sentiero deviava a sinistra e la casa era, ormai, a pochi passi. Le aprì sua madre. Le parole non servirono; lo sguardo atterrito urlava ciò che la gola non osava pronunciare.
"Dove?" Suo padre con il cognato, i fucili tra le mani "Dove?" le ripeteva. "Alla prima curva del bosco". Era la sua voce quella? Era Zastros che piangeva tra le sue braccia? A Daviça sembrava che gli uccelli avessero smesso di cantare. Sua madre pregava, a tratti malediceva.
La giovane donna, poi, seduta nella cucina ancora in penombra, le mani abbandonate in grembo, cominciò ad aspettare, mentre il suono di una civetta, lugubre, infrangeva il silenzio.
"La civetta ha cantato" mormorò la vecchia e spense il lume.
"La civetta ha cantato con il cielo già chiaro" continuò, scuotendo il capo. Daviça non le rispose. Li rivedeva i fratelli Sokol, alti e biondi, passeggiare davanti alla chiesa ortodossa. Sputavano per terra quando lei passava e la paura era più forte dell'umiliazione. Si rivide al matrimonio: i fiocchi lucidi che svolazzavano nel vortichio della danza e le braccia del marito che l'afferravano, cingendola. Proteggendola. Tese l'orecchio: solamente il borbottio dele preghiere insolentiva il silenzio là nella casa di pietra dal tetto di ardesia che il sole, ormai alto, faceva brillare.
Lontano, dove la collina si abbassava e la terra incontrava il mare s'intravedeva all'orizzonte un veliero. Sul pennone più alto sventolava la bandiera con l'aquila a due teste della Marina austriaca.

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