martedì 16 giugno 2009

La diversità è ricchezza

Nel mio post precedente rispolvero ricordi d’infanzia e nel farlo, mi colpisce quell’immagine di ragazzina che non leggeva i quotidiani, che si annoiava assistendo a Tribuna Politica.
Era considerata “roba da uomini”, come il calcio, fare a pugni, o smadonnare.Le studentesse leggevano “Grazia”, le sartine e le commesse fotoromanzi.
Come viveva negli anni Sessanta una ragazza di estrazione piccolo borghese, in una cittadina di provincia?
Beh, devo dire che ciò che mi rendeva particolarmente diversa era la presenza di quel padre, così ingombrante in tutti i sensi. Troppo diverso dagli altri padri e incredibilmente severo, non disponibile a concedere, a me e mia sorella, la minima libertà a meno che le nostre richieste non avessero alla base una valenza culturale.
Andare a un festino - si facevano in casa con quattro aranciate, qualche panino e il giradischi - era un’impresa epica. Valenza culturale: inesistente. Permesso di andarci: negato.
I maschi uscivano, le femmine, blindate.
Capii in quegli anni quanto il modo di vivere la sessualità, che mi sembrava eguale, fosse diverso. Poi l’università: laurea in economia e commercio, matrimonio e nascita del primo figlio. Ai colloqui di lavoro, storcevano il naso sentendo che avevo un bambino. La mia famiglia era lontana, mio marito lavorava all’estero. Cercai un lavoro che mi consentisse di conciliare …l’inconciliabile: maternità e professione. Avrei scoperto, anni dopo, che le poche donne che si erano laureate con me avevano “scelto”, in massa, l’insegnamento.
La maternità aveva istituzionalizzato la diversità: la disparità era aumentata a dismisura. Nato da un uomo e una donna, mio figlio fu allevato da un genitore soltanto: è facile immaginare quale. Battagliai per il secondo, chiedendo aiuto e collaborazione. Con il terzo figlio subentrò la rassegnazione.
Mi sentivo tradita …e non era soltanto una sensazione.
Il marito aveva fatto carriera, lui; era sempre in giro per il mondo, lui, mentre io percorrevo in lungo e in largo il perimetro della mia casa prigione. Una sera, complici la stanchezza di troppe notti perse e la luce tenue del comodino, nello specchio mi sembrò di vedere mia madre. Il cerchio si chiudeva intorno a me: ero di nuovo prigioniera. I tradimenti divennero spudorati, appena venati d’imbarazzo.
Io tacevo e pativo.
Mio marito mi guardò sorpreso, vagamente seccato, quando gli comunicai la mia decisione di andarmene. Pensava che con tre bambini piccoli non ce l’avrei fatta.
Si sbagliava.
La dura scuola alla quale ero cresciuta mi salvò. Ma ce la feci perché, vissuta in un ambiente politicizzato, avevo coscienza dei miei diritti, ero economicamente autonoma perché lavoravo, la laurea mi aveva dato una preparazione che mi permise, quando il mio ex marito non pagò più gli alimenti, di investire in borsa, uscendone prima del disastro.
Fu durissimo e senza la protezione familiare (mio padre era morto, mia madre non aveva approvato la mia scelta di separarmi, indicandomi la via della sopportazione e/o rassegnazione) mi resi conto di quanto fosse difficile vivere la condizione femminile, senza un uomo accanto e con tre figli piccoli. La ventata di libertà del ’68 , la speranza di poter avere “tutto e subito” non era più nemmeno un borin…
