mercoledì 20 maggio 2009

I Dellapicca

Il Moro remava con movimenti regolari e misurati, lasciandosi la città, che si risvegliava, alle spalle.
Sigismondo si voltò per un istante, provando lo stupore che quella città incredibile suscitava in chiunque la vedesse, e non soltanto la prima volta. Nella nebbia leggera rilucevano gli ori, gli smalti e le cupole. Un rintocco di campane e il brusio dell’Arsenale, dove il lavoro riprendeva, arrivavano a tratti portati dalla brezza.
Due velieri, vele al vento, lasciavano la città.
Il Moro si avvolse nel mantello e si coprì il viso, mentre alle sue spalle il padrone si adagiava sul fondo della barca, mimetizzandosi sotto ai sacchi di cui si erano riforniti per far credere di essere in mare di primo mattino, come tante altre barche, a trasportare in città della merce. Dietro a loro si accodò una barca che, dalle parole pronunciate dall’uomo che si sporgeva agitando un braccio, risultò essere occupata da guitti.
“ Ehi, avete dell’acqua? Siamo partiti in fretta, dopo la recita di ieri sera.”
Sigismondo, che spiava tra i sacchi, sollevò la testa in tempo per vedere il veliero superarli e filare, vento in poppa, ormai in mare aperto. Rassicurato emerse dal suo nascondiglio allungando all’altra barca l’acqua che gli veniva chiesta. In condizioni normali non si sarebbe sognato di rivolgere loro la parola, ma non voleva insospettirli e, quindi, tentò di fingersi uomo del popolo.
“ Dove andate?” chiese uno degli attori.
“ Andiamo a prendere verdura e frutta in terraferma. Cosa avete recitato ieri sera?”
“ Goldoni”
“ Ah! Goldoni, conosco tutte le sue commedie” rispose Sigismondo
“ Con Arlecchino, servitore di due padroni abbiamo riempito il teatro, ma Venezia non è più quella di una volta” borbottò il capocomico, guardando Sigismondo con aria vagamente interrogativa e una punta di sospetto nello sguardo.
Il Moro si voltò e disse: “ E’ un gondoliere e può entrare gratuitamente perché s’impegna a applaudire o fischiare…”
L’uomo lo interruppe e, ridendo, disse” Spesso siete la nostra rovina”, quindi, dopo averli ringraziati, il capocomico si assestò alla meno peggio all’interno della barca che, con quattro persone ai remi, li distanziò nel giro di pochi minuti.
“ Padrone, non è prudente esporsi in questo modo. Vi stanno cercando. Riparatevi sotto ai sacchi e cercate di non dare nell’occhio.”
Sigismondo di malavoglia si allungò sul fondo della barca. Stavano cercando di raggiungere Trieste, la città che, proclamata porto franco dal padre di Maria Teresa d’Austria nel 1719, lui era ancora un bambino, ormai rivaleggiava con Venezia. Aveva avuto una grande espansione, ma non vantava la tradizione musicale, teatrale e culturale che avevano reso, a pieno diritto, la sua città una delle mete del “Grand Tour” , il viaggio iniziatico, di dovere per ogni gentiluomo. Frequentatore assiduo di case da gioco, di teatri, di caffè veneziani nonché galante cicisbeo di alcune tra le più fascinose dame patrizie, Sigismondo si chiedeva come avrebbe potuto sopravvivere lontano da Venezia.
La nostalgia per il suo mondo, raffinato e perduto, già gli mordeva l’anima, mentre i ricordi affioravano senza tregua, quasi un riepilogo finale prima del commiato definitivo, non soltanto da una città, ma da un modo di essere e di vivere. Poi, avrebbe dovuto affrontare l’ignoto.
Allungò la mano per assicurarsi che i gioielli di famiglia, che il Moro aveva nascosto cucendoli nel risvolto degli stivali, fossero ancora lì, quindi, esausto, la traccia scura della barba che gli illividiva il volto, piombò in un sonno senza sogni.(continua)

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