giovedì 15 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°12)

Mia madre conosceva Gloria e sapeva, doveva sapere qualcosa di quel maledetto anello.
Gloria mi aveva strappato una promessa: sarebbe venuta il giorno dopo a casa mia e l'avremmo cercato.
Guidavo assorta, scendendo lungo la strada a tornanti che si perdeva tra prati e vigneti. Qualcosa affiorava lentamente dalla mia memoria, immagini confuse mi passavano davanti agli occhi: piccola, la mano stretta in quella di mia madre attendevo l'arrivo di un treno. La guerra doveva essere finita da poco, perché, oltre il muretto pericolante che delimitava la stazione, spuntavano le sagome sbilenche di alcune case bombardate; su una parete, messa a nudo da uno squarcio, qualcosa pendeva: forse una Madonna appesa, storta, sopra un letto...
Poi quell'estraneo dalla barba ispida che mi sfregava la guancia, il sobbalzare del suo torace contro il mio, mani adunche, odore di sudore. Aspro. Nel vocio si perdevano i singhiozzi. Dal treno erano scesi uomini magrissimi, pallidi, alcuni in barella. Mio padre piangeva. Mia madre non parlava: io ero già tornata tra le sue braccia, al tepore e al profumo rassicurante della sua pelle quando lui aveva allungato le braccia per abbracciarla. Tra lei a lui, io, da quel momento e per sempre. A dividerli legandoli, un trait d'union che avrebbe condizionato la mia vita.
La sera, io sbattuta nella mia stanza, dopo che per mesi avevo dormito con mia madre, avevo sentito le loro voci levarsi stridule, quel pianto femminile...
Il mattino seguente, mia madre mi aveva sussurrato, prendendomi in braccio per portarmi in cucina, mentre tentava di coprire con la mano un livido sotto lo zigomo:
"Papà ha sofferto molto, dice delle cose cattive alle quali non devi credere: non è lui che parla... sono state la guerra e la prigionia a renderlo pazzo".
E poi... l'anello. Ricordavo quel pacco che volava nel muro e mio padre che gridava, gli occhi inferociti, folli, e quello sguardo che passando dalla rabbia alla paura, spaventava ma anche impietosiva. E quello sarebbe stato il registro emozionale che avrebbe poi ritmato i nosti rapporti: paura e rabbia, sempre e solo qesti due sentimenti. Ricordavo la porta che sbatteva mentre bestemiando usciva di csa. Mia madre si era chinata a raccogliere il pacco, aveva sciolto il nodo. Conteneva un pezzo di pane raffermo, ammuffito, il camicione a righe dei prigionieri e, in una tasca, avvolto in uno straccetto quell'anello. Lo aveva infilato, le stava largo, l'aveva rigirato sull'anulare, impietrita. Si era avvicinata alla finestra e guardando all'interno dell'anello, era sbiancata.
Io l'osservavo.
Dopo essersi staccata dalla finestra era crollata a sedere su una seggiola, senza dire più una parola. Mi ero avvicinata cercando il suo sguardo, ma lei sembrava non vedermi, sembrava guardare al di là del mio viso impaurito. Aveva un'espressione strana che mai le avevo visto: piangeva, ma i suoi occhi erano splendenti, scintillanti, la bocca piena e grande aperta al sorriso, come se una luce le si fosse accesa dentro illuminandola.
Si era tolta l'anello appoggiandolo sul tavolo. Io avevo sbirciato al suo interno; certo che ricordavo il nome che portava inciso: c'era scritto Bianca e una serie di numeri.
Bianca era il nome di mia madre. (continua...)

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