Le donne della mia generazione, avendo conquistato il diritto di divorziare, abortire, vivere la propria sessualità, hanno avuto una facoltà di scelta che le madri non ebbero, ma il filo rosso della continuità tra le generazioni, impostato sull’accettazione, la rinuncia, il sacrificio femminile connessi alla dipendenza, anche e soprattutto economica, si era spezzato. Avevamo scelto di non identificarci in modelli femminili che consideravamo perdenti e per molte la lacerazione dalle madri, che si sentirono spesso tradite, fu pesante. Il buon senso, la saggezza femminili, noi che avevamo vissuto il ’68, li avevamo gettati a mare, crescendo le figlie in modo nuovo, diverso, muovendoci su un terreno sconosciuto. La complicità, che si espresse nella sorellanza, fece emergere l’invidia femminile, i piccoli ambigui giochi di potere di chi non avendone, era stato abituato a tramare nell’ombra. Queste figlie senza padre, con madri impegnate nel lavoro, hanno avuto, diventate adulte, non pochi problemi. Nonne e madri contrapposte e spesso in aperto conflitto provocarono perdita di radici comuni e, quindi, di sicurezza, difficoltà a identificarsi, ma anche a separarsi acquisendo una individualità autonoma. Il tutto in un tourbillon di nuovi compagni e compagne dei genitori che, allargando le famiglie soltanto in senso quantitativo, toglievano loro spessore. Il femminismo ci aveva dato molto, ma ci aveva lasciate anche con le ossa rotte, frantumate in pezzi che non si sarebbero mai fusi del tutto.
C’è una specificità femminile che ci rende diverse, profondamente, dagli uomini e questo primo limite del movimento femminista, che ci voleva trasformate in maschietti secondo un ingenuo concetto di parità, io ( come molte altre donne) l’ho vissuto sulla mia pelle e dolorosamente.
Il nocciolo duro della diversità è la maternità, che ha ben poco a che fare con la paternità. C’è una sessualità che ha una valenza emotiva diversa più esigente e coinvolgente. Noi siamo madri anche se non abbiamo figli, siamo intessute di maternità, così come i maschi pensano e agiscono in funzione della sessualità. Al di là del mondo maschile, logico e razionale, non c’è il vuoto, c’è un’altra cultura, legata alla natura, al corpo, a tempi biologici stringenti che ritmano un altro mondo, quello femminile, che non è inferiore, è soltanto diverso.
Ma il potere, quello economico/finanziario, è nelle mani dei maschi. Saldamente. E qui la diversità diventa inferiorità. E, a questo punto, nella attuale realtà economico/sociale di grande crisi, questa inferiorità alza un muro davanti alle donne, che sono le prime a perdere il posto di lavoro e le ultime a trovarne uno nuovo.
La tregua che sarebbe potuta nascere, capendo finalmente che la diversità non va combattuta, ma accettata e valorizzata, che non deve far paura, ma incuriosire, che non è scarsità, ma ricchezza, si è rotta nuovamente tra maschi e femmine. Questo è un altro pesante problema che possiamo addebitare alla crisi e non è un problema da poco.

