venerdì 30 aprile 2010

La casa delle bambole - racconto a puntate - (n°16)

Era notte fonda quando quel trillo perforante mi strappò al sonno. Allungai una mano e la stanza s'illuminò della luce discreta e ovattata che spandeva all'intorno la lampada posta sul comodino. L'orologio segnava le due di notte. Mi alzai,  rinunciando a infilare le ciabatte e, con il cuore che aveva incominciato a saltarmi nel petto togliendomi il respiro, entrai nel soggiorno e alzai il ricevitore.
"Pronto, Giovanna Marini?"
Voce sconosciuta quasi quanto la mia che, strozzata , tanto da rendermela irriconoscibile, infranse il silenzio della notte " Sì, è successo qualcosa?"
"Qui Ospedale Maggiore di Trieste: lei è una parente di Maria Marini?"
"Sì" risposi, senza osare chiedere altro.
"Figlia?"
"E' mia madre... "
In gola, messe di traverso come un boccone indigesto, parole che non riuscivo a pronunciare.
"E' ricoverata nel reparto di terapia intensiva; ha avuto un infarto", continuò quella voce dall'accento triestino che mi riportava alla città dove ero nata e cresciuta, sprofondandomi nell'angoscia del presente che sembrò, in quel momento, ricongiungersi senza soluzione di continuità al passato, come se nella mia vita la costante sotterranea appena venuta alla luce fosse, da sempre, l'angoscia.
"Parto immediatamente!".
"Va ben, ma la se movi".
Tornai in camera e, in pochi minuti, mi ritrovai sulla porta d'ingresso, con un borsone tra i piedi, lo sguardo che  scivolava sulla casa e sugli oggetti,  a imprimere nella memoria l'ultima immagine di me, figlia,  inserita in un contesto noto. Percepivo con chiarezza che al mio ritorno sarei stata orfana, e non solo di madre. Avrei potuto infilare la testa sotto la sabbia e ritenere Gloria una mitomane, ma ormai eravamo andate troppo oltre. Il destino aveva deciso di togliermi ogni sicurezza - pensai, mentre mi chiudevo la porta alle spalle e pigiavo il pulsante dell'ascensore.
Il cielo era nero, qualche stella appariva e scompariva, brillando fiocamente prima di celarsi dietro a una nuvola. L'aria della notte, brusca e umida, annunciava pioggia, o quella sensazione di pioggia era un bisogno di lacrime che non riuscivo a versare?
La macchina aggrediva ora la notte, volando sull'asfalto, strade vuote e silenziose, curve, semafori dalla luce intermittente che mi sfilavano davanti agli occhi. Riuscivo a non  divagare, concentrata su un unico pensiero: arrivare in fretta, più in fretta possibile per dirle... Cosa? Le parole che non avevo mai osato pronunciare? O rinunciare a sapere, chiudendomi nella falsità facendomene scudo. La verità è una gran balla se qualcuno non te la carica subito in spalla. Alla  verità, come alla libertà, è necessario essere abituati fin da bambini, per identificarla in mezzo alle bugie e per avere il coraggio di viverla.                       
Il cielo cominciava a schiarire a Oriente, alla mia destra riconobbi Marghera e il baluginio d'oro delle cupole delle chiese veneziane. Stridiì di gabbiani si incrociavano nell'aria e ora, evocati dai luoghi,  i ricordi arrivavano a folate: stavo  infatti costeggiando le città che mi avevano visto sposa,  stregata dalla malia  di una terra di uomini che su imbarcazioni nere come rondini  e sinuose come corpi di donne scivolano sul pelo dell'acqua come cigni in uno stagno.  A Venezia avevo amato un musicista...
Ora sorgeva il sole e quando mi si parò davanti il Carso con le doline bianche di margherite, i muretti a secco a delimitare vigneti piccoli e contorti battuti dal vento e strappati alla roccia, capii che ero a casa. Infilai la strada che portava a Trieste: davanti a me si spalancavano spazi azzurri di cielo e mare che si rincorrevano all'infinito, pigre le prime barche sfidavano il borin . Orlate di effimeri  pizzi di schiuma, si schiantavano sulle rocce le onde. lImmutabile la voce del mare si univa al canto del vento e  mi accoglieva una marcia trionfale, consacrandomi Sposa del Mare e Signora del Vento, come da bambina, quando nelle notti di tempesta andavo nel letto di mia madre che ordinava alle padrone del mare di calmarsi, per non disturbare il mio sonno.
Quando frenai davanti all'ospedale singhiozzavo ancora, ma dolcemente. (continua... )

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