mercoledì 11 agosto 2010

Morire è volare

L’ambulanza sembrava scricchiolare, quasi stesse gemendo in un ballonzolare di oggetti appesi che sbattevano e cigolii che produceva la barella, tutta ruote rientranti e leve e levette che avevano impegnato - e non poco -  i barellieri. Erano ragazzi: due maschi e una femmina. Erano giovani, disponibili, quasi affettuosi, soltanto che stavano diventando quasi violacei… e lustri. Di sudore?
Parlavano al telefono con un medico: sembravano rispondere alle sue domande dando dati numerici. Variabili, misteriosamente variabili, pericolosamente variabili. Ora lo capiva anche lei che qualcosa non stava andando per il verso giusto: il senso di soffocamento aumentava, cresceva il peso sul torace, come se vi si fosse assiso uno di quegli obesi più larghi che lunghi che ormai si vedono un po’ dappertutto.
“Che giorno è oggi?”
Perché le faceva una domanda cretina: era malata non deficiente. Provò a rispondere: le labbra sembravano incollate, e l’aria, l’aria dov’era?Scarseggiava, si andava rarefacendo, dalle labbra le uscì un sibilo e quella richiesta – aria –la capirono dalla sua faccia, affiorò nei suoi occhi che seguivano quanto stava accadendo con crescente paura.
Le misero la mascherina sul viso e iniziarono a pompare ossigeno. Non bastava, non respirava quasi più, stava provando formicolii fortissimi  agli arti.
“Resista” a lei.
“Non sentiamo il polso” al medico con cui comunicavano via telefono.
Altri numeri, ma ormai non capiva più molto, erano i messaggi che le arrivavano dal corpo quelli che stava seguendo.
Gelo: saliva dalle gambe, aveva freddo, tremava e batteva i denti, non respirava quasi più…
“Apra gli occhi! Apra gli occhi…” a lei.
Altro dato numerico e una soffiata di ossigeno le gorgogliò sulla faccia.
“La stiamo perdendo!” al medico, all’autista, alla collega cianotica che le cercava il battito sulla gola E a lei!
Perdendo dove? Si era aperto lo sportello? Forse, dato che ora stava bene, benissimo. Volava come un uccello in gabbia in quell’ambulanza che, a sirene spiegate, si mangiava l’asfalto.
I ragazzi le davano sberlotti urlando: “Resista, siamo arrivati. Apra gli occhi, apra gli occhi, ma lei non li sentiva più, non aveva la minima intenzione di rientrare in quel corpo abbandonato sulla barella, le braccia penzoloni, il colorito da spettro.
“Oplà”, ora se la palleggiavano? Non solo, le toglievano i vestiti, le infilavano aghi e la sberlottavano  sollevandole le palpebre sotto una luce cruda e forte che spioveva dall’alto.
“Cosa è successo?”
Il dolore è tornato: la assale, la aggredisce da ogni parte, la stana dal cielo, le taglia le alucce appena spuntate, la morde alla gola, le rintrona nel cervello.
E viva! E dolorosamente, inequivocabilmente, dannatamente viva. Di nuovo.

2 commenti:

  1. ...e tutto passa dalla vita, da quel dolore muto, malinconico ma crudele che ci tiene legati mentre chiede di lasciarci andare. ma dove? forse in un luogo dove non c'è tristezza, sconforto, amarezza, quella sensazione di impotenza che ci accompagna se non abbiamo la risposta certa, se non sappiamo quale porta aprire. ma quel luogo è dominato dall'assenza, sì, anche di dolore, ma soprattutto di ogni possibile colore, odore, rumore, sensazione. resistere è una scelta, ma anche un impegno, quasi come mantenere con onore la parola data.
    un abbraccio
    s

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  2. Ti farà ridere, ma "resistere" è diventata addirittura un'abitudine.

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