lunedì 15 giugno 2009

Risposte

Prima delle elezioni europee e amministrative, ho posto a me stessa e ai miei lettori una serie di domande alle quali tenterò, per evitare comportamenti alla Berlusconi, di dare una risposta, anche se necessariamente soggettiva.

1° - Sono nata a Udine, ma da parecchi anni, quando qualcuno mi pone la domanda “ Di dove sei o da dove vieni?”, io rispondo “Sono triestina” con molto orgoglio e una punta di malinconia, perché in quella splendida città non vivo più da molti anni. Se qualcuno mi chiede “Sei italiana?” ho invece un’esitazione che spesso mi induce a rispondere “Quasi…”
Trieste ha una storia complessa che fa parte di me, alberga nei miei geni e mi ha fatto sposare un abruzzese di madre spagnola e nonni napoletani, nonostante nonna Angelina alla presentazione in famiglia dell’abruzzese avesse scosso la testa borbottando “ Moglie e buoi dei paesi tuoi…”.
Quali paesi sarebbe stato interessante da scoprire essendo io il risultato di una mescolanza di friulani, istriani, croati e dalmati. Posso dire che i nostri figli, miei e dell’abruzzese, con questi diversi apporti alla radice, sono venuti piuttosto bene. Ho sempre ritenuto la diversità una ricchezza, sono cresciuta, a mio completo agio, tra lingue e dialetti differenti e l’unica appartenenza che mi riconosco è a questa terra ventosa e aspra, che non mi ha nemmeno vista nascere, e che, per prima, non ha un’appartenenza. Terra che non è crogiolo di razze, ma soltanto convivenza di razze, a volte astiosa, a volte infastidita, ma che alla fine dà il vero volto alla città, che è un Giano bifronte riflesso in un mare che a sua volta raddoppia o quadruplica l’immagine che trasmette. Ho scritto a mio completo agio, forse sarebbe stato più corretto dire con un disagio sottile e costante che è diventato alla fine l’essenza del mio interagire con i luoghi. Credo di essere caratterialmente una zingara, che ha sempre privilegiato l’andare allo stare, e, ora che problemi di salute mi inchiodano a un luogo, continuo a vagabondare con la fantasia, andando a zonzo per il mondo grazie a quella settima meraviglia tecnologica che è Internet. Da ragazza feci uno stage in Francia, passando parecchi giorni a Parigi e mi trovai benissimo. A Londra o in Danimarca, in Austria o Svizzera mi sentivo a casa, ma semplicemente perché la “casa” per me è sempre stata il luogo in cui piantavo le tende nel mio peregrinare di città in città. Quello che mi fa sentire sicura è avere accanto le persone che amo e i miei libri.
L’appartenenza è legata al posto con cui si entra in sintonia, quello che, idealmente, si sceglie come proprio, consci, però, di essere cittadini del mondo. Posso capire la nostalgia per i propri luoghi, ma rimango basita davanti agli atteggiamenti alla Bossi & Co.
Le camicie verdi mi spaventano non poco perchè mi ricordano altre camicie...
La diversità non rassicura, ma arricchisce, e arroccarsi nel proprio castello, alzando il ponte levatoio, oggi sarebbe anacronistico, prima che stupido.
I bambini che nascono da incroci di razze non sono forse i più belli? Guardate i brasiliani.
Pardon, le brasiliane. E, dopo, se non siete convinti, guardate i leghisti, anche soltanto i loro rappresentanti. E ascoltateli anche...Pura razza padana?Technorati Profile

domenica 14 giugno 2009

Televisione, amore mio

Le favole di tutti i paesi parlano di un pifferaio magico, di una malia che diventa mania collettiva e incanta, ipnotizza, rende dipendenti. Affidarsi è maledettamente comodo. Come credere alle favole. Le ultime elezioni – secondo i dati Censis – hanno visto il trionfo dell’informazione televisiva che ha determinato la scelta di voto del 69,3 per cento degli elettori, con percentuali ancora più alte tra i meno istruiti, le casalinghe e i pensionati.
Questo è il primo dato inquietante che emerge dall'analisi.
Tenendo conto dell’astensionismo elevato, delle schede annullate di fatto e di diritto (quelle sotto il 4 per cento) , una vittoria ottenuta con il 35 per cento del Paese mette anche in discussione il consenso plebiscitario del presidente del Consiglio.
Scoprendo inoltre che un quarto degli elettori si è formato un’opinione sui giornali, si comprende meglio l’accanimento contro la carta stampata, colpevole di rompere l’incanto, riportando la politica a quello che è, o dovrebbe essere: ponderazione, proposte, decisioni maggioritarie volte a risolvere i problemi del Paese.
C’è poi un irrilevante 2,3 per cento di elettori che si è informato su Internet: dato numericamente basso, ma greve. Si potrebbe dire: pochi ma buoni. La prudenza non è mai troppa e i nativi del web stanno crescendo, con cervelli diversi e telecomando incorporato nel pollice, incantati da melodie a base di bip, bip. E’ già in Parlamento un disegno di legge per zittire anche loro, anche se in questo campo l’ignoranza, anche informatica, dei politici, ci dà un vantaggio operativo.
Demonizzare la televisione è tempo sprecato: insegnare a coglierne le astuzie, mettendo a nudo il pifferaio, potrebbe rompere la malia, spezzare l’incanto. Chi potrebbe farlo? Secondo me la scuola, anche se questo corpo docente, poco pagato, frustrato e reso vagante e incerto dal precariato, è più che un esercito un’armata Brancaleone…ma le donne, che sono la struttura portante del corpo docente, sono abituate a cavarsela con poco. Se i docenti diventassero il cavallo di Troia della situazione?

