La malattia di Parkinson si manifesta (di solito) intorno ai sessant'anni, anche se, disgraziatamente, colpisce persone sempre più giovani. Si presenta con sintomi vaghi: astenia, tremore, impaccio, lentezza nei movimenti. Frequentemente
un sessantenne si scopre in crisi, tanto più se quella vecchiaia che improvvisamente
si erge sul suo cammino si accompagna alla sintomatologia sopra descritta.
Va dal medico, prende vitamine, partecipa a una gita organizzata,
redige bilanci… Ma i disturbi aumentano. Il medico di base gli prescrive prima gli
esami di routine, poi, visite specialistiche: fisiatra, ortopedico,
reumatologo. Passano i mesi… un anno, due. Alla malinconia si associa l'ansia;
in famiglia si parla ormai apertamente di «paturnie». Da menopausa. Il medico, con piglio professionale, usa il termine depressione. Poi, se Dio vuole (si fa per dire), arriva la
diagnosi corretta: malattia di Parkinson. Degenerativa, progressiva. E' tanto
strano, è anomalo che la tristezza si colori di disperazione e l'ansia diventi panico? Il
medico di base, leggendo la diagnosi del neurologo, aggiornerà la cartella
personale... Da quel momento però la depressione, indipendentemente dal nostro
sentire, sarà data per scontata e «curata» con psicofarmaci.
Non c'è pillola che possa far accettare una patologia come
il Parkinson; ogni malato imboccherà una strada personale elaborando con lentezza e fatica la perdita della salute e dell'autonomia; a volte con l'aiuto dei
familiari, a volte con quello della fede, alternando bestemmie a pianti, negazione a ironia, speranza nella ricerca a delusione.
Personalmente vorrei restare «lucida», e, soprattutto, desidererei poterne
parlare con il mio medico: senza imbarazzi, con sincerità. Anche perché gli
effetti collaterali che si accompagnano alla «calma chimica» sono pesantissimi.
Peggiorano, infatti, la patologia parkinsoniana e - volete ridere? - provocano
attacchi di panico, perdita di memoria, deficit d'attenzione, confusione
mentale, allucinazioni… E allora, come diceva qualcuno: lasciamo fare alla vita
(pardon: al Parkinson) questa ultima fatica.
Le case farmaceutiche che hanno trasformato in malattia la vivacità infantile, il disinteresse (spesso comprensibile) scolastico, la svagatezza dei sognatori, per incrementare profitti miliardari, hanno tutta la convenienza a ingabbiare anche il dolore dell'anima, di cui la
vita è colma, nelle maglie strette della patologia. E' normale che patologie neurologiche devastanti siano vissute con tristezza, rabbia, malinconia. Il dolore del'anima non è una patologia da curare rincoglionendosi con pillole colorate. E' un'emozione: da trattare con rispetto e umana,
umanissima pietas...
Non mi sento di commentare questa pagina che mi pare stilisticamente "perfetta". Mi ha suscitato un turbamento e un'emozione che non trovano parole. Tra l'altro mi ha riportato alla mente l'ultimo anno di mio padre, malato di un'altra malattia dell'anima, della sindrome di Alzheimer che progressivamente toglie - con la memoria - l'identità. Aveva perso abilità elementari oltre che conoscenze fondamentali, si mostrava ed era spesso stravolto da allucinazioni e attacchi di panico, ma un barlume d'intelligenza gli restava per rifiutare e nascondere il potente farmaco per la psiche, la mezza compressa di tranquillità garantita (più per gli altri, credo, che per lui). La manteneva in bocca senza ingoiarla quando gliela si somministrava accompagnata da un bicchiere d'acqua, poi con la mano la nascondeva in una sorta d'anfratto sotto il divano. Quando cominciò a non levarsi più dal letto, per trascorrervi le terribili ultime settimane tra incubi, piaghe di decubito e sofferenze anche maggiori, se ne trovarono a decine di quelle mezze pillole.
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