sabato 13 giugno 2009

I Dellapicca (desiderio)

E così, mia cara Mielita, Sigismondo si mise in affari, instaurando con il suo socio uno strano e ambiguo rapporto. Il Moro infatti gli era indispensabile perché lui non era in grado di fare nulla se non protestare su tutto, lagnarsi costantemente di qualcosa e rimpiangere il mondo nel quale era nato e cresciuto. Allo stesso tempo, però, la vita gli aveva offerto l’opportunità di vivere un cambiamento, di misurarsi con difficoltà per lui impensabili. Era sempre arrogante, perché nel suo mondo l’arroganza si succhiava con il latte materno, ma, essendo un uomo intelligente, aveva cominciato a riflettere. Lo incuriosiva la personalità del Moro, era affascinato dalla sua forza, dal coraggio e dalle capacità di quell’uomo che gli avevano consentito di ricominciare a vivere e che, ora, gli stavano permettendo anche di arricchirsi. Anche Sigismondo però serviva al Moro. Il mondo cosmopolita triestino che ruotava intorno al porto, formato da disgraziati che venivano reclutati come equipaggio sulle navi, ma anche da un ceto che stava emergendo assumendo le caratteristiche di una nascente e ricca borghesia, si inchinava ancora davanti a quell’uomo che proveniva da un ambiente di cui si sparlava, che si disprezzava, ma che essendo proibito era comunque oggetto d’invidia. Sigismondo, per intenderci, era uomo di rappresentanza e, quando si trattavano affari di un certo livello e era necessario ben figurare, era a Sigismondo, al Conte Dellapicca, che ci si rivolgeva.
Non viveva più alla locanda e si era trasferito con il Moro in una casa dalle parti del porto: un ex magazzino, che era stata ristrutturato alla meno peggio, ricavandone un appartamento al piano superiore, un deposito e ricovero merci e un ufficio, al pianterreno.
Sigismondo, nonostante i suoi ripetuti tentativi di prendersi Maria, anche con la forza, di prepotenza, come gli era sempre sembrato naturale nei confronti di una donna che non fosse del suo ceto, non era riuscito più quasi neppure a vederla. “Aveva forse raccontato qualcosa alla madre?” pensava il veneziano, spiando oltre la tenda, che separava quelle due stanze in cui viveva la famiglia del proprietario della locanda. Maria non si vedeva quasi più e sua madre lo guardava, il viso pieno e un po’ ottuso che assumeva un’espressione ambigua con le labbra atteggiate al sorriso e gli occhi sospettosi e foschi.
Ma a Sigismondo non era mai capitato di non avere una donna che in qualche modo lo avesse attratto. O con le moine e i giochi da cicisbeo, o con le carnevalate e i costumi sontuosi, i regali e lo sfoggio di tutto il suo sapere di uomo colto e di mondo, le aveva sempre avute tutte e, ora, quella ragazzina povera, ignorante, che inaspettatamente gli aveva tenuto testa dimostrandogli di possedere oltre a quella inquietante bellezza, anche un notevole carattere, gli era entrata nel sangue.
Per la prima volta nella sua vita desiderava qualcosa senza riuscire ad averla. Non riusciva nemmeno a vederla, a parlarle. “E’ una ragazzetta qualunque” pensava “non vedendola lavoro di fantasia, mi invento una donna che non c’è, la adatto ai miei desideri” ma, quando improvvisamente, dopo molte visite a vuoto nella locanda, gli si parava davanti, restava basito a guardarla con la sensazione che diventasse ogni giorno più bella. Si cominciava a favoleggiare in città sulla bellezza della figlia del locandiere e molti l’avevano già chiesta in moglie, ma ricevendone in risposta dal padre un sistematico rifiuto.
(continua...)

venerdì 12 giugno 2009

Non potendo imbavagliare le coscienze, si imbavaglia l’informazione?

Tra i miei ricordi d'infanzia, oggi, mi viene spontaneo ripescare l'immagine di mio padre che, in bicicletta, tornava dal lavoro per l’ora di pranzo; in tasca, immancabili, due quotidiani: L’Unità e Il Corriere della Sera. E, dopo aver mangiato, si trincerava dietro al giornale che mia madre non si sarebbe mai sognata di leggere, anche se ascoltava i commenti, spesso arrabbiati, qualche volta furibondi, di mio padre. Era così che noi tre donne di casa, mia madre, mia sorella e io, venivamo informate sui fatti del giorno. Ho chiarissimo questo ricordo, così come rammento di non avere mai aperto uno di questi giornali fino al giorno in cui varcai, timida insegnante fresca di laurea, la porta di una classe.
Anche se finivano a mollo nella vasca da bagno, per farne delle palle da asciugare al sole sul terrazzo d’estate e utilizzare d'inverno come combustibile povero, quelle due fonti d’informazione - mio padre diceva la linea di partito e la linea di governo - sintetizzavano l’esigenza del suo controllo, di lettore, sulla notizia.
Perché la notizia deve essere verificata a monte e a valle, non può essere soltanto “urlata”e ridotta a immagine ( bisognerebbe almeno sapere a quale criterio e obiettivo s’ispiri la selezione di queste immagini).
Quando arrivò in casa la TV, mio padre non smise di comperare i giornali: ampliò la sue fonti d’informazione, non smettendo di sbraitare nemmeno davanti a quel programma chiamato, se ben ricordo, Tribuna Politica. Spesso, io mi sedevo accanto a lui, ma di solito mi annoiavo; non era divertente, la politica non era ancora diventata spettacolo: era politica, come lo sport era sport e un film era spettacolo su base fantastica.
Quanto rapidamente, annullando la dimensione spazio/ temporale alla quale il giornale è soggetto e rendendo di fatto la notizia, attraverso una spettacolarizzazione sempre più accentuata, uno show, la TV diventò la fonte d’informazione più seguita?
Molto rapidamente.
“L’hanno detto in TV, prof.” avrebbero strillato di lì a poco, facendomi imbufalire, i miei alunni. Questo mezzo d’informazione di massa, assurto, in breve, a nuova bibbia del sapere, cambiò l’approccio all’informazione, relegando nell’angolo i giornali. Ma il “Grande Fratello” di Orwelliana memoria, che entrava ormai in tutte le case, diventando baby sitter gratuita e alternativa chiassosa al vuoto di parole e sentimenti tra coniugi stanchi, poteva essere usato, anche e soprattutto, per ottenere e, successivamente, conservare consenso. Senza arrivare ( si spera) a indottrinare attraverso messaggi subliminali, la TV uniformava, omologandola verso il basso, l’opinione pubblica, appiattiva la società attraverso un impoverimento culturale favorito da scelte di programmi di pessimo gusto improntati alla volgarità, asserviti a nuovi valori emergenti come il successo, misurato dalla visibilità non dalla professionalità, il denaro, l’arroganza, la protervia, che altro non sono se non le caratteristiche del Potere, balzato in groppa e pronto a cavalcare la tigre dell’informazione, manipolandola per ottenere e conservare il consenso.
Nasceva e si sviluppava, intanto, a velocità supersonica, la terza fonte d’informazione: il Web. Un onnicomprensivo calderone dilatabile a dismisura in cui tutti scrivevano, caricando immagini, aggiungendo commenti, informando, sottolineando musicalmente, andando a zonzo nella blogsfera.
Il confine tra reale e immaginario si faceva e si fa, oggi, ancora più labile, le modalità di apprendimento dei nativi del web ne modificano addirittura i circuiti neuronali, la verifica sulle informazioni fornite si fa inconsistente come una tela di ragno. Tutto sfuma: siamo nel regno della contaminazione.
E’ bellissimo. E’ pericolosissimo.
Quali rimedi ci possono garantire un’informazione reale e corretta?
L’uso, critico e attento, di tutto ciò che abbiamo a disposizione: l’anima, filtrata attraverso la testa razionale e precisa, del giornalista e le sue gambe che lo portano in giro a scovare notizie, a chiedere a seguire ogni pista come un segugio, la potenza evocatrice dell’immagine in TV e il cuore, le emozioni e il confronto dei blogger che stanno scoprendo nuove forme di partecipacipazione e informazione dal basso.
E accettabile in un Paese moderno, civile, democratico, alla luce di quanto ho scritto, che il politico più importante del momento controlli in toto, anche se con modalità diverse, la televisione e buona parte della stampa? E che, caso unico in Europa e nel mondo occidentale, istituendo il reato d’informazione, renda punibile con ammenda e/o reclusione il diritto/dovere del giornalista di informare?
Non potendo imbavagliare le coscienze, si imbavaglia l’informazione?
Non dimentichiamo che il giornalista e scrittore Saviano, per avere informato con il suo libro "Gomorra" e i suoi articoli e post i lettori sulla realtà della mafia nel nostro Paese, viaggiava sotto scorta, prima di essere costretto a emigrare.
Vogliamo, dopo l’emigrazione delle braccia, dei cervelli e delle coscienze, diventare il Paese da cui saranno costretti a fuggire anche i giornalisti, per poter fare il loro lavoro, che è soltanto quello di informare?
Vi invito a riflettere e a sottoscrivere l'appello su Repubblica a tutela della libertà d'informazione.

mercoledì 10 giugno 2009

I Dellapicca(la delusione)

Appena entrato nella locanda, il veneziano si guardò intorno cercando Maria con gli occhi, e, quando ne incrociò lo sguardo, si diresse verso il bancone, fissandola con insistenza. Lei sembrò rifugiarsi, acquattarsi come un animale inseguito in quello sguardo che sbiadiva, offuscandolo, lo squallore intorno a lei, mentre le chiedeva: “Avete lavato la mia roba?” e lei rispondeva annuendo, il sorriso, come una fiaccola accesa nell’oscurità della notte, che la accendeva, attirando gli sguardi sulla sua gola piena e sul volto incorniciato dai riccioli chiari, sfuggiti alla treccia, che a ogni movimento sembravano danzarle intorno al viso.
“Vi dispiace portarmela in camera?” e il suo tono era quello che usava con i domestici ma, prima di seguirla, rivolto al Moro gli disse: “ Vi ho fatto sistemare altrove. Ci sentiamo domani” , seguendo con gli occhi la giovane donna che si dirigeva verso la cucina.
Pochi minuti dopo la vide salire lungo la scala che portava al piano superiore, la cesta che posava sulla rotondità del fianco e una mano a sollevare, svelandone le caviglie sottili, la gonna per non incespicare.
Sigismondo la seguiva.
Arrivarono insieme davanti all’ingresso della sua stanza, lui si fece da parte cedendole il passo e lei, ringraziandolo con un cenno del capo, entrò e appoggiò la cesta sul letto togliendone la biancheria pulita. Quando si voltò per uscire, il suo volto s’irrigidì mentre negli occhi affiorava lo stupore. Si voltò, rigida, verso l’uomo che le si stava avvicinando e con voce decisa gli disse: “Aprite per favore”. Poi azionò la maniglia, la mano agitata da un tremito improvviso, tentando di uscire, ma lui era già alle sue spalle, le mani avide che l’afferravano alla vita, il suo fiato sul collo. Aprì la bocca per gridare ma Sigismondo, dopo averle afferrato il viso, gliela tappò con la mano. Poi la baciò. La ragazza voltò la faccia, riuscendo per un istante a divincolarsi, mentre, schifata, si passava il dorso della mano sulle bocca, a cancellarsi di dosso l’impronta di quelle labbra, ma l’uomo, in preda a una eccitazione febbrile, le fu addosso di nuovo.
“ Stai ferma, non ti faccio male…” La spinse sul letto, le sue mani che scivolavano sotto la gonna,
mentre lei si difendeva con tutte le sue forze, cercando nuovamente di gridare, gli occhi sbarrati dalla paura. Poi, sembrò cedere, abbandonarsi…
“ Brava, fai la brava…” ebbe appena il tempo di mormorare Sigismondo prima che una violenta ginocchiata al basso ventre lo facesse mollare la presa. Mentre l’uomo si raggomitolava su se stesso, imprecando, Maria, dopo aver afferrato la chiave della stanza dalla tasca della sua veste si precipitava ad aprire, uscendo di corsa senza nemmeno afferrare la cesta. Sconvolta, rimase un attimo in ascolto, ma il rombo del sangue nelle orecchie sovrastava qualunque rumore. Si annodò la treccia sfatta intorno al capo alla meno peggio, cercando di controllare il tremore alle mani.
Nell'oscurità delle scale, il volto che s’intravedeva appena sembrava conservare più della traccia di quelle mani insolenti la vergogna che lei stava provando e la delusione che affiorava in lei confusamente, mentre cercando di assumere un’aria il più possibile normale, si allontanava dal pianerottolo scendendo a precipizio la scala.
Dalle scale saliva il Moro che si scansò per lasciarla passare, incrociandone per una frazione di secondo lo sguardo, che lei abbassò confusa, mentre una vampata di rossore le accendeva il volto pallido e la bocca s’increspava nello sforzo di trattenere il pianto.
Le mani del Moro si contrassero a pugno e un borbottio aspro e incomprensibile gli usci dalle labbra, mentre riprendeva a salire, ma lentamente, quasi quel suo corpo muscoloso e scattante si fosse afflosciato, perdendo la sua forza come una vela vuota di vento.

martedì 9 giugno 2009

Speranza collettiva e connettiva

The day after … le elezioni cosa faccio? Vado per blog: a caso, come farei in una città sconosciuta addentrandomi in quartieri mai visti, senza alcuna indicazione, seguendo nella scelta delle strade il caso o l’intuito. E il popolo dei blog risponde. In che modo? Non ci sono regole: qualcuno, precisino, snocciola dati citando le fonti, altri rimandano, con link che – appena sfiorati - lampeggiano invitanti, a post, informazioni e commenti ritenuti interessanti, o divertenti. Ne inserisco qualcuno anch’io. Trovo riflessioni e analisi che condivido: ad alcune ero arrivata da sola, altre mi risultano totalmente nuove.
Qualcuno mi fa incavolare e taglio la corda, lasciandomelo alle spalle, come farei con un seccatore che mi inseguisse per vendermi qualcosa. Oggi, che il Venditore non l’abbiamo messo alle corde, di chiacchiere sputate contro vento non sento il bisogno, ma di confronto sì, e di appartenenza pure.
Ho scritto un paio di “Ti capisco” e qualche “Abbiamo fermato la sua marcia trionfale."
Poi ho lasciato in giro qualche domanda: quelle che più mi frullano per il cervello: insistenti, fastidiose come mosche ronzanti. Cristo!, perché la sinistra non si compatta, non si coagula intorno a un ideale comune, a un obiettivo valido? Risposte me ne sono già date, ma magari mi è sfuggito qualcosa. Cos’è che mi spinge a andare per blog? E’ voglia di confronto, è risata, ghigno o sorriso che condivido. Ma anche passione, rigore logico, preparazione. E pure rabbia. Non mancano tristezza e malinconia.
E - non dimentichiamolo - speranza.
Ricordo mio padre, sindacalista, che diceva “La rabbia di uno è solo frustrazione e disperazione, la rabbia di tanti è forza, è dall’unione che scaturisce questa forza…” E sorrideva, negli occhi accesi gli brillava la speranza.
Perché nel web non è soltanto intelligenza connettiva e collettiva che prende forma, ma anche speranza che, alimentandosi di mille rivoli, potrebbe crescere … diventare uno tsunami: un’onda anomala che tutto travolge prima di ritirarsi lasciando sulla spiaggia, rubato alla profondità degli abissi, no, non una conchiglia ragazzi, qualcosa di ben più raro e prezioso.
Beh, qualcuno ha trovato un uomo, cinquantenne, sottile, elegante…
Un concentrato di speranza connettiva e collettiva.
E’ successo, è successo…
Dove, mi chiedete?
Negli Stati Uniti.